PETRARCA, Francesco
Poeta e scrittore in volgare e in latino, nato ad Arezzo nel 1304, morto ad Arquà nel 1374.P. è, assieme a Giovanni Boccaccio, il massimo esponente del protoumanesimo tardomedievale: anche il suo atteggiamento contraddittorio verso le arti figurative risente di una complessa condizione di intellettuale vissuto in un'età di transizione, che lo vede contrapporsi polemicamente alle istituzioni culturali del suo tempo (l'Università e la filosofia scolastica) per un rigoroso ritorno alla classicità (perseguito tramite già sofisticati strumenti filologici), non scevro però da atteggiamenti antimondani e fondato su strumenti esegetici, come l'allegoria, di palese connotazione medievale.È evidente che il viscerale amore di P. per il mondo antico costituisce, in un modo o nell'altro, uno schermo che sembra distanziarlo da una convinta adesione alla produzione artistica a lui coeva: il disprezzo per la sua contemporaneità, per il "secol noioso in ch'i' mi trovo, / vòto d'ogni valor, pien d'ogn'orgoglio" (Triumphus Cupidinis, I, vv. 17-18), l'insanabile contrapposizione tra antico e moderno, a tutto discapito di quest'ultimo ("Incubui unice [...] ad notitiam vetustatis, quoniam michi semper etas ista displicuit; ut, nisi me amor carorum in diversum traheret, qualibet etate natus esse semper optaverim, et hanc oblivisci, nisus animo me aliis semper inserere"; Posteritati, 11), non potevano che indurlo a un acuto vagheggiamento della pittura e della statuaria classiche, peraltro da lui conosciute quasi esclusivamente attraverso fonti letterarie. Eppure P. si è altamente compiaciuto di avere visto Giotto e di avere frequentato Simone Martini (Familiares, V, 17, 6, del 1342-1343), di averne posseduto o commissionato opere per propria, privata fruizione. Se dunque anche il suo platonismo agostiniano lo induceva a svalutare, se non addirittura a disprezzare, le arti figurative come vane ombre, misere copie della vera bellezza (complice, peraltro, il sistema delle sette arti liberali, che non lo assecondava affatto in un giusto apprezzamento della tecnica artistica, sentita come inferiore in quanto mechanica), d'altra parte la seduzione delle cose mondane, il gusto naturalistico per le delizie di una visibilità paesistica onnipresente nella sua produzione poetica, la stessa ossessione collezionistica (libri miniati, monete e medaglie antiche; Chiovenda, 1933, p. 10ss.; Weiss, 1973, p. 37ss.) e l'ammirazione per le rovine dell'Antichità, avevano formato in lui una cultura dell'oggetto bello da possedere e tesaurizzare, cultura che non lo distoglieva di certo da un'attenzione, probabilmente curiosissima, alle arti maggiori e minori a lui contemporanee. Del resto almeno due sue opere, il De viris illustribus e i Triumphi, sono le fonti letterarie di due fondamentali filoni dell'arte gotica e umanistico-rinascimentale, a segno di una profonda 'contemporaneità' dell'immaginario e della cultura petrarcheschi, niente affatto incongrui, nonostante le resistenze e le riserve di P. stesso, al gusto estetico della sua età. In P. è allora possibile commisurare il complesso dissolversi della medievale supremazia delle arti liberali per l'insolita attenzione ai prodotti di un'ars mechanica i cui esiti di perfezione (realizzati, agli occhi di P., nella pittura da Giotto e da Simone) potevano confrontarsi, senza sfigurare, con i supremi archetipi dell'arte classica, posta comunque, a ogni istante, come imperfettibile modello di riferimento.Che P. desse grande importanza a quanto possedeva dell'arte coeva è dimostrato dal lascito al suo protettore, Francesco da Carrara, signore di Padova, di una perduta tavola con la Vergine e il Bambino: "Et predicto igitur domino meo Paduano, quia et ipse per Dei gratiam non eget et ego nichil aliud habeo dignum se, dimitto tabulam meam sive iconam beate Virginis Marie, operis Iotti pictoris egregii, que michi ab amico meo Michele Vannis de Florentia missa est, cuius pulchritudinem ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent" (Testamentum, 12; Mommsen, 1957, pp. 22-23, 78-80; Billanovich, 1959). La tavola di Giotto dunque non soltanto è degna del principe cui è testata, ma è opera mirabile che produce stupore: P. si pone pertanto, decisamente, tra coloro che intelligunt l'arte moderna contro i suoi detrattori. Il rilievo dato alla provenienza fiorentina della icona è non soltanto una controprova di autenticità, quanto l'ulteriore conferma dell'eccellenza di un manufatto proveniente da un'officina egregia. La perdita del dipinto in questione (per la sua dubbia identificazione nella c.d. Madonna del P., sull'altare del braccio destro del transetto del duomo di Padova, tarda copia da un'opera forse di Giusto de' Menabuoi, v. Da Giotto al Mantegna, 1974, nrr. 2, 51; Contini, 1980, pp. 120-121) non permette purtroppo di valutare le ragioni formali di tanto entusiasmo: rimane agli atti un netto discrimine di eccellenza che corrobora il fiuto estetico dello scrittore. P., per avere sempre con sé l'immagine di Laura (ossessione duramente rimproveratagli da Agostino nel Secretum: "Quid autem insanius quam, non contentum presenti illius vultus effigie, unde hec cunta tibi provenerant, aliam fictam illustri artificis ingenio quesivisse, quam tecum ubique circumferens haberes materiam semper immortalium lacrimarum?"), ne commissionò il ritratto a Simone Martini, presente ad Avignone almeno dalla fine degli anni trenta fino alla morte, avvenuta nel 1344 (Bloch, 1927; Peter, 1939; Paccagnini, 1954, p. 94; Castelnuovo, 1962, pp. 24-25n.). Incontro memorabile, avvenuto durante i soggiorni avignonesi di P. (1335-1336, 1339-1340, 1342-1343), in una città che era allora il centro della cultura europea (Ariani, 1995, p. 601ss.) e uno dei luoghi capitali di produzione dell'incipiente Gotico internazionale, per buona parte con il contributo di artisti italiani (Castelnuovo, 1962). Il tempismo di P. nell'adeguarsi al gusto pittorico dominante è dunque perfetto, sottolineato da due sonetti del Canzoniere (RVF, LXXVII-LXXVIII) che costituiscono un documento capitale sull'inaudita collaborazione tra un giovane poeta, che già si preparava alla gloria della laurea in Campidoglio (1341), e un maestro all'apice della sua fama. Peraltro, il perduto ritratto di Laura ("in carte" e vergato con lo "stile", dunque una miniatura o un disegno acquerellato; che lo "stile" sia lo stilo, ossia la matita, è confermato d'altronde da Dante, Purg. XII, v. 64, da Boccaccio, Decameron, VI, 5, 5, e dallo stesso P. in Seniles, I, 6, 15 a proposito del pittore familiarissimus che furtim stilo ageret) è occasione per il poeta di una professione di platonismo che è fondamentale per capire le incertezze e le contraddizioni del suo atteggiamento nei confronti dell'arte (Bettini, 1984). Nel primo dei due sonetti (databile tra il 1335 e il 1336; Wilkins, 1964, p. 336), Simone appare addirittura superiore a Policleto per una capacità di travedere oltre il "velo" della "beltà" terrena.L'altissima lode dell'artefice, che nel dipingere "fu in paradiso" e vide ciò che Policleto e tutti gli "altri" antichi non avrebbero visto in mille anni, non può nascondere però, nel secondo sonetto, l'insufficienza dello "stile" a dare vita ("voce ed intelletto") all'"alto concetto" che pure era penetrato ("giunse") nella mente di Simone.Il riferimento alla teoria platonica dell'idea interna contemplata dall'artista (nota a P. attraverso Seneca, Ep., LVIII, 21, e Calcidio, In Tim., CCCXXXVII; Panofsky, 1924, trad. it. pp. 43, 50) e il mito di Pigmalione, connesso al tópos delle 'immagini vive e parlanti' (Bettini, 1984, p. 226ss.), dislocano comunque l'"opera gentile" di Simone in un ambito di muta voluptas ("picte tabule [...] ceteraque id genus, mutam habent et superficialem voluptatem; libri medullitus delectant, colloquuntur, consulunt et viva quadam nobis atque arguta familiaritate iunguntur"; Familiares, III, 18, 3, del 1346 ca.) che sancisce la superiorità della scrittura (e della lettura) rispetto al godimento, puramente epidermico, dell'immagine dipinta.La stima di P. per Simone deve essere stata comunque grande e duratura se di lui non soltanto ricorda di aver posseduto un quadro con una testa di morente (come quello di Apelle menzionato da Plinio, Nat. Hist., 35, 36; v. le postille sul codice pliniano di Parigi, BN, lat. 6802, "Hec fuit et Symoni nostro Senensi nuper iocundissima [comitas]" e "Qualem nos hic unam habemus preclarissimi artificis", in Nolhac, 1907, II, p. 78; Baxandall, 1971, p. 63), ma se proprio al preclarissimus artifex volle commissionare la miniatura a tutta pagina (mm 290201) a c. 1v del famoso Virgilio Ambrosiano (Milano, Bibl. Ambrosiana, S.P.10.27, già A.49 inf.; sul margine inferiore del foglio il distico, autografo del P., "Mantua Vergilium qui talia finxit / Sena tulit Symonem digito qui talia pinxit"; Nolhac, 1907, I, p. 142n.), fortunosamente recuperato - dopo il furto del 1326 - il 17 aprile 1338, importante non solo perché unico reperto del rapporto P.-Simone che sia possibile ammirare de visu, ma soprattutto perché contiene "valenze anticipatrici del tardogotico proprie dell'attività avignonese di Simone Martini [...] in sintonia con il gusto protoumanistico alla contemplazione del paesaggio e della natura proprio della poesia del Petrarca" (Cadei, 1987a, p. 395). La bellissima miniatura - databile dunque tra il 1338 e il settembre 1343, quando P. partiva per Napoli: Simone sarebbe morto l'anno successivo (è una "fantasia paleograficamente infondata" quella di Brink, 1977, che ha creduto di leggere la data 1340, sul libro aperto sulle ginocchia del poeta; Feo, 1988) - rappresenta il commentatore Servio che, sullo sfondo di un cielo azzurro, alza un velo trasparente e indica Virgilio, disteso ai piedi di un albero e in atteggiamento estatico, a un guerriero in armi, a un contadino intento a potare una vite e a un pastore che munge capre su un prato fiorito: evidente personificazione delle tre opere virgiliane (rispettivamente Eneide, Georgiche e Bucoliche) secondo la medievale rota Vergilii dei tre stili gravis, mediocris, humilis (Faral, 1924, p. 87) - su altre interpretazioni, segnatamente quella sostenuta da Zingarelli (1935, p. 331), Rowlands (1965) e Degenhart (1975), secondo i quali la miniatura sarebbe una "illustrazione del programma di educazione umanistica" del P., v. Cadei (1987a, p.395); la confuta validamente Feo (1988); per una più complessa esegesi Ciccuto (1991, p. 93ss.) - e secondo una concezione ancora allegorizzante del testo scritto come dell'immagine grafica, peraltro esplicitamente sottolineata da uno dei due altri distici autografi collocati al centro ("Servius altiloqui retegens archana Maronis / ut pateant ducibus, pastoribus atque colonis"; Nolhac, 1907, I, p. 142n.; sull'autografia v. Petrucci, 1967, p. 61), che ne fa "un piccolo manifesto del gotico internazionale" (Feo, 1988), anche se "resta [...] isolata, sul piano dell'interpretazione figurativa della poesia virgiliana" (Cadei, 1987b) appunto per il forte rilievo dato agli archana Maronis (secondo un'esegesi del resto sistematicamente teorizzata da P. stesso in Seniles, IV, 5).La frequentazione di P. con Simone (cui alluderebbe come "miglior mastro" anche in RVF, CXXX, v. 11, secondo Venturi, 1922, p. 243, e Chiovenda, 1933, p. 20; è Amore invece per Essling-Müntz, 1902, p. 11 e Contini, 1980, p. 122) deve essere giunta dunque a un certo grado di intimità - anche se è una "leggenda", secondo Contini (1980, p. 124), che nella principessa di Trebisonda, raffigurata à la pointe nel perduto affresco di S. Giorgio nel portico di Notre-Dame-des-Domes in Avignone, possa riconoscersi un ritratto di Laura (De Nicola, 1906; Toesca, 1951, p. 549n.): se ne veda la supposta copia nella miniatura a c. 18v del codice di S. Giorgio, Roma, BAV, Arch. S. Pietro, C. 129, appartenuto a P. secondo Bologna (1969, p. 317; riprodotta in Castelnuovo, 1962, p. 41 e n., fig. 21) -, complice l'innegabile adesione di P. allo squisito linearismo martiniano, non scevro comunque di tensioni formali, evidenti nella "torsione" e nelle "innaturali positure" dei tre personaggi allegorici (Contini, 1980, p. 131). Comunque, non solo Simone, ma l'intero milieu avignonese, con i grandi cicli pittorici di Matteo Giovannetti (almeno quelli affrescati tra il 1343 e il 1353), avrebbe sensibilizzato P. anche a una "attenzione affettuosa [...] per la scena mondana, le piante, gli animali, la vita all'aperto [...] al punto da fare" della camera della Guardaroba (1343) "un parallelo figurativo di certi brani" del P. (Castelnuovo, 1962, p. 37; concorda Petrucci, 1967, p. 59, per la somiglianza tra i grafismi dei cartigli e delle didascalie giovannettiane con il tipo di scrittura prediletto da P., che volle segnare con la propria mano anche il frontespizio simoniano del Virgilio Ambrosiano).Se il regesto delle opere coeve possedute da P. di cui si ha notizia si arresta qui, non meno importante è il novero di quelle 'viste', che possono in qualche modo aver influenzato la sua produzione letteraria e maturato il suo gusto estetico: si pensi innanzi tutto a Giotto (che P. metteva, assieme a Simone, accanto a Fidia, Apelle, Parrasio, Policleto, Zeusi e Prassitele, anche se non sapeva trovare scultori contemporanei altrettanto validi; Familiares, V, 17, 5-6, del 1342-1343), del quale, nell'Itynerarium ad sepulcrum Christi (1358), consigliava il visitatore di Napoli di non perdere assolutamente gli affreschi, malauguratamente oggi non più visibili, nella capella regis di Castel Nuovo ("supra portum regia, ubi si in terram exeas, capellam regis intrare ne omiseris, in qua conterraneus olim meus, pictorum nostri evi princeps, magna reliquit manus et ingenii monimenta"). La lode di Giotto è un tópos nella letteratura trecentesca (v. Dante, Purg. XI, vv. 94-96; Boccaccio, Decameron, VI, 5; Amorosa visione, IV, 16-18; Genealogia deorum, XIV, 6; Sacchetti, Trecentonovelle, LXIII, LXXV, CXXXVI), ma qui P. è di fronte al "primo complesso dipinto del Trecento italiano d'ispirazione storica in senso laico" (Bologna, 1969, p. 220), la cui rassegna di uomini illustri (Alessandro, Salomone, Ettore, Enea, Achille, Paride, Ercole, Sansone e Cesare, con le loro donne; De Blasiis, 1900; Schubring, 1900) risale al soggiorno napoletano di Giotto negli anni 1329-1333 e dunque, anche per il fondamentale raffronto tra personaggi biblici e classici, "in anticipo netto" (Bologna, 1969, p. 220) sul P. del De viris illustribus, concepito nel 1338 ma completato, in prima stesura, tra il 1341 e il 1343, con ventitré ritratti da Romolo a Catone ai quali solo nella revisione del 1351-1353 si sarebbero aggiunti i personaggi biblici della sequenza da Adamo a Ercole. A Napoli nel febbraio 1341, il P. intento al primo De viris poté dunque ammirare (Wilkins, 1964, p. 46) un ciclo pittorico che rappresentava una sorta di emblematizzazione dei forti interessi storici dell'entourage intellettuale di re Roberto d'Angiò, che non casualmente, durante i tre giorni dell'esame per la laurea, raccomandò a P. di ricercare la perduta seconda decade di Livio (Wilkins, 1964, p. 45). E ancora sul secondo De viris, e sul suo 'sfondamento' all'indietro nella materia biblica, avrà avuto un suo apporto decisivo (Bologna, 1969, pp. 221-222; Gilbert, 1977, p. 56ss.) l'altrettanto perduto affresco del palazzo di Azzone Visconti a Milano, dove Giotto, tra il 1334 e il 1336, dipinse la famosa Gloria mondana o Vanagloria, e dove i suoi allievi avevano rappresentato "episodi della guerra punica con le figure di antichi eroi quali Enea e Didone, ma anche Ercole, Ettore, Attila, Carlo Magno" (Toesca, 19662, p. 88; Schubring, 1900, p. 425) oltre allo stesso Azzone, secondo la testimonianza di Galvano Fiamma (Schlosser, 1895, trad. it. p. 109). Un 'prototipo giottesco' (Ciccuto, 1991, pp. 38-39) è forse dunque alle origini non solo della sequenza che avrebbe visto allineati, nei Triumphi, personaggi biblici, classici, cristiani e moderni, ma anche delle prime formulazioni iconografiche del Trionfo, e non casualmente sui frontespizi del De viris illustribus e sulle pareti della sala illustrium virorum di Padova, il cui programma dipende direttamente da Petrarca.Ma gli scritti di P. sono pieni di statue, pitture, architetture, antiche e moderne, 'viste' e assorbite in una visione estetica attenta a ritagliare, fra le tante cose osservate e annotate, oggetti emblematici per il valore storico (segnatamente i reperti classici), per l'aderenza al modello 'naturale' o per l'illusione di vita data alla materia morta. Esemplare, in tal senso, la sua commozione dinanzi al tondo in stucco con il ritratto di s. Ambrogio visibile, nella basilica eponima, sopra il sepolcro del santo: "Iocundissimam [...] ex omnibus spectaculum dixerim [...] imaginemque eius summis parietibus extantem, quam illi viro simillimam fama fert, sepe venerabundus in saxo pene vivam spirantemque suspicio. Id michi non leve precium adventus, dici enim non potest quanta frontis autoritas, quanta maiestas supercilii, quanta tranquillitas oculorum; vox sola defuerit vivum ut cernas Ambrosium" (Familiares, XVI, 11, 12-13, dell'agosto 1353). Come alla Laura dipinta da Simone, anche a s. Ambrogio manca solo il respiro: per P. l'apice dell'espressività figurativa, e dunque il suo valore estetico, coincide con il massimo 'effetto di realtà' possibile. Anche i cavalli di S. Marco a Venezia gli sembrano "pene vivos adhinnentes ac pedibus obstrepentes" (Seniles, IV, 2, del 1364), così come, su una moneta da lui donata all'imperatore Carlo IV, "Augusti Cesaris vultus erat pene spirans" (Familiares, XIX, 3, 14, del 1355), secondo un 'esasperato naturalismo' (Bettini, 1984, p. 223) che comunque P. trovava autorevolmente sanzionato nelle fonti classiche.L'ammirazione per i reperti antichi che gli capitavano sott'occhio, come i Dioscuri del palazzo del Quirinale ("Hoc Praxiteles Phidiaeque extans in lapide tot iam seculis de ingenio et arte certamen"; Familiares, VI, 2, 13, del 1341, dove sono elencati rovine e monumenti romani, tra i quali poteva ancora vedere in piedi la colonna Traiana e Castel Sant'Angelo; v. anche Africa, VIII, 862ss.; Epystole, II, 5) o il Marco Aurelio, detto Regisole, di Pavia ("Aeneam atque inauratam statuam [...] quam eius artis pictureque doctissimi nulli asserunt secundam"; Seniles, VI, 1, a Giovanni Boccaccio, del 1365), che gli sembrava sul punto di slanciarsi verso la cima del colle, persuadeva P. dell'inferiorità della statuaria moderna rispetto a quella antica ("novi et sculptores aliquot, sed minoris fame - eo enim in genere impar prorsus est nostra etas"; Familiares, V, 17, 6, del 1342-1343). Di converso, egli non si tratteneva dall'esprimere ammirazione per certe macchine architettoniche coeve o comunque non classiche (il castello di Pavia, fatto erigere da Galeazzo II Visconti, in Seniles, V, 1, o piazza S. Marco, con la basilica che è "qua nulla ut reor usquam pulchrior factum est quantum fieri per hominem deo potest" in Seniles, IV, 3; Perocco, 1976; è ipotesi scarsamente fondata che P. abbia ispirato il programma iconografico dei perduti affreschi del Guariento nella sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale, ma v. Saxl, 1965; Skerl Del Conte, 1992) che non dovevano sembrargli seconde a certi archetipi della grandezza antica, come quel Castel Sant'Angelo schizzato sul suo codice di Plinio (Parigi, BN, lat. 6802, c. 266v; Chiovenda, 1933, p. 38; Bettini, 1984, p. 231ss.) che, se almeno in parte di mano del poeta stesso, rivela un P. buon disegnatore, attento al particolare definitorio di un complesso percepito per tratti simbolici, come l'altro disegno (c. 143r), dove è delineata, per segni essenziali ma con mano sicura, la sorgente di Valchiusa (con la postilla autografa "Transalpina solitudo mea iocundissima"; Nolhac, 1907, II, p. 269ss.; autografia confermata da Degenhart, Schmitt, 1968, I, 1, p. 60, ma contestata da Avril, in Boccace en France, 1975, p. 14), "delizioso schizzo" (corrispondente alla vivida descriptio di Sorga in Familiares, XIII, 8, 14-15) che Contini (1980, p. 129) accosta, per la somiglianza del paesaggio roccioso, alla rupe affrescata da Simone a Notre-Dame-des-Domes e ripresa nel già ricordato manoscritto del Maestro del Codice di S. Giorgio (c. 18v; De Nicola, 1906, pp. 343-344; Chiovenda, 1933, p. 49), secondo una linea di "naturalismo avignonese" (Castelnuovo, 1962, p. 41) che trova precise rispondenze nelle rare espressioni teoriche sull'arte.Nell'ambito della più ampia teoria dell'imitatio stesa in due fondamentali lettere a Boccaccio (Familiares, XXII, 2 e XXIII, 19, databili tra il 1359 e il 1366), P. è infatti sicurissimo che comunque "qualis est imaginis ad eum cuius imago est, que quo similior eo maior laus artificis" (XXIII, 19, 11; Bettini, 1984, p. 233ss.) e che le "picte tabule ac statue" debbano essere sempre considerate, come le gemme o la porpora, nature decus anche se prodotte da un artifex (Familiares, XIII, 4, 23-24, del 1352), secondo il principio dell'ars imitatrix naturae (postilla al codice di Vitruvio, Oxford, Bodl. Lib., Auct. F.5.7, c. 37v; Bettini, 1984, p. 257n.). L'interesse di P. per l'arte non doveva essere episodico o prevalentemente letterario se a Giovanni Colonna, nel 1341, prometteva addirittura un trattato sulle Artes liberales et mechanice (Familiares, VI, 2, 17ss.), comprese dunque pittura e scultura ("de quibus fortasse alius plura dicendi locus dabitur"; Familiares, V, 17, 6), che, sulla scorta della successiva lettura di Plinio (di cui entrò in possesso nel 1350), avrebbe dovuto addentrarsi anche in particolari tecnici, considerata l'attenzione con cui postilla certi termini greci a confronto con luoghi visitati di persona (esemplare la postilla sull'encausto, "Tales sunt in Sancto Miniato et cet.", sul Plinio citato, c. 260r; Baxandall, 1971, p. 63). Era del resto ancora lo stesso Plinio a spingerlo quasi alla soglia di una rivalutazione dell'ars mechanica ("pictura [...] ars [...] in primum gradum liberalium"; Nat. Hist. 35, 77): la postilla al luogo pliniano, honos picture (c. 250; Bettini, 1984, p. 252), è sintomatica di una crisi del sistema delle arti liberali acutamente percepita da P., non foss'altro per collocare la poesia al vertice delle artes stesse (Seniles, XV, 11, a Benvenuto da Imola, del 1373; Ariani, 1995, p. 652).Il tópos oraziano dell'ut pictura poësis (Bettini, 1984, p. 233ss.) gli si era dunque andato maturando a contatto con opere viste e assorbite in un sistema mentale ideologicamente consapevole, ma non abbastanza robusto da resistere al controcanto di un nichilismo antimondano (di matrice platonica e agostiniana) che nel De remediis utriusque fortune (1366) prendeva di mira la pittura e la scultura (I, 40-41) proprio per demerito di quelle che altrove si è visto essere state le loro peculiarità più inconfondibili, l'effetto di realtà ("Sic exanguium vivi gestus atque immobilium motus imaginum, et postibus illum erumpentes effigies, ac vultuum spirantium lineamenta suspendunt: ut hinc erupturas paulo minus praestoleris voces, et est hac in re periculum, quod his magna maxime capiuntur ingenia") e la supremazia tra le arti liberali: "Unde effectum, ut pictura diu quidem apud vos, ut naturae coniunctior, ante omnes mechanicas in pretio esset. Apud Graios vero (si quid Plinio creditis) in primo gradu liberalium habetur". È proprio l'aderenza delle arti alla natura a costituire la grave deviazione dal vero Artefice di tutte le cose: follia (amentia) è abbandonarsi al piacere e allo stupore dell'anima di fronte allo splendore (rerum claritas) della loro seduzione ("ut voluptas stuporque animos altiore furtim contemplatione dimoveat distrahatque"). Eppure proprio "haec ficta et adumbrata fucis inanibus" inducono P. a stilare "la più ampia disamina sull'arte e quindi la più vasta discussione attorno all'arte stilata nell'ambito dell'Umanesimo trecentesco" in quanto "fu Petrarca che più di ogni altro stabilì i fondamenti concettuali alla base del dibattito umanistico intorno alla pittura e alla scultura" (Baxandall, 1971, pp. 53, 58). Di capitale importanza appaiono infatti la scoperta del disegno (graphis) come fonte di tutte le arti ("Cum praeterea pene ars una, vel si plures, unus ut diximus, fons artium: graphidem dico"), il rilievo della 'plastica' nell'imitatio naturae ("Harum quippe artium, manu naturam imitantium, una est, quam plasticen dixere") e la capacità di qualsiasi materia, anche la più vile, di assecondare l'artefice e di accoglierne la volontà formativa ("Artificium fere omnis recipit materia").Il feroce agostinismo (Bettini, 1984, p. 235ss.; Donato, 1985, p. 118ss.) del P. più scontrosamente avverso alle cose mondane non gli impedì dunque di stabilire alcuni dei fondamenti teorici del 'naturalismo' umanistico, anche al costo di un'irrisolta contraddizione tra l'antisomatismo cristiano e la rerum claritas illusoriamente 'vera' nelle imagines fictae. Comunque P. conosceva e usava un altro veicolo per accogliere e autorizzare la visualità nel suo sistema ideologico senza comprometterne troppo gravemente il precario e paradossale equilibrio: quando l'icona fosse dotata di sovrasensi, la sua liceità culturale era infatti fuori discussione. Di grande momento sono, in tal senso, due lettere del 1355 (Lettere disperse, 30-31) a Giovanni Fedolfi da Parma, dove P. propone, nella prima, l'enigma di un albero a sette rami e, nella seconda, al Fedolfi che gliene aveva mandato un disegno illustrativo, un'esegesi allegorica che lo decritta come l'albero delle virtù. Al poeta era dunque chiara la forte icasticità didascalica dell'immagine in quanto tale, anche se la scrittura gli appariva comunque il complemento indispensabile per una piena fruizione del messaggio simbolico, giusta la tecnica medievale del "visibile parlare" (Dante, Purg. X, v. 95; Ciociola, 1995): "Arborem quam stilo descripseram coloribus designasti; ac memorem horatianae sententiae ubi ait: ''Segnius irritant animos demissa per aures / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus'' [Orazio, Ars poet., 180-181], quod auribus ingesseram oculis subiecisti, non contentus nisi et eius oppositum insuper, et huius vitae arenam habitatam mortalibus addidisses; ubi ad tempus utrumque permixtum, et heu! non aequis portionibus confusa sunt omnia, discernenda novissime, et supremi flabro iudicii ventilanda" (Lettere disperse, 31 [=Variae, 61]). Nel disegno di Fedolfi l'immagine dell'albero (sulla cui problematicità teorica v. Donato, 1985, pp. 117-118) si è come espansa nell'iconografia della vitae arena (da confrontare con la "campagna" disseminata di morti in Triumphus Mortis, I, v. 74), che P. immette senza esitazioni nel proprio codice esegetico per una scontata aderenza tra discorso e visualizzazione dei sensi allegorici nascosti in verbis. 'Visibile parlare' e sua formulazione enigmatica che si insinuano anche nel Canzoniere, dove le sequenze visionistiche, per stazioni successive, di RVF, XXIII e CCCXXIII, hanno un fortissimo rilievo figurativo, per una perfetta fusione di "percezione allegorica astratta" e "percezione sensoriale, visiva ed auditiva" (Chiappelli, 1971, p. 29) che esalta l'intrinseca iconicità del messaggio verbale, dunque tutt'altro che insensibile ai procedimenti di esposizione seriale e didattico-emblematizzante del Gotico internazionale.L'attenzione alle tecniche della sequenza allegorico-didascalica (v. ancora RVF, CXIX, CCCXXV e CCCLX, rispettivamente con le personificazioni della Gloria, della Fortuna e della Ragione, per non parlare della dilagante mitopoiesi dafnea di Laura sull'ossessivo nesso iconico Apollo-alloro, dal forte rilievo emblematico; notevoli anche, per le valenze iconico-allegoriche, le raffigurazioni astrologico-mitologiche dell'astrolabio nel palazzo di Siface in Africa, III, 138ss.; Panofsky, 1960, trad. it. p. 99ss.; Fenzi, 1976) induce P. a concepire una grandiosa macchina poematica, i Triumphi (1348-1374), che è il capostipite di un'immensa fortuna iconografica (tutta, peraltro, quattro-cinquecentesca), alla quale, paradossalmente, P. ha fornito ben pochi input figurativi. Quello che del poema ha soprattutto impressionato gli artisti è la sequenza trionfale in se stessa, con il grandioso annichilimento progressivo, a emboîtement, delle potenze allegoriche (Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo, Eternità) coinvolte nella celebrazione di Laura che, alla fine, trionfa su tutto e su tutti. A paragone della fascinosa macchina complessiva, le singole valenze iconiche risultano, tutto sommato, modeste, se confrontate con le complesse invenzioni dei successivi illustratori: la descriptio di Amore come un dux trionfante in curru, al quale sono aggiogati gli amanti, dèi e uomini, di tutti i tempi (Triumphus Cupidinis, I, v. 13ss.); il treno trionfale di Laura con tutte le sue virtù personificate e la "vittoriosa insegna / in campo verde" (Triumphus Pudicitie, v. 76ss.; Triumphus Mortis, I, v. 1ss.); la Morte, "involta in veste negra" e con "una insegna oscura e trista", campeggiante in una landa "piena di morti" con la "turba magna" di "pontefici, regnanti, imperadori" (Triumphus Mortis, I, v. 30ss.); le interminabili sequenze di personaggi nel Triumphus Cupidinis e nel Triumphus Fame; gli allusivi paesaggi straniti o metafisici del Triumphus Temporis (vv. 49ss., 67ss.) e del Triumphus Eternitatis (v. 31ss.), costituiscono tutto il lascito iconografico di P. a una traditio figurativa che, nel Quattrocento, avrebbe assunto valenze di una complessità e varietà irriducibili allo schema, iconograficamente elementare ed evasivo, del poema. Del quale sono semmai da indagare le possibili suggestioni pittoriche (oltre a quelle letterarie, per le quali v. Ariani, 1995, p. 704ss.) che potrebbero avere indotto P. a concepire un'orditura poematica del tutto inedita: assai labili tracce di trionfi miniati (come le illustrazioni del Liber ystoriarum Romanorum, del codice di Amburgo, Staats- und Universitätsbibl., 151, c. 90v, o del Sallustio di Fermo, Bibl. Com., 81, c. 175v; Weisbach, 1919, p. 8ss.; Carandente, 1963, p. 23ss.) o il ricordo di più o meno recenti "accoglienze trionfali al governante che faceva il suo ingresso in città", come i trionfi di Federico II, Castruccio Castracani e Cola di Rienzo (Pinelli, 1985, p. 321ss.; Ciccuto, 1991, pp. 18-19n.), non sono minimamente sufficienti a condurre alle soglie dell'invenzione petrarchesca. Più dirimente potrebbe essere la connessione (Ciccuto, 1991, p. 38ss.) tra le "testimonianze trionfali dell'antichità sparse in Roma" e le suggestioni giottesche dei cicli con 'uomini illustri' e la Gloria mondana di Napoli e Milano (ma quest'ultimo a concepimento dei Triumphi già avvenuto), come input a un triumphus Fame che dunque troverebbe le sue radici iconografiche nel tópos, di tradizione cortese, dei neuf Preux (Donato, 1985, p. 108ss.; nella prima redazione del Triumphus Fame, I, v. 157ss., i personaggi di Davide, Giuda Maccabeo, Giosuè, Alessandro, Artù e Carlo Magno sembrano riproporre quasi per intero il canone dei 'nove prodi'), decisivo anche per il "prototipo giottesco" di Napoli (Ciccuto, 1991, p. 38).Ma di grande momento, per la fantasia struttrice di P., potrebbe essere stata la possibile visione a Pisa, di ritorno dall'incoronazione capitolina che doveva avergli nuovamente sollecitato l'acuto interesse per la forma trionfale, del Trionfo della Morte del Camposanto monumentale, se è ormai accettata da tutti (dopo l'autorevole, deciso diniego di Venturi, 1906, p. 88ss.; cautamente favorevole invece Neri, 1930, p. 50) una retrodatazione che ne colloca la composizione tra il 1330 e il 1340 (Battaglia Ricci, 1987, p. 51ss.). Per la sequenza trionfale e il modulo della 'turba magna' travolta dal triumphus Mortis potrebbe essere stata decisiva la "composizione paratattica di scene tra loro diverse" con "al centro la Morte" e "sotto di lei una stiva di cadaveri" (Battaglia Ricci, 1987, p. 97), da confrontare con la ben più sobria e allusiva rappresentazione petrarchesca (Triumphus Mortis, I, v. 30ss.) che, umanisticamente, fa giustizia del décor medievale di geni fantasticamente alati, mani e piedi artigliati, angeli e demoni con ali di pipistrello o di uccello, estranei alla sommaria e iconicamente avara, ma inesorabile scansione delle serie dei 'vinti' travolti da Morte che soprattutto interessava il pessimismo stoico-platonico di P., comunque attentissimo a non figurare l'imago Mortis diversamente dalle fonti classiche (Ariani, in Petrarca, Triumphi, 1988, p. 226ss.): in tal senso la dimensione 'filologica' del trionfo petrarchesco oltrepassa in direzione umanistica l'orditura fantasiosamente gotica dei possibili precedenti iconografici.L'immensa fortuna pittorica e illustrativa dei Triumphi è fenomeno squisitamente umanistico e quattrocentesco, ma, ancora vivente il poeta e per sollecitazione di un committente, è toccato al De viris illustribus segnare l'esordio della fortuna figurativa del lascito petrarchesco. Tra il 1368 (quando P. si stabilì definitivamente a Padova) e il 1379 (data della prefazione al Supplementum al De viris redatto da Lombardo della Seta) vanno infatti datati i perduti e adespoti affreschi della c.d. sala dei Giganti o sala virorum illustrium nella Reggia dei Carrara (od. Livianum) a Padova, che, sulla falsariga del De viris (riassunto da P., su richiesta di Francesco I il Vecchio, in un Compendium anch'esso completato da Lombardo della Seta), rappresentavano, "su tre livelli sovrapposti (eroe-grisaille narrativa-titulus)" (Donato, 1985, pp. 106, 120; Mommsen, 1952, p. 105ss.), trentasei figure di viri illustres, da Romolo a Traiano (tutti romani, eccetto Alessandro, Pirro e Annibale). L'esaltazione dell'eroe come esempio di virtù e la connessione tra imagines et tituli (così esplicitata nella prefazione di Lombardo della Seta al Supplementum), dunque tra res gestae e mores, facevano degli affreschi un complesso iconografico di già evidente marcatura umanistica, tanto che non è improbabile (per il nesso classico tra imago ed elogium) un programmatico ricalco di "tipologie monumentali antiche, di cui condivideva il fine esemplare", con un deciso scarto dalla "ascendenza cortese e cavalleresca" del tópos dei 'prodi' (Donato, 1985, p. 121).La fortuna delle suggestioni petrarchesche comincia a farsi più visibile a fine secolo, come è possibile registrare dalla confluenza tra il modulo del Triumphus Fame (la cui prima riproduzione diretta è comunque su un cassone di fine Trecento, oggi a Monaco, Coll. Mog; Schubring, 1929, p. 561; mentre il primo codice illustrato conosciuto dei Triumphi è a Monaco, Bayer. Staatsbibl., Ital. 81 del 1414; Shorr, 1938, p. 100ss.; Trapp, 1992-1993, p. 43) e l'esaltazione della virtù eroica della sala dei Giganti nei frontespizi di tre manoscritti (che però, secondo Weisbach, 1903, p. 271, e Gilbert, 1977, p. 60, sarebbero indipendenti dalla fortuna dei Triumphi), tutti di provenienza padovana, del De viris (i codici di Parigi, BN, lat. 6069F e lat. 6069I, e di Darmstadt, Hessische Landes- und Hochschulbibl., 101: il primo è datato 24 gennaio 1379 ed è di mano di Lombardo della Seta), raffiguranti un Trionfo della Gloria, rappresentata, nei primi due, come una donna alata seduta su una biga e nell'atto di offrire corone di alloro a una 'turba magna' di eroi, senza ali e invece con una spada (per l'evidente influenza dell'iconografia della Gloria in Boccaccio, Amorosa visione, VI, v. 48ss.; Shorr, 1938, p. 104; Carandente, 1963, p. 26; Gilbert, 1977, p. 62ss.) nel terzo manoscritto, databile al 1400 ca.: quest'ultimo (come il lat 6069F) reca anche un ritratto di P., sicuramente derivato da quello superstite dalla distruzione cinquecentesca degli affreschi della sala (Schlosser, 1895, trad. it. p. 63). La comune provenienza padovana delle miniature (per il contesto culturale v. Billanovich, 1976; 1986) potrebbe aiutare a dirimere la vexata quaestio dell'autore degli affreschi della sala: sulla scorta di una tarda notizia di Michele Savonarola (nel De laudis Patavii, del 1447; il testo in Schlosser, 1895, trad. it. p. 112: "altera [sala] Imperatorum nominatur [...] qua Romani imperatores miris cum triumphis auro optimoque cum colore depicti sunt, quos gloriosa manus illustrium pictorum Octaviani [Ottaviano Bresciano] et Altichierii configurarunt"), la candidatura di Altichiero, come autore di una Gloria affrescata nella stessa Reggia dei Carrara e quindi anche dei frontespizi dei due codici parigini (mentre il terzo, di qualità più scadente, apparterrebbe alla sua 'cerchia'), che ne dipenderebbero, sembra condivisa dalla maggior parte degli studiosi (Schlosser, 1895, trad. it. p. 66; Venturi, 1906, p. 219; Shorr, 1938, p. 103; Toesca, 1951, p. 849; 19662, p. 173; Magagnato, 1958, pp. 14-15; 1962, p. 86ss.; Carandente, 1963, p. 24; Mellini, 1965, pp. 36-37; 1974, p. 51ss.; Ciccuto, 1991, p. 35ss.; Longhi, 1940, li attribuiva invece a Giusto de' Menabuoi), che però non concordano sulla natura e ubicazione del presunto affresco-prototipo che Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 116) attribuiva addirittura al Giotto del periodo padovano (Arte lombarda, 1958, nr. 43; Pinelli, 1985, pp. 297-298), e sui suoi rapporti iconografici con i viri illustres della sala dei Giganti. Gilbert (1977, p. 66), sulla base di uno spunto di Schlosser, tenta di dirimere la questione ipotizzando che i tre frontespizi derivino dal perduto manoscritto originale del De viris al quale P. lavorò a Milano negli anni cinquanta, in tempo per ammirare la Vanagloria di Giotto e farla riprodurre in testa al codice (che, da una postilla del 1369, risulterebbe illuminatus; Wilkins, 1959, p. 147), ancora in possesso di Lombardo della Seta che poté dunque utilizzarlo per miniare i codici padovani. La ricostruzione dei dettagli rimane largamente ipotetica: resta il dato di fatto di una sicura confluenza delle due opere petrarchesche nella costituzione di un modulo trionfale di 'uomini illustri' esaltati dalla Fama e dalla Gloria che preannuncia decisamente l'impianto umanistico del trionfo quattrocentesco.Il capitolo su P. e le arti figurative non può chiudersi senza un cenno alla cospicua ritrattistica coeva del poeta, personaggio in vista la cui immagine era bramata da potenti e ammiratori. È lo stesso P. a raccontare (Seniles, I, 6, del 1362) che Pandolfo Malatesta, signore di Pesaro, per ben due volte gli mandò un pittore per ritrarlo, la prima volta addirittura quando ancora abitava ad Avignone: l'impossibilità di precisarne l'identità (Simone il primo, secondo Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 117; Giovanni da Milano l'altro, secondo Chiovenda, 1933, p. 6; sulla questione v. Weiss, 1949) non sminuisce l'importanza dell'episodio, sintomatico di una fama crescente che non avrebbe avuto eguali nel secolo. Se il più antico ritratto di P., quello di Nardo di Cione nella cappella Strozzi di S. Maria Novella a Firenze (1355-1357), è stato eseguito solo sulla base di notizie indirette (Mardersteig, 1974, p. 252), altri hanno più probabilità di essere stati dipinti dal vivo: a cominciare da quello affrescato, verso il 1364, da Altichiero nella sala Grande del palazzo di Cansignorio a Verona (Mellini, 1974, p. 51), dove P. soggiornò più volte, e da quello voluto, verso il 1367, da Galeazzo II Visconti nel castello di Pavia, entrambi perduti (del secondo una copia potrebbe essere il profilo del manoscritto di Parigi, BN, lat. 6069F, c. Av, risalente al 1388-1390). Di grande rilievo è il ritratto sopravvissuto alla distruzione degli affreschi della sala dei Giganti: la parte originale (da confrontare con la copia fattane sul manoscritto di Darmstadt), completata poi nel Cinquecento in modo grossolano, rappresenta il poeta, in veste monacale, seduto allo scrittoio (Mommsen, 1952, p. 95ss.; Mellini, 1974, p. 53). Ma i più fededegni sono i tre, ben conservati, per mano di Altichiero: il profilo disegnato a tempera sul già citato manoscritto di Parigi (BN, lat. 6069F) - che è "indubbiamente la più suggestiva, intensa e fedele raffigurazione del poeta" (Mardersteig, 1974, p. 263) - e i due, di straordinaria 'presenza' icastica, affrescati rispettivamente nella cappella di S. Felice nella basilica di S. Antonio (1372-1379) e nell'oratorio di S. Giorgio a Padova (1380-1384).
Bibl.: Fonti. - Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di G. Contini, Torino 1964; id., De remediis utriusque fortune, in id., Opera quae extant omnia, Basel 1554, pp. 7-254; id., Senilium rerum libri, ivi, pp. 813-1070 (trad. it. a cura di G. Fracassetti, 2 voll., Firenze 1869-1870; Le Senili, a cura di U. Dotti, I, Roma 1993); id., Familiarium rerum libri, a cura di V. Rossi, U. Bosco, 4 voll., Firenze 1933-1942 (trad. it. a cura di E. Bianchi, in id., Opere, a cura di M. Martelli, I, Firenze 1975, pp. 241-1285); id., Itinerario in Terra Santa, a cura di F. Lo Monaco, Bergamo 1990, pp.60-61; id., Lettere disperse, a cura di A. Pancheri, Parma 1994; id., Lettera ai posteri (Posteritati), a cura di G. Villani, Roma 1990; id., Secretum, a cura di E. Fenzi, Milano 1992, pp. 226, 376; id., Testamentum, in id., Opere latine, a cura di A. Bufano, II, Torino 1975, pp. 1342-1356; id., Triumphi, a cura di M. Ariani, Milano 1988.
Letteratura critica. - J. von Schlosser, Ein veronesisches Bilderbuch und die höfische Kunst des XIV. Jahrhunderts, JKhSWien 16, 1895, pp. 144-230 (trad. it. L'arte di Corte nel secolo decimoquarto, a cura di G.L. Mellini, Pisa 1965); G. De Blasiis, Immagini di uomini famosi in una sala di Castelnuovo attribuite a Giotto, NN 9, 1900, pp. 65-67; P. Schubring, Uomini famosi, RKw 23, 1900, pp. 424-425; V. D'Essling, E. Müntz, Pétrarque: ses études d'art, son influence sur les artistes, ses portraits et ceux de Laura, l'illustration de ses écrits, Paris 1902; W. Weisbach, Petrarca und die bildende Kunst, RKw 26, 1903, pp. 265-287; P. Rossi, Simone Martini e Petrarca, Bullettino senese di storia patria 11, 1904, pp. 160-182; G. De Nicola, L'affresco di Simone Martini ad Avignone, L'Arte 9, 1906, pp. 336-344; A. Venturi, Les ''Triomphes'' de Pétrarque dans l'art représentatif, RAAM 20, 1906, pp. 81-93, 209-221; P. De Nolhac, Pétrarque et l'humanisme, 2 voll., Paris 1907; A. Farinelli, Petrarca e le arti figurative, in Michelangelo e Dante, Torino 1918, pp. 421-444; W. Weisbach, Trionfi, Berlin 1919; L. Venturi, La critica d'arte e Francesco Petrarca, L'Arte 25, 1922, pp. 238-244; E. Faral, Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle, Paris 1924; E. Panofsky, ''Idea''. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie, Leipzig-Berlin 1924 (trad. it. Idea. Contributo alla storia dell'estetica, Firenze 1952); M. Bloch, When did Simone Martini go to Avignon?, Speculum 2, 1927, pp. 470-472; P. Schubring, Die älteste Darstellung des Triunfo della Fama von Petrarca, Pantheon. Internationale Zeitschrift für Kunst 4, 1929, pp. 561-562; F. Neri, Fabrilia. Ricerche di storia letteraria, Torino 1930, pp. 47-53; L. Chiovenda, Die Zeichnungen Petrarcas, Archivum Romanicum 17, 1933, pp. 1-61; N. Zingarelli, Scritti di varia letteratura, Milano 1935, pp. 270ss., 329ss.; D.C. Shorr, Some Notes on the Iconography of Petrarch's Triumph of Fame, ArtB 20, 1938, pp. 100-107; A. Peter, Quand Simone Martini est-il venu en Avignon?, GBA, s. VI, 20, 1939, pp. 153-174; R. Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, CrArte 5, 1940, pp. 145-191: 180; R. Weiss, Il primo secolo dell'Umanesimo, Roma 1949, p. 69ss.; Toesca, Trecento, 1951; T.E. Mommsen, Petrarch and the Decoration of the Sala Virorum illustrium, ArtB 34, 1952, pp. 95-116 (rist. in id. Medieval and Renaissance Studies, Ithaca 1959, pp. 130-174); G. Paccagnini, Simone Martini, Milano 1954; T.E. Mommsen, Petrarch's Testament, Ithaca 1957 (rec.: G. Billanovich, Romance Philology 12, 1959, pp. 420-421); Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, cat., Milano 1958; L. Magagnato, Da Altichiero a Pisanello, cat., Verona 1958; E.H. Wilkins, Petrarch's Later Years, Cambridge (MA) 1959; E. Panofsky, Renaissance and Renascences in Western Art, Stockholm 1960 (trad. it. Rinascimento e rinascenze nell'arte occidentale, Milano 1971); E. Castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel secolo XIV, Torino 1962; L. Magagnato, Arte e civiltà del Medioevo veronese, Torino 1962; G. Carandente, I Trionfi nel primo Rinascimento, Roma 1963; E.H. Wilkins, Vita di Petrarca, Milano 1964; G.L. Mellini, Altichiero e Jacopo Avanzi (Studi e documenti di storia dell'arte, 7), Milano 1965; J. Rowlands, Simone Martini and Petrarca: a Virgilian Episode, Apollo 81, 1965, pp. 264-269; F. Saxl, Petrarca a Venezia, in La storia delle immagini, Bari 1965, pp. 35-49; P. Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, Torino 19662 (Milano 1912); A. Petrucci, La scrittura di Francesco Petrarca, Città del Vaticano 1967; B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen, 1300-1450. I. Süd- und Mittelitalien, 4 voll., Berlin 1968; F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli 1266-1414, Roma 1969; M. Baxandall, Giotto and the Orators. Humanist Observers of Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition, 1350-1450 (Oxford-Warburg Studies), Oxford 1971; F. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Petrarca. La canzone delle visioni, Firenze 1971; R. Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford 1973; Da Giotto al Mantegna, cat. (Padova 1974), Milano 1974; G.L. Mellini, Considerazioni su probabili rapporti tra Altichiero e Petrarca, ivi, pp. 51-54; G. Mardersteig, I ritratti del Petrarca, Italia medioevale e umanistica 17, 1974, pp. 251-280; A. Schmitt, Zur Wiederbelebung der Antike im Trecento: Petrarcas Rom-Idee in ihrer Wirkung auf die Paduaner Malerei. Die methodische Einbeziehung des römischen Münzbildnisses in die Ikonographie ''Berühmter Männer'', MKIF 18, 1974, pp. 167-218; Boccace en France. De l'humanisme à l'érotisme, a cura di F. Avril, F. Callu, cat., Paris 1975; B. Degenhart, Das Marienwunder von Avignon. Simone Martinis Miniaturen für Kardinal Stefaneschi und Petrarca, Pantheon 33, 1975, pp. 191-203; G. Billanovich, Petrarca e Padova, Padova 1976; E. Fenzi, Di alcuni palazzi, cupole e planetari nella letteratura classica e medievale e nell' ''Africa'' di Petrarca, Giornale storico della letteratura italiana 153, 1976, pp. 12-59, 186-229; G. Perocco, Il palazzo ducale, Andrea Dandolo e il Petrarca, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di G. Padoan, Firenze 1976, pp. 169-177; J. Brink, Francesco Petrarca and the Problem of Chronology in the Late Paintings of Simone Martini, Paragone 28, 1977, 331, pp. 3-9; C. Gilbert, The Fresco by Giotto in Milan, Arte lombarda, n.s., 1977, 47-48, pp. 31-72; E.H. Wilkins, On Petrarch's Appreciation of Art, in Studies on Petrarch and Boccaccio, Padova 1978, pp. 197-200; S. Samek Ludovici, Francesco Petrarca: I Trionfi, Roma 1979; G. Contini, Petrarca e le arti figurative, in Francesco Petrarca Citizen of the World, Padova-Albany 1980, pp. 115-131; J. Gregory, Simone Martini's Frontispiece to Petrarch's Virgil: Sources and Meaning, Australian Journal of Art 2, 1980, pp. 33-40; W. Hirdt, Sul sonetto del Petrarca "Per mirar Policleto a prova fiso", in Miscellanea di studi in onore di V. Branca, I, Firenze 1983, pp. 435-447; M. Bettini, Tra Plinio e sant'Agostino: Francesco Petrarca sulle arti figurative, in Memoria dell'antico nell'arte italiana, a cura di S. Settis, I, L'uso dei classici (Biblioteca di storia dell'arte, n.s., 1), Torino 1984, pp. 221-267; M.M. Donato, Gli eroi romani tra storia ed "exemplum". I primi cicli umanistici di Uomini Famosi, ivi, II, I generi e i temi ritrovati (Biblioteca di storia dell'arte, n.s., 2), Torino 1985, pp. 97-152; A. Pinelli, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di un tema, ivi, pp. 281-350; G. Billanovich, La biblioteca papale salvò le storie di Livio, Padova 1986; L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del ''Trionfo della morte'', Roma 1987; A. Cadei, s.v. Martini, Simone, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987a, pp. 394-395; id., s.v. Medioevo. Tradizione manoscritta illustrata, ivi, 1987b, pp. 443-450: 447; M. Feo, s.v. Petrarca, Francesco, ivi, IV, 1988, pp. 53-78: 55; G. Mazzotta, Antiquity and the New Arts in Petrarch, Romanic Review 1, 1988, pp. 22-41; P.D. Stewart, L'arte e la natura nel gusto figurativo del Petrarca e del Boccaccio, in Letteratura italiana e arti figurative, a cura di A. Franceschetti, I, Firenze 1988, pp. 41-60; B.S. Tosatti, Le tecniche pittoriche di Simone nell' ''Allegoria virgiliana'', in Simone Martini, "Atti del Convegno, Siena 1985", Firenze 1988, pp. 131-138; Petrarch's Triumphs. Allegory and Spectacle, a cura di K. Eisenbichler, A.A. Iannucci, Toronto 1990; M. Ciccuto, Figure di Petrarca. Giotto, Simone Martini, Franco Bolognese, Napoli 1991; S. Skerl Del Conte, Petrarca ispiratore del ciclo pittorico della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale a Venezia, Lettere italiane 44, 1992, pp. 41-56; J.B. Trapp, The Iconography of Petrarch in the Age of Humanism, Quaderni petrarcheschi 9, 1992-1993, pp. 11-73; C. Ciociola, Scrittura per l'arte, arte per la scrittura, in Storia della letteratura italiana, II, Roma 1995, pp. 531-580; M. Ariani, Francesco Petrarca, ivi, pp. 601-726.M. Ariani