Poeta (Bosisio, od. Bosisio Parini, 1729 - Milano 1799). Ordinato, senza vocazione, prete (1754), accettò il programma dell'Illuminismo e intese la poesia come forza educativa all'«utile», adottando spesso un rigoroso stile neoclassico. Attaccò il torpore morale dell'aristocrazia nel poemetto Il Giorno, capolavoro di P., poema unico nel suo genere; satiricamente didattico, in quanto il poeta, forse parodiando il poema didascalico abusato nel suo tempo, finge di scrivere una specie di galateo per il «Giovin Signore»; epicamente satirico, in quanto dà alla satira proporzioni di poema. Ne risulta un gran quadro parlante della ridicola nobiltà italiana del Settecento, pomposa e frivola, superba e vana, molle e oziosa.
Figlio di un piccolo negoziante di seta, fu condotto a Milano presso una prozia e iscritto alle scuole di S. Alessandro o Arcimbolde, tenute dai barnabiti. A 23 anni pubblicò un volumetto di versi, Alcune poesie di Ripano Eupilino (cioè «dell'Eupili», nome d'un laghetto prosciugato identificato col vicino lago di Pusiano presso Bosisio), che piacque e gli permise l'ingresso all'Accademia dei Trasformati, accolta di gentiluomini e letterati aperti alle idee del progresso. Una piccola rendita lasciatagli dalla zia a condizione che si facesse prete lo aveva spinto ad abbracciare lo stato ecclesiastico, che d'altra parte era allora la più comoda sistemazione sociale per un letterato di modesta condizione; e nel 1754, senza vocazione, fu ordinato prete. Entrò subito come precettore in casa della colta e bella duchessa Vittoria Serbelloni; e vi rimase otto anni, avendo agio di conoscere a fondo la vita e il mondo della nobiltà del tempo, che satireggiò poi nella sua opera maggiore. Nell'ottobre del 1762, avendo preso le difese della figlia del maestro G. B. Sammartini schiaffeggiata dalla duchessa, questa, benché a malincuore, lo licenziò. Sebbene gli fosse da poco morta la madre, al cui sostentamento aveva dovuto provvedere sempre con grandi sacrifici (cfr. il pietoso capitolo Al canonico Agudio), passò alcuni mesi di grandi strettezze economiche, dalle quali lo liberò la stampa del Mattino (marzo 1763), che lo fece diventare a un tratto celebre. Il conte Francesco Imbonati gli affidò il figlio Carlo (per il quale P. scrisse poi l'ode L'educazione); il conte di Firmian, ministro plenipotenziario dell'Austria in Lombardia, cominciò a proteggerlo e gli affidò prima (1768) la compilazione del giornale ufficioso del governo, La Gazzetta di Milano, poi, sulla fine del 1769, la cattedra di eloquenza nelle Scuole Palatine, che nel 1773 presero il nome di R. Ginnasio e si stanziarono nel palazzo di Brera. E altre incombenze egli ebbe dal governo austriaco, da quella di scrivere un melodramma in occasione delle nozze dell'arciduca Ferdinando con Maria Beatrice d'Este (e fu l'Ascanio in Alba, musicato da Mozart), all'incarico di scrivere gli statuti per l'Accademia di belle arti e per quella di agricoltura, fino alla carica di soprintendente alle scuole pubbliche (1791). Alla venuta dei Francesi a Milano (1796), P. fu nominato membro della municipalità; ma i soprusi e il malgoverno dei demagoghi, creature dei Francesi, subito lo delusero e lo disgustarono. Il 21 luglio lesse una dichiarazione nobilissima, ma ingenuamente impolitica, con la quale rivendicava alla municipalità di Milano il diritto di dare una Costituzione alla Cisalpina, senza attendere gli ordini di Parigi. La sua proposta non fu accolta, e fu congedato. Rientrati nel 1799 a Milano gli Austriaci, accolse volentieri l'invito di celebrarne la vittoria, e la mattina del 15 agosto dettò e poi ricopiò di suo pugno il sonetto Predaro i Filistei, condanna per i Francesi e ammonimento per gli Austriaci. Nel pomeriggio morì.
P. si fece conoscere dal pubblico con Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752), dove accanto a rime schiettamente arcaiche si segnalano per rilievo e vigoria di piglio non poche composizioni in forma bernesca, d'intonazione realistica e giocosa, che testimoniano la complessa educazione letteraria del giovane autore, basata soprattutto sui classici e sui cinquecentisti. Ma il suo nome è consegnato principalmente al Giorno e alle Odi. Il Giorno è un poemetto in endecasillabi sciolti diviso in quattro parti, di cui le prime due, Il Mattino e Il Mezzogiorno, furono edite rispettivamente nel 1763 e nel 1765, le altre, Il Vespro e La Notte, rimaste incompiute, pervennero alle stampe postume nel 1801. Nel poemetto P., sotto le vesti di un precettore, istruisce un giovane nobile sul modo migliore e più conveniente alla sua casta di trascorrere le varie parti della giornata. Scorre così sotto i nostri occhi una lunga serie di atti frivoli e di futili occupazioni, una galleria di macchiette e personaggi tipici del mondo nobiliare (la dama, il marito, il cicisbeo, i commensali, ecc.) sui quali la penna del poeta indugia con sottili effetti satirici ma forse, almeno nel Mattino e nel Mezzogiorno, con eccessiva analiticità di modi narrativi. Nel Vespro e nella Notte il quadro si allarga e abbraccia la vita di tutta l'aristocrazia (visite, amori, litigi, divertimenti, ricevimenti, giochi di società, ecc.) mentre il disegno si fa più rapido e il tono talvolta si distende in pensosa contemplazione. Non v'è dubbio che l'intento pariniano nel comporre il poemetto fosse quello di colpire la vacuità se non di tutta certo di molta parte dell'aristocrazia milanese e più largamente italiana. Questo intento si legava ai programmi «civili» e progressisti dell'illuminismo, che P. accettò senza estremismi rivoluzionari, ma più ancora al bisogno di intendere la poesia come forza educativa all'«utile» in armonia con quell'energica visione della dignità umana che è centrale nella coscienza pariniana. È stato giustamente notato che il bersaglio polemico del Giorno è in primo luogo la stupidità, l'inerzia, il torpore morale del patriziato, un bersaglio che la stessa aristocrazia illuminata poteva far suo. Di qui il successo del Giorno anche negli ambienti nobiliari di Milano. Ma il poemetto contiene anche altri motivi: la simpatia per gli umili, il culto delle virtù familiari, lo sdegno contro le ingiustizie sociali, l'avversione a una cultura superficiale e salottiera come a ogni forma di rilassatezza morale. Tale vasta materia è affidata a uno stile classicamente nitido, a forme squisite ed elette: e se la realtà si depura passando attraverso il filtro della parola aulica, questa è anche amata per sé stessa. D'altra parte P. non rifugge dall'inserire nel contesto qualche termine tecnico o plebeo, di solito investito d'una funzione caricaturale, mentre in certi casi volge il medesimo alto decoro della frase latineggiante (come il ricorso a intermezzi mitologici) a esiti satirici e ironici, specie quando ne sottolinea il contrasto con l'argomento dimesso e vano. Gli altri elementi più propriamente neoclassici, rococò, sensistici (perfino forse qualche sfumatura preromantica), mescolati col classicismo di origine cinquecentesca, confermano poi la maturità dell'artista ormai in grado di sintetizzare in un'opera di alto pregio letterario le più vitali istanze del suo tempo. Anche le Odi (1a ed., comprendente 22 componimenti, 1791; 2a ed., ampliata a 25 componimenti, 1795) muovono da un disegno nobilmente didascalico, ma al di là dei temi particolari toccanti per esempio la necessità di riforme sociali e giuridiche (La salubrità dell'aria, Il bisogno), l'inarrestabile progresso della scienza e della cultura (L'innesto del vaiuolo, La laurea), certi aspetti moralmente deprecabili della società contemporanea (La musica, L'impostura, A Silvia), occorre avvalorare in esse un altro più ampio tema accordato con gli ideali del Giorno: l'alto senso dell'uomo e il ripudio di ciò che dell'uomo possa offendere la coscienza o possa deviare il fondamentale impegno pratico. Questo motivo anima particolarmente certe odi (La caduta, La educazione, Alla Musa) ma agisce in modo decisivo non solo sulle prime, in gran parte ispirate dal programma dei Trasformati, ma anche sulle ultime, posteriori alla pubblicazione del Mezzogiorno e più ricche di moduli neoclassici, dove a torto si è visto come un venir meno degli interessi sociali e della polemica antinobiliare. A parte le tre odi di argomento galante e d'intonazione «intimista» (Il pericolo, Il dono, Il messaggio) nella matura e tarda produzione P., se pure in forme attenuate (effetto delle sue mutate condizioni psicologiche e delle trasformazioni storiche in atto), ha presenti i bisogni, i mali, le speranze dei suoi contemporanei e resta fedele a una concezione «utile» della poesia. E proprio alla poesia, dichiarata inconciliabile con i bassi calcoli, le sfrenatezze morali, le ambizioni, gli istinti morbosi e aperta invece ai placidi affetti, alla purezza di cuore e di costume, alla semplicità, alle gioie intime dell'amicizia e della famiglia, è dedicata l'ultima ode (Alla Musa). Oltre le opere maggiori P. lasciò un gran numero di rime varie (canzonette, scherzi, cicalate, terzine, versi sciolti, sonetti) spesso destinate a tornate accademiche o a raccolte occasionali per questo o quel personaggio, questo o quell'avvenimento: benché in genere prive di valore poetico, esse forniscono ugualmente elementi utili alla comprensione del mondo settecentesco e a ricostruire l'attività del loro autore. Lo stesso si dica di alcune opere in prosa che non tanto valgono per originalità di pensiero quanto perché testimoniano gli orientamenti di P. riguardo a precisi problemi culturali. Si distinguono in tal senso le due lettere polemiche (1760) contro il gesuita Onofrio Branda, denigratore dei Milanesi e del loro dialetto, entrambe notevoli per buon senso, sostenutezza di ragionamento, modernità di vedute circa la dignità dei dialetti e i rapporti tra dialetto e lingua; il trattato De' principii fondamentali e generali delle belle lettere applicati alle belle arti (steso fra il 1773 e il 1775), che raccoglie le lezioni tenute dal poeta a Brera e nella prima parte espone le idee dei sensisti e dei razionalisti intorno alle arti, mentre nella seconda si restringe a parlare delle lettere con rapide osservazioni di carattere linguistico e stilistico sui principali scrittori italiani; le Lettere ad una falsa devota (posteriori al 1761), satira del probabilismo gesuitico, sotto il velo di un continuato insegnamento ironico; il Dialogo sopra la nobiltà (1757), riflettente le idee dei Trasformati, in cui è già netta l'opposizione pariniana contro i privilegi di casta e contro lo stolto concetto di nobiltà ereditaria. Edizioni critiche del Giorno (1969) e delle Odi (1975) sono state procurate da D. Isella.