Per I. si intende sia l’età della storia d’Europa compresa tra la conclusione delle guerre di religione del 17° sec. o la rivoluzione inglese del 1688 da un lato e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro, sia la connessa evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia e il rinnovamento delle forme letterarie nel corso del 18° secolo. La metafora della luce contenuta nel termine (fr. Âge des lumières; ingl. Enlightenment; ted. Aufklärung) deriva dalla secolarizzazione e laicizzazione dell’idea di provvidenza o progresso, intesa come attività storica umana: così il concetto di ‘luce di natura’ fu anteposto e contrapposto dai deisti inglesi alla rivelazione cristiana in quanto possesso originario della mente umana; così pure la scoperta delle leggi naturali apparve una più piena rivelazione o ‘illuminazione’. Confluirono con questi due motivi le conclusioni ottimistiche del dibattito sulla teodicea, l’idea della superiorità dei moderni rispetto agli antichi prevalsa in un’annosa querelle, l’ideale continuità con la rivoluzione scientifica e con la rinascenza, lasciando emergere la caratteristica immagine del trionfo della ragione contro le tenebre del fanatismo e della superstizione, che divenne corrente verso la metà del secolo. I contenuti filosofici e scientifici della cultura dei lumi rinviano a un complesso programma di rinnovamento ideologico, civile, politico, che fu elaborato variamente nei diversi paesi (v. fig.) e accompagnò ovunque la crescente egemonia della borghesia commerciale e industriale in lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale.
L’affermazione solenne dell’autonomia della ragione, che è alla radice della cultura dei lumi, maturò in cerchie ristrette e assunse un peculiare significato politico e religioso negli ultimi decenni del 17° secolo. La superfluità di ogni rivelazione divina, il distacco dalle varie ortodossie ecclesiali, l’autonomia delle leggi morali, l’immagine razionale di un Dio architetto del cosmo svelato dalla nuova scienza, sono gli aspetti costruttivi del deismo, del quale si considera generalmente iniziatore E. Herbert of Cherbury. Ma le grandi linee della disputa settecentesca sulla religione naturale e rivelata hanno piuttosto la loro origine nella critica negativa del cristianesimo storico e della tradizione biblico-ecclesiastica, svolta sia dai grandi eruditi olandesi, sia dai libertini e spiriti forti francesi.
Le condizioni propizie per la maturazione del deismo si crearono in Inghilterra, quando gli eccessi fanatici dell’età puritana stimolarono la formazione di élite di eterodossi, dissenzienti e increduli. All’indomani della rivoluzione del 1688, si richiamarono a J. Locke i deisti e i freethinkers, radicalizzando però in senso antireligioso e politico le sue vedute di cristianesimo ragionevole, infrangendo la tregua con l’episcopato anglicano e il rispetto esteriore per le tradizioni. Si posero su questa strada J. Toland, J.A. Collins, M. Tindal, W. Wollaston e molti altri polemisti e libellisti, la cui rivendicazione di un «cristianesimo senza misteri» si modificò presto in posizioni panteistiche, materialistiche e ateistiche, consapevolmente legate alla critica dell’ideologia whig o tory, e della collusione tra potere politico e religione. Sostenitore di un deismo ‘cristiano’ fu S. Clarke, che combatté i deisti estremisti usando come argomento apologetico l’immagine newtoniana dell’universo-macchina.
La controversia deistica, che si svolse con molta vivacità fino al 1730 circa, coinvolse posizioni politiche di varia tendenza: inizialmente sovversiva, finì per penetrare nei circoli aristocratici, contagiando e acquisendo al deismo anche politici e letterati conservatori, come Bolingbroke e A. Pope. Una vivace reazione al deismo da parte anglicana ebbe i suoi più originali protagonisti nei vescovi e apologisti J. Butler e G. Berkeley, che seppero trasferire la disputa sul piano etico e filosofico. La controversia era sostanzialmente esaurita, quando D. Hume ne ricompose i momenti nella brillante summa dei suoi Dialogues concerning natural religion e ricapitolò dal punto di vista della sua psicologia della ‘credenza’ l’analisi antropologica, sociologica, politica della religione, svolta fin dalla metà del 17° sec. da P. Bayle, Fontenelle, dagli eruditi e dai viaggiatori.
Queste furono anche le fonti della critica antireligiosa svolta clandestinamente in Francia, nei primi decenni del secolo, da N. Frèret, H. de Boulainvilliers, C.C. Du Marsais, J. Meslier e altri compilatori di manoscritti anonimi, pubblicati dopo il 1760 da d’Holbach. La critica della collusione tra altare e trono, la polemica contro il gesuitismo e il rigorismo giansenistico, l’esigenza di emancipazione politico-religiosa si uniscono qui a un anticlericalismo più risentito, a una più decisa ripresa di tesi epicuree e spinoziane e a una più massiccia campagna ideologica. La disputa emerse cautamente nei primi scritti di Montesquieu e Voltaire, acquistò impeto verso la metà del secolo in anonime pubblicazioni deistiche o ateistiche, fu repressa, risorse con gli scritti di D. Diderot e C.-A. Helvétius, seguì la sorte dell’Encyclopédie, e finalmente dilagò nelle innumerevoli compilazioni materialistiche ed empie edite da d’Holbach. Voltaire tuttavia respinse le radicali conclusioni ateistiche e materialistiche degli enciclopedisti, difendendo il credo deistico che aveva assimilato dagli scrittori inglesi. J.-J. Rousseau, dopo un periodo di stretta collaborazione con gli enciclopedisti, maturò una personale rivendicazione del teismo, espressa nell’Émile e nelle Rêveries e profondamente connessa con le sue vedute morali, educative e politiche.
La stessa multiforme varietà del deismo franco-inglese non consente di ridurre a una formula la critica illuministica della religione; e il quadro si fa ancor più folto se vi si fanno rientrare le discussioni sulle credenze dei primitivi, sugli dei pagani, sulle religioni extra-europee, sui miti e sulle favole antiche, strettamente legate alla mitografia erudita e all’esegesi biblica del tardo Seicento.
In Germania la discussione sulla religione assunse forme erudite e meno vivacemente polemiche, nell’esegesi razionalista di C. Wolff, H.S. Reimarus, nelle discussioni sullo spinozismo, sul deismo e sulle scritture che coinvolsero G.E. Lessing, J.G. Hamann, J.G. Herder e F.H. Jacobi. Gli esiti della controversia sono rappresentati dalla proposta kantiana di una «religione nei limiti della ragione pura», inserita nel contesto della critica della metafisica e della fede pratica scaturente dagli imperativi morali; e, d’altro lato, dall’interpretazione storicistica della provvidenza come progresso e rivelazione continua, dall’ideale lessinghiano di una perpetua «educazione del genere umano», dalla filosofia della storia di Herder.
Non è possibile segnare una netta cesura tra la maturazione del metodo sperimentale nel 17° sec., il razionalismo e l’empirismo da un lato, la gnoseologia illuministica dall’altro. Controverso è il ruolo del metodo e della fisica di R. Descartes nello sviluppo delle scienze, nella formazione di una generale concezione meccanicistica della natura e nel razionalismo dei lumi. D’altra parte le acquisizioni del metodo galileiano vennero a convergere, attraverso l’opera degli accademici del Cimento, di R. Boyle e della Royal Society, di B. Pascal, C. Huygens e dell’Académie des Sciences, nella sintesi newtoniana. Alle soglie del 18° sec. la rivoluzione scientifica era compiuta. La meccanica razionale rappresentava un modello epistemologico per tutte le altre scienze, destinate a estendersi e ramificarsi per circa due secoli senza sostanziali mutamenti nei loro concetti fondamentali. Di qui anche l’egemonia del metodo sperimentale newtoniano sulla riflessione epistemologica.
In Francia furono più sensibili le resistenze opposte alla nuova sintesi scientifica dalla scolastica cartesiana e dai metafisici malebranchiani. Dopo compromessi di vario genere, la sintesi newtoniana fu divulgata da Voltaire, Buffon, Maupertuis, Madame du Châtelet; suoi singoli aspetti furono rinnovati da d’Alembert, A.-C. Clairaut, Maupertuis, L. Euler, R.G. Boscovich. In generale, la fisica newtoniana nutrì anche la polemica ideologica dei philosophes francesi, mentre in Germania e in Italia fu recepita, rispettivamente, nell’ambito delle discussioni metafisico-gnoseologiche della scuola leibniziana, e della tradizione tecnico-matematica della scuola galileiana.
L’altro aspetto capitale della filosofia dei lumi è rappresentato dallo svolgimento e adattamento della gnoseologia di Locke: l’origine empirica delle idee, l’analisi dei processi associativi, la critica delle illusioni linguistiche come fonte di falsi dilemmi metafisici fornirono una soddisfacente giustificazione del metodo sperimentale, confluendo in Inghilterra e in Europa con gli sviluppi delle scienze esatte. Vi si richiamarono i filosofi italiani da A. Genovesi a P. Verri e C. Beccaria; Voltaire, É. Bonnot de Condillac, Helvétius condussero in nome di Locke una serrata critica dello ‘spirito di sistema’ che aveva dominato le costruzioni dei filosofi razionalisti del Seicento. I criteri analitici lockiani furono fatti valere da Condillac nell’analisi del linguaggio, da Helvétius nella critica sociale e politica, soprattutto contro i privilegi dell’educazione aristocratica. D’altra parte Diderot si rifece, oltre Locke e la sintesi newtoniana, al grande progetto baconiano di una connessione articolata tra scienze pure, arti meccaniche e tecnologia, che trovò la sua pratica realizzazione nell’Encyclopédie.
Comune agli enciclopedisti è la concezione non speculativa della filosofia, intesa appunto come riflessione epistemologica sulle varie scienze e sulle loro articolazioni, in vista di un preciso programma economico, politico, civile. I medesimi motivi operano, in direzioni diverse, nell’indagine epistemologica di Berkeley e di Hume, entrambi critici del metodo sperimentale e delle pretese oggettivistiche connesse ai ‘modelli’ fisici (come il concetto di corpuscolo materiale, l’infinito matematico e i raggi ottici). Mentre la critica di Berkeley mirava a mettere in crisi i fondamenti teorici della fisica sperimentale in funzione di una restaurazione metafisica dell’antica immagine del cosmo, qualitativa e platonizzante, Hume operò la dissoluzione scettica dei processi logici e dei presupposti metafisici impliciti nel metodo newtoniano, mostrandone l’origine in abiti psicologici indebitamente ipostatizzati. È noto che la caduta dei presupposti metafisici della fisica, operata da Hume, scosse I. Kant dal ‘sonno dogmatico’ che contrassegna i suoi lavori giovanili. Il problema originario della filosofia critica si configurò in parte come tentativo di ricostruire i fondamenti logici della fisica newtoniana, non più sulle basi irrecuperabili della metafisica razionalista, ma radicandoli nelle strutture a priori della sensibilità e dell’intelletto, così da sottrarli a ogni relativismo scettico. Tempo e spazio assoluti e le leggi della meccanica acquistavano così – dopo un’elaborazione scientifica secolare – lo status ontologico di ‘forme’ trascendentali, condizionanti l’esperienza.
D’altra parte le singole scienze si svilupparono automaticamente secondo i criteri prefissati, a opera di grandi matematici e fisici, come G.L. Lagrange, A.-M. Legendre, G. Monge, P.-S. de Laplace, F.W. Herschel; la chimica moderna fu fondata da A.-L. Lavoisier e J. Priestley; l’elettrologia da B. Franklin, C.-A. de Coulomb, H. Cavendish, L. Galvani, A. Volta. Le ricerche biologiche, a partire dall’opera dei fondatori della microscopia del 17° sec., si svilupparono soprattutto riguardo ai problemi della generazione, grazie a L. Spallanzani, C. Bonnet, Maupertuis, Buffon; mentre l’anatomia comparata e la tassonomia vegetale e animale – ancora rigidamente fissista nei suoi fondatori, J. Ray e C. Linneo – facevano intravedere i processi dell’evoluzione naturale, culminando nell’opera di Lamarck. Anche le scienze biologiche furono profondamente influenzate dalla riflessione filosofica – da Buffon a Kant – e ne subirono reciprocamente l’influenza.
Una prima caratteristica comune ai politici dell’I. consiste nel punto di vista pragmatico, che accantona la trattazione dei problemi politici in chiave di ragion di Stato, e di prudenza o arte di governo – dominante negli scrittori ‘machiavellici’ del Seicento – sostituendovi l’impegno riformistico, la tensione volontaristica a mutare i rapporti sociali. Una seconda costante si riassume nel quesito di Hume, «se la politica possa ridursi a scienza». Entrambe le esigenze riflettono il nuovo ruolo storico della borghesia e l’incidenza crescente della tecnologia e della scienza nella vita associata.
Il peculiare grado di sviluppo economico e politico raggiunto dall’Inghilterra negli anni della rivoluzione ‘gloriosa’ segnò anche un nuovo punto di partenza per l’egemonia della borghesia commerciante. Al nuovo ordinamento, sorto politicamente dal compromesso e sancito dalla Costituzione del 1689, cui la teoria contrattualistica lockiana offriva giustificazione, fece seguito la prassi empirica dell’equilibrio tra i vari poteri dello Stato (monarchia, parlamento, magistratura) e del governo di gabinetto. Assorbendo le tensioni sociali, questo ordinamento favorì lo sviluppo della rivoluzione industriale – dalla metà del secolo in poi – entro un quadro di sostanziale conservazione sociale. Della stabilità delle istituzioni inglesi e di un moderato conservatorismo liberale furono interpreti Bolingbroke, Hume e i grandi storici scozzesi. Anche l’opera dell’economista scozzese A. Smith, nel suo orientamento sociologico, alieno da giudizi di valore, riflette la prassi politica liberale nell’analisi dei processi produttivi capitalistici, dei sottostanti conflitti sociali, della distribuzione della ricchezza, e più in generale nella concezione dello Stato di diritto, rigorosamente limitato nelle sue funzioni economico-sociali.
In Francia, il modello costituzionale lockiano operò profondamente nei programmi di riforma dei philosophes e nella volontà di ricondurre la politica ai modelli esplicativi delle scienze. Voltaire dette l’avvio a un vivace movimento di opinione a favore di un trapianto delle libertà inglesi, che non avrebbe cessato di diffondersi in Europa in tutto il corso del secolo. Nel suo capolavoro, Montesquieu mediò questa esigenza con il tentativo di gettare le basi di una scienza dell’uomo storico-sperimentale e articolò la sua indagine facendo convergere attorno alla formazione delle leggi le componenti religiose, economiche, etico-politiche presenti storicamente nelle varie società. La proposta politica implicita nell’Esprit des lois era quella di un’illuminata razionalizzazione dello Stato, mediante il rinnovo delle antiche forme parlamentari cadute in disuso nell’età assolutistica. Non diversamente orientati furono, in generale, i fisiocratici, teorici del laisser faire in economia, in funzione di un’emancipazione dalle restrizioni e strutture feudali, di una liberalizzazione dell’economia agricola e di un alleggerimento della pressione fiscale sulla proprietà latifondistica. Appaiono dominanti, in questa prospettiva, le proposte riformistiche degli economisti, di G. Bonnot de Mably, di G.-T.-F. Raynal, mentre in taluni articoli dell’Encyclopédie e negli scritti di Helvétius e d’Holbach la violenta polemica antireligiosa si accompagnava a prospettive politiche più radicali, in senso laico e democratico. Le idee egualitarie che si affacciano in alcuni scritti di Diderot, in Morelly, S.-N.-H. Linguet, e più tardi nel comunismo utopistico di F.-N. Babeuf, si richiamano piuttosto alle utopie della rinascenza, alla polemica contro la civiltà-corruzione, al mito del buon selvaggio. Si può considerare intermedia tra il riformismo dei philosophes e l’egualitarismo degli utopisti la teoria democratica di Rousseau, nella quale confluiscono la problematica giusnaturalista e lockiana da un lato, l’assolutismo hobbesiano dall’altro (con il tema della volontà generale). Il prevalente carattere normativo del Contrat social, le sue complesse implicanze morali, educative, religiose, segnano il profondo distacco di Rousseau dagli altri politici dell’I., nel senso di una concezione etica della vita politica, ben lontana dalla tendenza sociologica o scientifica comunemente affermatasi tra loro.
Guidato dall’irradiamento cosmopolitico dell’I. franco-inglese, il riformismo e dispotismo illuminato seguì orientamenti differenziati nei vari paesi europei. Le riforme trovarono terreno propizio laddove sussisteva un tessuto socioeconomico sviluppato, come nella Toscana leopoldina e nella Lombardia dei Verri e di C. Beccaria; conservarono carattere autoritario ed ebbero scarsa presa sulle strutture civili nell’Impero austriaco sotto Maria Teresa e Giuseppe II, nella Russia di Caterina II e nella Prussia di Federico II. Il regno di Napoli vide la fioritura autonoma di un complesso moto intellettuale, di cui furono protagonisti F. Galiani, A. Genovesi, F.M. Pagano, G. Filangieri, che recepirono e rielaborarono originalmente negli studi storici, giuridici, economici, le proposte emerse dal gran dialogo europeo, promuovendo e sopravanzando insieme le riforme civili, rese discontinue e incerte dall’irresoluta azione della monarchia e dall’organica arretratezza del regno.
Già attorno al 1760 la politica coloniale degli Stati europei aveva trovato critici acuti nei philosophes, sensibili al fascino dello stato di natura e del buon selvaggio, in nome della filantropia. La richiesta di abolire la tratta dei neri nelle colonie americane, l’analisi dello sfruttamento coloniale delle Indie e del corrispettivo arricchimento commerciale delle grandi compagnie si delinearono con maggior precisione negli scritti dei viaggiatori e nell’opera dell’abate Raynal. La formazione ideologica dei philosophes americani si svolse in tale ambiente, riflettendo variamente, oltre al filantropismo e all’anticolonialismo, anche le premesse lockiane e baconiane dell’enciclopedismo: T. Paine teorizzò i fondamenti etici della rivoluzione americana, T. Jefferson vi introdusse le fondamentali scelte politiche, B. Franklin ne interpretò i valori popolari, attraverso un’attiva mediazione con i circoli illuministici francesi. Così, firmatari della Dichiarazione d’indipendenza del 1776, essi la giustificarono alla luce dei medesimi principi dell’autogoverno, del consenso, delle garanzie dei diritti individuali, che erano alla base del contrattualismo lockiano e che – in assenza di rigide strutture socio-economiche – conferirono una fisionomia peculiare al liberalismo americano e all’evoluzione storica degli Stati Uniti, propaggine autonoma dal ceppo dell’I. europeo.
Il complesso delle concezioni razionalistiche assunte dalla filosofia illuminista del 18° sec. in relazione al diritto – incentrate sulla critica alla tradizione, alle istituzioni, all’ordine morale e alle normative vigenti – trova espressione nell’individualismo, che attribuisce un ruolo centrale al singolo, a cui vengono riconosciuti nuovi diritti, codificati per la prima volta in Francia nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789. L’I. giuridico fa propria anche la tesi utilitaristica, in virtù della quale è moralmente buono solo ciò che rende possibile il conseguimento dell’utile sociale. Gli illuministi non rinnegano la razionalità delle norme del diritto naturale, ma ritengono che queste ultime si possano realizzare solo nel diritto positivo; quindi affidano alla volontà del legislatore il compito di tradurre in norme il diritto naturale, ponendo la legge al primo posto nella gerarchia delle fonti. In campo penale, le istanze illuministiche danno luogo a una concezione garantista della pena.