Poeta e umanista (Arezzo 20 luglio 1304 - Arquà, od. Arquà P., tra il 18 e il 19 luglio 1374). Nato ad Arezzo da Eletta Canigiani e da ser Pietro di ser Parenzo dell'Incisa in Valdarno, che era stato bandito da Firenze nel 1302 per dissidî personali con il potente Albizzo Franzesi, visse i primi anni all'Incisa, quindi a Pisa (1311). Nel 1312 ser Pietro (designato nei documenti anche come Petracco o Patrarca), di professione notaio, si trasferì ad Avignone, sede della curia papale, sistemando la famiglia (con il secondogenito Gherardo, nato forse nel 1307) nella vicina Carpentras. Qui P. studiò per quattro anni sotto la guida di Convenevole da Prato, finché (1316) il padre non lo mandò a studiare legge a Montpellier. Nel 1318 o nel 1319 perse la madre, pianta in versi latini che sono i più antichi rimastici di lui (Epyst. I, 7). Dal 1320, insieme con il fratello, continuò di malavoglia a Bologna gli studî giuridici, che abbandonò definitivamente nel 1326, alla morte del padre; e qui è probabile che facesse le prime prove poetiche in volgare. Si stabilì quindi ad Avignone, dove fu presto costretto dalle ristrettezze economiche a prendere gli ordini minori (indispensabili per avere i numerosi benefici ecclesiastici che lo avrebbero messo al riparo dal bisogno durante tutta la vita). Sono gli anni che P. descriverà più tardi come dediti alla vuota mondanità, durante i quali si colloca l'amore per Laura, episodio certamente marginale nella sua vita reale ma determinante nella sua biografia letteraria, essendo destinato a diventare il mito principalissimo della sua lirica. Secondo il racconto del poeta, l'amore cominciò il 6 apr. 1327, un venerdì santo, quando Laura (di cui con insistenza ma senza sicuro fondamento si è proposta l'identificazione con una Laura o Laureta de Noves, sposata a Ugo de Sade) gli apparve la prima volta nella chiesa di S. Chiara in Avignone; lo tenne "anni ventuno ardendo"; e non cessò neppure dopo la morte di Laura, che sarebbe avvenuta, con singolare coincidenza, il 6 apr. 1348. Nel 1330 P. seguì Giacomo Colonna (già suo condiscepolo a Bologna), che era stato creato vescovo di Lombez, in Guascogna; indi passò alla corte del cardinale Giovanni, fratello di Giacomo, ad Avignone. Nel 1333, nel corso di un lungo viaggio nella Francia del nord, nelle Fiandre e nel Brabante, scoprì a Liegi l'orazione ciceroniana Pro Archia, dando inizio alle scoperte umanistiche. Aveva intanto cominciato ad affiancare alla lettura dei classici quella dei testi sacri e degli antichi scrittori cristiani. A questo periodo risale anche la preparazione di un'edizione delle tre decadi superstiti di Livio, successivamente integrate dai resti di un'altra decade e riunite per la prima volta in un codice, che fu poi del Valla e si conserva ora a Londra (ms. Harl. 2493). Verso la fine del 1336 ai recò in Italia; e da Capranica, dove s'era fermato ospite di Orso dell'Anguillara, giunse a Roma, meta lungamente sognata dalla sua fantasia. Nel 1337 si ritirò in Valchiusa, presso le sorgenti del fiume Sorga, dove collocò la scena del suo amore, e affermò di aver concepito la maggior parte delle sue opere. Il 1° sett. 1340 gli giunsero contemporanei e non inattesi inviti, da Parigi e da Roma, per l'incoronazione poetica; scelse Roma, ma prima volle essere esaminato da Roberto d'Angiò, re di Napoli. Dopo l'incoronazione, avvenuta in Campidoglio l'8 apr. 1341 per mano del senatore Orso dell'Anguillara e in occasione della quale pronunciò un'orazione (Collatio laureationis, tramandataci da un unico ms.), P. si recò a S. Pietro e depose la sua corona sull'altare. Di ritorno da Roma, si fermò a Parma, ospite di Azzo da Correggio; poi dimorò, nei dintorni della città, nella solitudine di Selvapiana, dove stabilì il suo rifugio italiano. Tornato ad Avignone nel 1342, vi conobbe Cola di Rienzo, recatosi in quella città con un'ambasceria inviata da Roma. L'anno successivo gli nasceva la figlia Francesca (nel 1337 aveva già avuto un altro figlio naturale, Giovanni), mentre la monacazione del fratello Gherardo nella certosa di Montrieux (Pasqua 1343) produsse in lui impressione profonda e intenso turbamento: di questo periodo di crisi sono stati ritenuti documento il Secretum e forse anche i Psalmi penitentiales. Nell'ottobre del 1343 tornò a Napoli per incarico del card. Colonna; di lì passò a Parma, dove assistette alla guerra nata per il possesso della città donde, con una fuga avventurosa, riparò a Bologna e poi a Verona. Qui, nella biblioteca capitolare, scoprì, secondo l'opinione corrente, le lettere ciceroniane Ad Atticum, Ad Quintum e Ad Brutum. Sulla fine del 1345 tornò ad Avignone, dove compose molti scritti (Bucolicum carmen, De otio religioso, De vita solitaria). Ma intanto, avviata a Roma nel maggio 1347 l'impresa di Cola di Rienzo, P., che non aveva mai cessato di chiedere il ritorno della curia pontificia nella sua sede originaria, aderì con entusiasmo al disegno di Cola. Nel novembre partì dalla Provenza, probabilmente con lo scopo segreto di raggiungere Roma; ma, mentre era a Genova, ebbe notizia che la fortuna del tribuno tramontava e i Colonnesi rientravano in città. Questa e altre ragioni resero inevitabile la rottura del suo rapporto col card. Colonna. Da Genova si recò a Verona e quindi a Parma, dove aveva uno dei suoi benefici ecclesiastici e dove, nel maggio del 1348, l'amico Ludovico di Kempen lo informò della morte di Laura (notizia che P. volle annotare sul prezioso Virgilio che aveva avuto in dono da suo padre e che ora si conserva alla Bibl. Ambrosiana). I due anni successivi sono occupati da frequenti spostamenti, anche per missioni diplomatiche. Nel 1350, dirigendosi a Roma per il giubileo, passò dalla sua città natale e da Firenze, ove poté incontrare amici e ammiratori, primo fra tutti Boccaccio, che probabilmente anche dall'esempio petrarchesco fu indotto a modificare in senso umanistico-erudito la direzione della sua attività letteraria. Nell'anno successivo Boccaccio andò a trovarlo a Padova, ambasciatore della signoria fiorentina, che restituiva a P. i beni confiscati al padre e gli offriva una cattedra nello studio della città. L'invito non fu respinto, ma intanto P. fece ritorno ad Avignone, dove lavorò col solito fervore, soprattutto a sistemare, in opere quanto più possibile organiche, l'immenso lavoro sparso. Nel dicembre del 1352 morì Clemente VI e gli successe Innocenzo VI, che non era ben disposto nei suoi confronti; ciò contribuì forse ad affrettare una decisione da lungo meditata, sicché P. nell'apr. 1353 rientrò definitivamente in Italia. Incerto dove fermarsi, fu trattenuto a Milano dall'arcivescovo Giovanni Visconti, signore della città; e ivi restò, anche con i nipoti di Giovanni, per otto anni, prestando importanti servigi diplomatici (tra l'altro presso l'imperatore Carlo IV di Boemia, che lo elevò alla dignità comitale) e difendendo la politica viscontea, malgrado le concordi critiche e l'addolorato stupore degli amici. Nonostante l'intensa azione politica, il periodo milanese di P. è uno dei più fecondi dal punto di vista letterario (De remediis utriusque fortune; Triumphi). Nel 1362, incalzato dalla pestilenza, che lo privò del figlio Giovanni e dell'amico Ludovico di Kempen, tornò a Padova e di là a Venezia, dove la Repubblica gli concesse una casa sulla Riva degli Schiavoni. Qui si fece raggiungere dalla figlia Francesca e dal marito, Francescuolo da Brossano, con i quali nel 1370 si ritirò in una villetta ad Arquà sui colli Euganei, ove soggiornò di preferenza negli ultimi anni della sua vita. Superata una sincope che nel 1370 l'aveva colto a Ferrara, continuò a operare politicamente, e soprattutto a scrivere indefessamente, fino alla morte (sempre nel 1370 a Padova aveva dettato il suo testamento, che ci rimane; ed. crit. di E. Mommsen, 1957). Dopo la sua morte, lo scolaro prediletto Lombardo della Seta completò l'Epitome e il Compendium del De viris illustribus e fece allestire molti codici delle opere del maestro, che da Padova furono largamente diffusi. Dei libri posseduti da P., e di quelli preparati da Lombardo, una parte cospicua arricchì la biblioteca del signore di Padova, Francesco da Carrara, donde nel 1388 passò a quella di Pavia, dei Visconti, poi degli Sforza, e infine a quella del re di Francia Luigi XII; si conservano ora nella Nazionale di Parigi. Ma altri libri seguirono vie diverse, ricercati con interesse dovunque da ammiratori di P. e da umanisti; di alcuni di essi restano apografi, in cui furono trascritte con cura anche le postille petrarchesche, documento dei suoi vasti e scaltriti interessi filologici. Di P. si possiedono numerosi autografi (a cominciare dal codice dei Rerum vulgarium fragmenta, ms. Vaticano Latino 3195, scritto da lui personalmente e in parte sotto la sua sorveglianza), i quali consentono di seguire l'evoluzione della sua scrittura, nei testi e nelle glosse, che prepara di lontano la libraria umanistica, e si suole ora indicare con il nome di semigotica.
Per tutto il sec. 14° P. fu ammirato essenzialmente come elegantissimo scrittore in latino. I contemporanei non poterono leggere, perché pubblicato solo nel 1396, il poema Africa (1338-41; poi corretto e ricorretto dal 1343 e rimasto incompiuto), negli esametri del quale, travasandovi la sua personale inquietudine e una sensibilità tutta cristiana, aveva tentato di risuscitare le forme del poema epico antico. Conobbero invece, tra le opere in versi latini, le Epystole, già note come Epystole metrice (66 epistole in tre libri, le databili delle quali, a prescindere dai versi in morte della madre, vanno dal 1333 al 1354; l'opera di raccolta e di revisione di esse passò per tre fasi, negli anni intorno al 1350, al 1357, al 1363; una nuova epistola è stata scoperta e pubbl. da M. Feo nel 1985); ebbero a disposizione l'autografo del Bucolicum carmen (12 egloghe, 1346-48; modificate e corrette più volte in seguito), allestito dal poeta nel 1357; si formarono sulle numerosissime lettere, ricercate al punto che parecchie di esse, intercettate da ammiratori, non giungevano ai destinatarî. P. stesso pensò a proporne organiche raccolte, sul modello dell'epistolografia ciceroniana (ma con un'attenzione speciale per il modello senechiano) eliminando da esse quel che vi fosse di troppo personale e contingente, per farne esempî perennemente validi di alta letteratura e di nobile insegnamento e per tramandare di sé un'immagine quanto più possibile degna d'essere avvicinata alle biografie esemplari dei grandi uomini di Roma. Familiarium rerum libri XXIV s'intitola una scelta di 350 lettere, la più antica delle quali, tra le databili, risale al 1325; il lavoro di scelta e adattamento si protrasse, in varie fasi, dal 1349 (o, secondo alcuni, dal 1345) al 1366. La raccolta comprende, salvo qualche eccezione, lettere sino al 1361, giacché con questo anno s'inizia una seconda raccolta, quella delle Seniles (125 lettere in 17 libri). Questa avrebbe dovuto concludersi con una lettera ai posteri (Posteritati), autobiografia incompiuta, il cui racconto giunge al 1351. Altre 19 violente epistole contro la Curia avignonese (1342-58) costituiscono la raccoltina delle Sine nomine (titolo che allude alla mancanza dei nomi dei destinatarî, omessi per ragioni di prudenza); altre lettere ancora rimasero fuori da ogni raccolta. Ma il più importante documento della spiritualità petrarchesca è il Secretum (propr. Secretum meum, titolo chiarito con la didascalia: de secreto conflictu curarum mearum; scritto a lungo noto con l'errato tit. De contemptu mundi), composto nel 1342-43 (o, secondo studî recenti, in tre fasi successive tra il 1347 e il 1353). Con lucida e spesso spietata introspezione, P. svela quale sia la sua segreta malattia, quella debolezza della volontà che non gli consente di volere veramente ciò cui pure aspira; e il senso del peccato che gli viene dalla coscienza di non amare così esclusivamente Dio da immergersi totalmente in lui, dimenticando ogni affetto terreno. Due trattatelli, il De vita solitaria (scritto nel 1346, ampliato più tardi) e il De otio religioso (composto nel 1347, rimaneggiato successivamente), vagheggiano l'otium che sarebbe stato detto umanistico, in una solitudine resa più dolce da molti libri e pochi scelti amici, o nella spiritualmente feconda contemplazione di Dio. A questo gruppo di scritti morali-religiosi sono da aggiungere la prosa ritmica dei sette Psalmi penitentiales, d'incerta datazione, e un Itinerarium breve de Ianua usque ad Ierusalem et Terram Sanctam, più noto col titolo vulgato Itinerarium syriacum (1358): una guida dei paesi da attraversare per recarsi dall'Italia in Terrasanta. ▭ Notevolissimi sono poi gli scritti storici, il De viribus illustribus, le cui vicende di composizione (v. la voce) riflettono lo svolgimento dell'umanesimo petrarchesco, inteso a una conciliazione e fusione tra ideali pagani e cristiani della vita, e i Rerum memorandarum libri, ambedue incompiuti. Opera autonoma era il De gestis Cesaris, poi inserito nel De viris (cui si può anche ricollegare una Collatio inter Scipionem, Alexandrum, Annibalem et Pyrhum, di recente rinvenuta e pubbl. nel 1974). Dei libri Rerum memorandarum (1343-45) ne restano quattro e un frammento di altro libro, con esempî di virtù umane nobilissime, tra i quali (con una scelta pressoché isolata in tutta l'opera sua) P. ammette anche fatti e detti di personaggi contemporanei. ▭ Di natura morale è il De remediis utriusque fortune (iniziato nel 1354 e terminato e pubbl. nel 1366), in due libri, una specie di manuale, assai letto nel Rinascimento, che passa in rassegna ogni possibile fortuna o disgrazia, suggerendo le ragioni che consigliano di non insuperbirsi della prima, di non lasciarsi abbattere dalla seconda. Vivacissime sono infine alcune operette polemiche: il De sui ipsius et multorum ignorantia (1367), contro quattro averroisti veneziani che lo avevano qualificato "uomo dabbene ma ignorante"; gli Invectivarum contra medicum quendam libri IV (1352-55), nei quali è soprattutto interessante la difesa della disinteressata poesia contro le "arti meccaniche"; l'Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis (prob. del 1355), contro il card. Giovanni de Caraman, che sparlava di lui; l'Invectiva contra eum qui maledixit Italie (1373, nota anche come Apologia contra cuiusdam anonymi Galli calumnias), cioè contro Giovanni di Hesdin, sostenitore delle ragioni francesi nella disputa pro e contro il trasferimento della sede papale da Avignone a Roma. ▭ Non solo per le sue scoperte di testi, per la sua erudizione o per la sua prodigiosa padronanza del latino, P. deve essere considerato l'iniziatore di quel grande moto spirituale e culturale che poi si chiamò umanesimo, ma per aver sentito e comunicato l'esigenza di sostituire all'ingenuo medievale vagheggiamento di un'antica Roma dai favolosi contorni una conoscenza diretta e critica, attraverso le testimonianze dei classici rigorosamente controllate e comparate tra loro; e per aver restituito alla modernità il patrimonio di due tradizioni, quella classica e quella cristiana, finalmente conciliate e anzi rese complementari. In nome di questa consapevolezza, che ne fece il vero dominatore dell'Europa colta del sec. 14°, P. difese le ragioni della tradizione letteraria contro le pretese di scienziati e filosofi e trattò da pari a pari con i grandi della terra, perseguendo un ideale di sapienza capace di competere con quello tramandato dagli antichi.
Dalla seconda metà del Quattrocento, oscuratasi lentamente la fama dell'umanista, rifulse quella del poeta in volgare: P. divenne, in Italia e fuori, modello insuperabile di poeta lirico. Anzi, il petrarchismo (v.), oltre che un modo di poetare, è nel Cinquecento uno stile di comportamento, sì che permea ogni scrittura e la vita stessa: l'una e l'altra non obbedienti agli impulsi, all'estemporaneo, ma costantemente controllate secondo una legge d'interna armonia. A questa immagine di sovrana armonia, P. perviene costruendo il suo libro poetico (v. Canzoniere) come un'autobiografia ideale in sé conclusa e con una sua morale (sul modello prossimo della Vita nuova dantesca). Mentre i componimenti si intrecciano e si richiamano l'un l'altro, la storia di uno straordinario rapporto amoroso scandisce un'esistenza altrimenti ritenuta irrilevante, conferendo il rilievo di eventi assoluti a una trama di circostanze memorabili solo in virtù di quell'amore. In quello che sarebbe poi diventato il Canzoniere per antonomasia (e che P. aveva intitolato Rerum vulgarium fragmenta), il poeta, se possibile ancora più incontentabile che di fronte alle sue opere latine, mette a punto perciò innanzitutto un linguaggio straordinariamente selettivo (i cui lemmi ammontano appena a 3275), non solo di fatto diverso da quello degli altri suoi libri o delle sue abitudini di intellettuale, ma sottratto alle occorrenze della vita reale, elevato alla rarefatta atmosfera di un sovramondo fantastico e deputato alla rappresentazione di una vicenda esclusivamente interiore, destinata a fornire la traccia lungamente immutabile di canzonieri e amori letterarî. Se l'amore è soprattutto un mito letterario, il centro ideale cui il poeta fa convergere le linee fluttuanti di stati d'animo contraddittorî, nonché un omaggio alla recente tradizione letteraria romanza (dalla poesia provenzale a quella siciliana a quella stilnovistica), che imponeva d'incentrare nell'amore e nella donna ogni più varia esperienza, P. se ne serve per cantare il più generale destino di un'attitudine contemplativa che non ha potuto evitare l'esperienza dello smarrimento, ma è dolorosamente tornata in sé, cioè alla considerazione della labilità, e perciò della vanità, d'ogni bellezza e d'ogni bene terreno, compresa la gloria letteraria. Di qui nasce il pensiero di Dio, il vero deuteragonista della lirica petrarchesca. Nell'atto con cui il poeta tenta di respingere da sé il desiderio d'amore e quello della gloria, si deve però leggere il coronamento delle sue più profonde aspirazioni e della poesia alla quale le aveva affidate. Lo smarrimento e la dispersione nei fragmenta poetici in tanto possono essere superati da uno slancio ulteriore, in quanto hanno già avviato dal canto loro il processo di semplificazione e di adeguamento simbolico di una mirabile esperienza intellettuale, decantandola perfino linguisticamente e inscrivendola nell'esemplarità delle sacre scritture. In questo orizzonte, ancora medievale, s'iscrive anche la scoperta petrarchesca dell'Io, che può diventare il protagonista della sua opera, solo perché riproduce il peculiare destino dei suoi allegorici predecessori e si offre a sua volta in questa veste ai posteri. A una più scoperta vocazione allegorica obbediscono i Triumphi (forse composti tra il 1351 e il 1352 e rimasti incompiuti; v. Trionfi), in cui il modello dantesco è direttamente operante fin dalla scelta del metro (terzine di endecasillabi) e P. sembra voler solo sistemare più schematicamente, con i successivi trionfi di Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo, Eternità, la stessa materia del Canzoniere. ▭ Nell'edizione nazionale delle opere di P. sono stati pubblicati: L'Africa (1926, a cura di N. Festa); Le Familiari (4 voll., 1933-42, a cura di V. Rossi e U. Bosco); Rerum memorandarum libri (1945, a cura di G. Billanovich); De viris illustribus (vol. I, 1964, a cura di G. Martellotti). I Trionfi e i Rerum vulgarium fragmenta si possono leggere nel testo critico rispettivamente stabilito da C. Appel (1901) e G. Contini (1949); si hanno inoltre buone edd. delle seguenti opere (col nome dei curatori in parentesi): Bucolicum carmen (1906, A. Avena); Invectiva contra quendam magni status hominem ecc. (1949, P. G. Ricci); Invective contra medicum (1950, P. G. Ricci); De otio religioso (1958, G. Rotondi). A cura dell'Accademia della Crusca sono state pubblicate le Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca (1971).