Petrarca, Francesco
L’opera in volgare di Francesco Petrarca (Arezzo 1304 - Arquà 1374) si esaurisce nelle 366 liriche d’amore che compongono i Rerum vulgarium fragmenta (indicato più comunemente, a partire dal Quattrocento, col titolo di Canzoniere) e nei Trionfi, poema allegorico di ascendenza classica in terzine dantesche. La restrizione al dominio poetico e la sperequazione quantitativa a fronte di una ben più ampia e articolata produzione latina sembrerebbero essere prove di una subalternità del volgare al latino, organica allo spirito intellettuale del tempo.
Resta tuttavia che, diversamente dalle più ambiziose opere latine (Africa, De viris illustribus) e dai Trionfi, solo il Canzoniere venne concluso, al termine di un lungo processo elaborativo, cominciato nel 1336-38 e proseguito per circa quarant’anni. Di tale complessa officina sono tracce evidenti la fitta stratificazione del manoscritto Vat. Lat. 3196 (il cosiddetto codice degli abbozzi) e la stesura definitiva del Vat. Lat. 3195, trascritta dal copista Giovanni Malpaghini, ma corretta e completata personalmente da Petrarca negli ultimi giorni di vita. La fortuna petrarchesca risulta legata soprattutto ai Fragmenta, capolavoro fondamentale per la storia della lingua e della letteratura nazionale.
Macchie petrarchesche si registrano già nei testi di poeti coevi o immediatamente successivi (Fazio degli Uberti, Antonio da Ferrara, Cino Rinuccini o Antonio degli Alberti; cfr. Trovato 1979: 22-23). Ma è nel Quattrocento che l’imitazione dei Fragmenta inizia a imporsi come una prassi ineludibile per i poeti non toscani (Giusto de’ Conti, ➔ Matteo Maria Boiardo, Cariteo, Jacopo Sannazaro), la cui produzione lirica si attesta come la punta più avanzata del processo di centralizzazione linguistica su base toscana, con incipienti effetti anche nella lingua d’uso. Il secolo, tuttavia, segna pure il momento di maggiore travisamento della lingua petrarchesca, pesantemente macchiata e ibridata da latinismi grafico-fonetici, localismi e fiorentinismi cosiddetti argentei.
La restituzione di un testo depurato e filologicamente prossimo all’originale trecentesco si ha con l’edizione delle Rime uscita nel luglio 1501 a Venezia presso Aldo Manuzio e curata da ➔ Pietro Bembo, che per l’occasione poté usufruire del citato Vat. Lat. 3195 (➔ editoria e lingua). Ma il punto di arrivo, inaugurale della stagione di un petrarchismo finalmente ortodosso, è segnato dalle bembiane Prose della volgar lingua (1525), che nel terzo libro forniscono all’italiano della poesia una vera e propria grammatica esemplata sulla lingua del Canzoniere.
Nel corso del secolo la diffusione sistematica e capillare della lingua petrarchesca secondo i precetti bembiani è assicurata e amplificata da una falange di prodotti editoriali come glossari, rimari, grammatiche e poetiche. Se i grandi poeti cinquecenteschi (Bembo stesso, ma di più Giovanni Della Casa, Giovanni Guidiccioni, Galeazzo di Tarsia) riuscirono a contemperare dialetticamente l’imitazione del modello con le più diverse suggestioni culturali e con il proprio talento individuale, i ‘grandi numeri’ del petrarchismo lirico cinquecentesco rispecchiano i tipici caratteri della letteratura di massa. In queste scritture l’imitazione si appiattisce su esiti sempre uguali, fortemente standardizzati, ma che assicurano uno straordinario collaudo della nuova norma linguistica. All’indomani delle Prose bembiane la pressione del modello è tale da condizionare le scelte anche di scrittori non lirici, come garantisce l’iter redazionale dell’Orlando furioso (➔ Ludovico Ariosto).
Dopo l’apoteosi del XVI secolo, il sistema linguistico e stilistico petrarchesco non smise di rappresentare un riferimento per il sistema normativo della poesia italiana, nonché di essere elemento di sostrato naturale per generazioni di poeti, dai minori e minimi fino ai massimi (➔ Torquato Tasso, Metastasio, ➔ Ugo Foscolo, ➔ Giacomo Leopardi). All’archetipo petrarchesco e al suo perpetuarsi si deve, direttamente o indirettamente, la gran parte dei caratteri della nostra lingua letteraria: aristocrazia e selettività, tradizionalismo fino all’epigonismo, distacco della ➔ lingua poetica da quella comune o della prosa (diversamente da quel che accade alla poesia anglosassone e francese).
Tale ricezione paradigmatica e normativa ha pregiudicato non poco una visione e un’analisi obiettive della lingua e dello stile dei Fragmenta, assorbendo di fatto l’imitato sugli imitatori (come già lamentava Leopardi, Zibaldone 4491) e riducendo troppo unilateralmente la sua miscela linguistica a ipostasi della levitas e della dulcedo, e a un’idea di «unilinguismo» (Contini 1951: 173), contrapposta al plurilinguismo della Commedia dantesca, che se non è scorretta appare limitativa e parziale.
A mettere in discussione il famoso giudizio continiano sono alcuni passi dei Fragmenta, laddove si fa riferimento a un programma di «vario stile» (Canz. I, 5: «del vario stile in ch’io piango et ragiono»), comprensivo anche di materiali e autori indicativi di asprezza linguistica – Guido Cavalcanti, Arnaut Daniel e soprattutto il Dante della canzone petrosa Così nel mio parlar voglio esser aspro, come risulta dalla canzone 70. Nella sestina doppia Canz. CCCXXXII, le dodici occorrenze in rima della parola stile documentano tutta la tensione dialettica e la variatio dei registri intrinseca alla lingua del Canzoniere: così lo stile è dolce (v. 3), successivamente agro e aspro (vv. 20 e 74; cfr. anche le roche rime del v. 32), in ogni caso sempre drammaticamente fluttuante (cangiando stile, vario, mutato, vv. 28, 35 e 64).
Anche stimolato da tali indicazioni d’autore, un nuovo ciclo di studi (Trovato 1979; Santagata 1990 e 1992; De Robertis 1997) ha finalmente restituito in tutta la sua ampiezza e complessità il palinsesto linguistico-culturale dei Fragmenta, mettendo in luce sì l’eleganza e l’armonia della forma finita, ma anche l’eterogeneità, i dislivelli e le relative tensioni di una scrittura consustanziale alla sfaccettata psicologia del soggetto poetico e del suo deuteragonista, Laura, alternativamente e imprevedibilmente «amica» e «nemica», «mansueta» o «disdegnosa et fera». Varietas, polimorfia, mescidanza di tratti e registri diversi condizionano tutti i livelli del libro: da quelli prettamente linguistici (fonologia, morfologia e sintassi) a quelli stilistici e metrici.
Da un esame anche superficiale della tavola metrica esce confermato il carattere non immediatamente tradizionale del Canzoniere, da intendersi come discontinuità dalla poesia duecentesca e, viceversa, solidarietà, ma non fideistica, con le innovazioni tecniche di Dante: ben nove sestine, un numero esiguo di ballate (sette, di cui cinque monostrofiche), una forma nuova come il madrigale, un uso del settenario nella ➔ canzone sottilmente alternativo alle regole dantesche. E avvicinano ulteriormente Petrarca alle novità dantesche la presenza statisticamente importante delle rime a terminazione consonantica e spesso difficile (-aspro, -atra, -etra, -orpo, -orse, -ulse, ecc.), così come serie di parole-rima non comuni (cfr. Trovato 1979: 88-119 e 145-49; Afribo 2009: 35-157). Infine, la ritmica del verso (➔ endecasillabo e ➔ settenario), anche grazie all’uso intenso e sopra la media della ➔ sinalefe e dell’apocope (cfr. Brugnolo 2004: 499-514), può vantare una densità di ictus e una tastiera di combinazioni che la situano ben al di là dei limiti prosodici del XIII secolo (cfr. Praloran 2003: 125-189).
Ragioni letterarie e non anagrafiche spiegano la fondamentale fiorentinità fonologica del Canzoniere (cfr. Vitale 1996: 36-139; Manni 2003: 191-203), come testimoniato dalla predominante adozione dell’➔anafonesi (costante in famiglia, lingua, consiglio, ecc.) o dall’evoluzione di ar a er nei futuri e nel condizionale.
Ma si tratta di una fiorentinità non unilaterale, ossia variata e contraddetta da una rete di opzioni aperte ad altre tradizioni poetiche e linguistiche, le quali insieme, recuperate e filtrate selettivamente, si ristrutturano come addendi cristallizzati di un’altra lingua, «trascendentale» (Contini 1951: 175) e poeticissima. Il che comporta, per es., che la lingua dei Siciliani (➔ Scuola poetica siciliana) può entrare nei Fragmenta solo autolimitando e disarticolando il proprio sistema.
Restano pertanto solo alcune tessere fonetiche significative, oppure il ➔ condizionale in -ia, preferito quasi del tutto a quello del fiorentino corrente, e prosastico, in -ei. Non sopravvive al contrario tutto ciò che era stato indiscriminatamente accolto nella precedente rimeria toscana: il ➔ futuro in -aggio, il condizionale che continua il piuccheperfetto latino (di cui si salvano solo le forme fora o foran), l’imperfetto in -ia, la cosiddetta rima siciliana, il cui unico esempio (di mano del copista) è emblematicamente confinato in un sonetto, Canz. CXXXIV, di programmatica impronta arcaizzante. Ma forme arcaiche vidimate dall’uso letterario e forme correnti sono fatte convivere, come nel caso della prima persona plurale del presente indicativo, dove la desinenza -emo (semo e avemo, Canz. VIII, 9-11) può incrinare eccezionalmente la stabilità di -iamo.
All’imitazione congiunta di latino, siciliano e provenzale, di contro all’uso fiorentino, andrà attribuita la schiacciante maggioranza delle forme monottongate nei lemmi ‘tecnici’ del dominio amoroso, come foco, core, loco, a fronte di una equa alternanza di ➔ dittongo e ➔ monottongo in parole non marcate (ad es. bono / buono, véne / viene). Le succitate fonetiche non fiorentine, a cui si aggiunga quella toscana-orientale e dunque guittoniana, decidono pure i casi, per quanto minoritari, di e al posto di i in posizione atona: de preposizione, le forme proclitiche dei pronomi atoni me e se, le non sporadiche serie del genere di aitarme, mostrarte, parme o farme, preferite in punta di verso (per es. farme quattro volte in rima e due non, mai in rima farmi), la conservazione dei prefissi de- e re- (destrutto, depigne, refugio, refulse). Attraversano i Fragmenta ➔ cultismi come fenestra, securo, mesurare, enchiostro, laberinto, medolla, ecc., ed è notevole, contro i siciliani e danteschi disio e disire, l’opzione esclusiva per i già guittoniani desio e desire, forme poi accolte nei canzonieri di Bembo e Della Casa, nonché ancora «assai vitali» nella poesia ottocentesca e primonovecentesca (Serianni 2009: 67).
Il latino, oltreché responsabile della costante patina grafico-fonetica del manoscritto (ma prevalentemente ascrivibile all’usus del copista Malpaghini), rifornisce la lingua petrarchesca di ➔ allotropi preziosi, che increspano il fondo tosco-fiorentino: forme in sorda come secreto o secretario e suco per sugo; casi di degeminazione consonantica (peraltro sostenuta talvolta anche dal francese e dal siciliano; cfr. Vitale 1996: 125) come dubio, fugendo, imagine (da unire a imago di Canz. XXIII, 157) e come la filiera di prefissati del genere di adolcir, aghiaccio, avampo, avene, aventuroso, avolto (cfr. Vitale 1996: 127-30), ma si vedano pure le coppie ancilla / ancella, nigro / negro, ecc.
Al di là di ovvie ragioni metriche, la polimorfia fonologica dei Fragmenta si spiega soprattutto con motivi stilistici, riconducibili al petrarchesco orrore per la repetitio, il quale pretende dissimilazioni anzitutto a contatto ravvicinato ma anche a distanza (cfr. da una parte il vecchierel di Canz. XVI, dall’altra la vecchiarella di Canz. XXXIII e L). Certe varianti, di fatto adiafore, servono pure a fini eufonici e armonici, entro una testura che come mai prima risulta attorcigliata in pregnanti relazioni di suono (allitterazioni, paronomasie, ecc.). Così per es. la forma rara abbiendo, anziché avendo, consente di alleggerire il verso «senza levarmi a volo, abbiend’io l’ale» (Canz. CCLXXXVIII, 3) dall’eccesso del suono v; o viceversa, ebber anziché ebben, in «Per mirar Policleto a prova fiso / con gli altri ch’ebber fama di quell’arte» (Canz. LXXVII, 1-2), amplifica l’effetto allitterativo-paronomastico dell’insieme (cfr. Brugnolo 2007). Il mantenimento del dittongo latineggiante au in auro, laudare e aura è finalizzato alla disseminazione fonosimbolica del nome (e del fantasma) di Laura.
Per quanto riguarda la sintassi del periodo (cfr. Tonelli 1999; Soldani 2009), i Fragmenta esibiscono una varietà quasi enciclopedica di soluzioni e una quota media di complessità senza precedenti, distante tanto dalle convoluzioni ipotattiche della scrittura guittoniana, quanto dalle geometrie lineari degli stilnovisti. Proprio il settore dei legami subordinativi, per «quantità» e per «l’intrinseca qualità dei nessi», rappresenta una efficacissima cartina di tornasole per misurare «il massimo di distanza tra Petrarca e la tradizione» (Soldani 2009: 38).
In sintesi, è possibile individuare tre differenti strategie di orchestrazione sintattica. La prima prevede una serie di realizzazioni medie, in cui le unità periodiche non troppo ramificate collimano con le unità metriche. Si tratta del gruppo di testi (o di loro singole parti) statisticamente maggioritario, che pertanto garantisce unità e stabilità al codice dell’opera. La seconda modalità prevede una linea discorsiva lunga, trascendente i vincoli metrici interni, e artificiosa, ovvero caratterizzata da una continua perturbazione, come latineggiante, dell’ordine diretto. Ecco pertanto le sequenze più o meno prolungate di interposizioni e incassature di una frase nell’altra, o il fenomeno della prolessi della subordinata, o delle subordinate, rispetto alla principale – ordine prevalente nei Fragmenta e ulteriore punto di discontinuità dalla poesia dei predecessori (cfr. Soldani 2009: 39). A tale disegno sintattico, e alla sua accentuata curvatura periodale, si contrappone nel libro una cifra sintattica strettamente connaturata a procedimenti giustappositivi e paratattici, che fanno leva su figure di ripetizione e moduli parallelistici (l’anafora soprattutto), e che costruiscono totalmente o prevalentemente testi di forte, quanto elementare e ‘istintivo’, impatto lirico: si pensi alla filiera di vocativi di Canz. CXLVI, CLXI, CLXII, CCLIII, ma anche più in generale a CXLVIII, CCXCIX, CCCXII, o ai cosiddetti sonetti monoperiodali (Renzi 1988) C, CCXIII, CCXXIV e CCCLI, impaginati su una abnorme enumeratio nominale conclusa, con effetto di ‘detonazione’, da un predicato in explicit.
Il generale aumento di artificiosità nell’ordine del periodo e della catena interfrastica è contemporaneo a ciò che avviene nell’ordo verborum interno alla frase: mediamente, e senz’altro più che in passato, animato, variato e complicato da figure come l’➔anastrofe, l’➔epifrasi o l’➔iperbato. Si pensi al sonetto CCCXXXVII, dove il sintagma nominale Quel […] dolce lauro è distratto tra i vv. 1 e 5, o alla canzone XXIX, in cui per quelle […] quadrella si divarica tra i vv. 30 e 32.
Un magistrale concertato di ripetizione e variazione ordina pure il sistema lessicale. Principi di coerenza e di memorabilità del macrotesto, ovvie pressioni del codice lirico-amoroso e delle sue parole-chiave, nonché il carattere ossessivo della psicologia del soggetto e del suo desiderio amoroso, determinano l’alta frequenza di parole singole (core, amore, occhio, viso, dolce, vago, bello, ecc.), a loro volta incardinate in iuncturae ricorrenti (begli occhi, bel viso o volto, alta impresa, dolce riso, dolce vista, aura soave) o fissate nel quanto mai petrarchesco modulo della dittologia, soprattutto a fine verso (cfr. Sberlati 1994).
Ma si dovrà pure segnalare la presenza significativa di ulteriori costellazioni o giaciture fisse, entro cui certi lemmi e non altri si richiamano reciprocamente, come nel caso di acerbo quasi sempre contiguo a dolce o a duro. A tali esiti di ricorsività, da cui è disceso il vulgato giudizio di aristocratica ristrettezza del vocabolario petrarchesco come «chiuso in un giro di inevitabili oggetti eterni» (Contini 1951: 177), fanno tuttavia riscontro la «polisemia» e gli «usi semantici singolari», talora audaci e inediti, di quegli stessi materiali verbali, forieri di una quota di figuratività e metaforicità (cfr. Vitale 1996: 416-477; Manni 2003: 204-205) decisamente al di sopra della media delle scritture precedenti. La nuova critica ha poi messo in luce una volta per tutte l’effettiva ricchezza e inclusività del vocabolario petrarchesco, oggettivamente «più esteso di quello di ogni altro poeta lirico» (Vitale 1996: 416), e che «mal si concilia con il luogo comune dell’affinità stilistica tra il Petrarca e gli stilnovisti» (Trovato 1979: 89).
L’ampio catalogo comprende, tra l’altro, una nutrita serie di ➔ hapax, un consistente comparto di latinismi gravi e rari, talvolta nuovi, come delibo, bibo, folce, flagro, repulse, avulse, palustre, trilustre, dotati in pari grado di spiccate qualità espressive e foniche. Ma, come già nel dominio fono-morfologico, è la più ampia tradizione, e non solo lirica, a disegnare il complesso reticolo lessicale dei Fragmenta, attraversato in certi casi da traiettorie inaspettate: valga per tutti l’esempio del verbo smorsare «togliere il morso, liberare» (Canz. CLII, 5 e CXCV, 2), il cui precedente è soltanto in un sonetto di Cecco Angiolieri (cfr. Trovato 1979: 13).
Da tale mosaico di fonti emerge con nettezza e continuità ancora una volta la traccia di Dante, sia il petroso sia, soprattutto, il comico. Continuano infatti, e perfezionano, il magistero dantesco almeno due strategie significative, tra loro correlate: da una parte la drastica riduzione dei polisillabi astratti e ideologici, particolarmente dei suffissati in -anza, -enza, -aggio, -mento, -tore (amanza, consideranza, mostramento, ecc.), che avevano caratterizzato la poesia duecentesca fino almeno a Cavalcanti, dall’altra l’immissione di nuove classi di parole, soprattutto concrete, e di formazioni linguisticamente ardite ed espressive. Si vedano in particolare i cosiddetti ➔ parasintetici, di prestito dantesco (m’attempo, distempre, disossare, inforsa cioè «mettere in forse», impetro, ecc.) e di nuovo conio (inchiavare, incischiare, inostrare, scorzare, inalbare, sbrancare, ecc.), e in generale tutta una serie di iponimi insieme preziosi e precisi, referenti del regno vegetale (herba, lauro, mirto, visco, lappole, olmi, quercie, faggio) e animale (cornice cioè «cornacchia», passero, lupi, leoni, aquile, colombe, serpi, vermi) o della categoria, per così dire, degli strumenti umani. Ecco allora un focile, una fune, i marinareschi poggia e orza, un remo, ma anche un martello e i chiovi («chiodi»), e tanto altro materiale congenere, che Petrarca può introdurre ex novo, oppure recuperare da zone marginali della tradizione poetica e persino dalla prosa (cfr. Vitale 1996: 522-526). Se l’azione di straniamento e l’uso figurato a cui sono sottoposte tali classi di parole attenuano il loro coefficiente di concretezza e realismo, non va sottovalutata la novità di tali figuranti lirici, e in particolare il loro ‘effetto di realtà’, all’interno di una poesia che per la prima volta si presenta al lettore come una romanzesca vicenda di un io detentore, come mai prima, di una storia tutta sua, non «concepita come un universale astratto, bensì come l’umano agire e sentire» di un individuo «determinato» (Hegel 1997: 1094).
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