ILLUMINISMO (ted. Aufklärung)
Con questo termine si suol designare quel movimento spirituale che s'inizia già nella prima metà del'sec. XVII, ma che giunge al suo pieno sviluppo nell'Europa centro-occidentale nel sec. XVIII. Terre d'origine sono soprattutto l'Inghilterra e i Paesi Bassi; ma terra classica di esso, in quanto generale processo di cultura, è la Francia, nel cui dixhuitième siècle si esprimono con la massima chiarezza, linearità, efficacia divulgatrice, le nuove idee; suoi rappresentanti tipici Voltaire, Diderot, D'Alembert; sua summa, l'Encyclopédie.
Si tratta dunque di un concetto analogo a quelli di Medioevo, Rinascimento, Romanticismo, creato per caratterizzare una particolare fase della civiltà europea, un "periodo" storico dalla fisionomia ben definita e sostanzialmente diversa da quella dei periodi immediatamente precedenti e seguenti, anche se un periodo confluisca nell'altro e lo svolgimento dal primo al secondo sia graduale e spesso, anzi quasi sempre, non immediatamente percepibile.
Nel caso concreto, primo carattere saliente dell'illuminismo è la fede assoluta, dogmatica, si potrebbe dire religiosa nella unità e nella validità della ragione umana: di una ragione cioè che rimane sempre identica a sé stessa, in tutti gli uomini, in tutte le epoche, in tutti i popoli, nonostante il variare dei tempi e il fluttuare delle opinioni; che pertanto può, sola, costituire la pietra di saggio della verità delle dottrine e delle idee e la base sicura a cui appoggiarsi per la ricerca.
In ciò l'orientamento spirituale delle nuove generazioni doveva riconoscere le sue origini nella filosofia cartesiana. Ma fra l'antesignano e gli epigoni c'era tuttavia una notevolissima differenza proprio nel modo di concepire la ragione stessa: la quale per il Descartes era anche, in certo modo, scrigno depositario di alcune verità fondamentali, raggiunte indipendentemente da ogni esperienza sensibile (le cosiddette idee innate); mentre per gli uomini del sec. XVIII è soltanto mezzo per assicurarsi della verità, forza - grande fin che si vuole - da sfruttarsi per raggiungere lo scopo, e non di per sé e in sé dispensatrice di verità. Rifiutata energicamente ogni forma d'innatismo (specie l'innatismo dei neo-platonici di Cambridge), ci si appella all'esperienza da cui soltanto, attraverso le sensazioni, scaturiscono le nostre conoscenze: Descartes, a cui si riconosce ancora il merito di aver dato per primo, con il suo metodo, il filo per aggirarsi nel labirinto del pensiero umano (Voltaire, Siècle de Louis XIV, cap. XXXI), cade per il resto in discredito, la sua metafisica è battezzata romanzesca e chimerica e, invece di lui, grandi filosofi divengono Newton e Locke.
Fermo restando il principio della validità universale ed eterna della ragione, unica guida alla verità, l'attività di essa è rivolta non più a dedurre da alcune verità innate i corollarî, non dunque a scendere dal generale al particolare, anzi a risalire, poggiando sui dati offerti dall'esperienza e con processo induttivo, verso le leggi che regolano la vita degli uomini e delle cose. Le nostre conoscenze prime non balzano fuori da uno scrigno chiuso, ma si originano attraverso la sensazione: l'esperienza, pertanto, diviene il problema centrale della filosofia lockiana e post-lockiana, giungendosi da una parte a Hume, dall'altra al sensismo del Condillac, che abolisce il dualismo lockiano fra senso e riflessione per far dipendere finanche la seconda dal primo e giungere così a un unitarismo sensistico in cui culmina un indirizzo filosofico, che rappresenta la più radicale antitesi con l'indirizzo cartesiano (v. sensismo).
E ancora sotto un altro riguardo i pensatori del sec. XVIII si allontanano non pure da Descartes, ma dagli altri filosofi dell'età precedente, Spinoza e Leibniz: nel rinunciare cioè a cercare i principî primi, l'essenza delle cose, la quale viene posta al di là delle nostre possibilità di conoscere. Non in un'impossibile e chimerica speculazione su ciò che ci è precluso, sibbene nel riconoscimento delle leggi che presiedono alla vita del mondo fisico come del mondo morale, deve consistere l'attività dell'uomo: quello che importa - e ch'è possibile - non è il determinare che cosa sia Dio o nello stabilire la natura della monade, bensì il chiarire le leggi che determinano il movimento degli astri e quelle che spiegano la "filiazione" delle nostre conoscenze e quelle che producono il corso degli eventi storici. Non la verità è propria dell'uomo, dirà uno dei tipici rappresentanti dell'illuminismo tedesco, il Lessing, ma il tendere alla verità, lo Streben nach Warheit. La prima, nella sua assolutezza, appartiene solo a Dio. E, diranno gli altri campioni dell'illuminismo francese, via l'esprit de système, via le costruzioni metafisiche, tipo Descartes, Spinoza, Leibniz: l'uomo non ha bisogno di tali chimere.
Nell'uno e nell'altro atteggiamento, nel rifarsi cioè all'esperienza, madre del conoscere, e nell'abbandonare la ricerca della causa prima per limitarsi all'esame delle leggi che regolano la vita delle cose, gl'illuministi del sec. XVIII palesavano apertamente quale fosse l'altra grande forza costitutiva della loro mentalità, allato della ragione cartesiana; palesavano cioè l'enorme influsso che nella forma mentis generale degli uomini e nel campo delle stesse scienze morali e storiche avevano avuto le scienze della natura. Queste, proprio nel sec. XVII, compievano più progressi di quanto non ne avessero mai compiuti in tutte le età precedenti sommate insieme: era Galileo che creava il metodo scientifico, prima appena intravisto; era soprattutto Newton che, formulando la legge di gravitazione, pareva squarciar le tenebre da cui l'uomo era stato sino a quel momento avvolto per rivelare la norma, universale e immutabile, da cui son rette tutte le cose, senza eccezione, nella terra e nei cieli: evento, questo, fra i più decisivi che si siano mai avuti nella storia del pensiero umano, per la sua influenza non solo nel campo particolare d'una disciplina specifica, bensì su tutto l'orientamento generale del pensiero. In un'età che non solo nei circoli dei dotti, ma altresì nella folla degli honnêtes hommes, cioè dei borghesi, stava perdendo la fede nelle verità eterne, annunziate dalla religione, e vedeva anzi i dogmi stessi fondamentali delle religioni, cattolicesimo o protestantesimo, accusati di "variazioni" (si pensi alla polemica fra Bossuet e i calvinisti, Jurieu e Basnage, proprio sullo scorcio del sec. XVII); ch'era sotto sotto inquinata dall'atteggiamento scettico e irriverente dei "libertini"; che, dunque, vedeva svanire la certezza nelle leggi e norme, morali e religiose, per tanti secoli accolte e venerate: in quest'età (fra la fine del secolo XVII e l'inizio del XVIII) la legge newtoniana diveniva un faro di luce, che additava la via da battere, il modello da seguire per ricostruirsi delle certezze anche nel campo morale. Quale certezza più "chiara e distinta", almeno apparentemente, di quella offerta dalle scienze fisiche e matematiche; quale, adunque, che più e meglio s'accordasse con quella "ragione" ch'era fede inconcussa di tutti?
Ed ecco la trasposizione in tutti i campi dello scibile del metodo trionfante nelle scienze matematiche e naturali; e il trionfo dell'esprit de géometrie, dello spirito analitico la cui validità Fontenelle trasferiva nelle scienze morali, e grazie al quale si sarebbero potute ritrovare, anche per queste ultime, le leggi universali. Dall'esperienza, cioè dal fatto particolare, si saliva alla norma, cioè all'universale, per cui poi gli stessi casi particolari potevano esser riuniti nella loro successiva, assoluta e quasi fatale concatenazione, nella loro connessione e nel loro significato: come Newton aveva dominato, con la sua legge, la vita delle cose naturali, così Montesquieu poteva affermare, nel preambolo dell'Esprit des Lois che, una volta posti i principî, aveva visto "les cas particuliers s'y plier comme d'eux mêmes, les histoires de toutes les nations n'en être que les suites et chaque loi particulière liée avec une autre loi ou dépendre d'une autre plus générale".
Era in ciò un completo capovolgimento di posizioni di fronte al mondo medievale, per il quale non la natura, ma l'uomo, in sé e nei suoi rapporti con Dio, aveva costituito il centro originario di tutta l'attività spirituale e in cui, se mai, erano state le scienze morali a influire sulle scienze naturali; era, anche, un notevole variar di posizione nei confronti del pensiero del Rinascimento, il quale, pur con tutti i suoi tentativi di frugar nel "gran libro" della natura, aveva sempre avuto il suo nocciolo nella scienza dell'uomo e aveva visto trionfare il metodo - per quel che di metodo poteva in allora essere - primieramente nelle scienze morali, prima nella filologia che nelle scienze. Ora invece, modello divenivano non più la filosofia o la filologia, ma la matematica e la fisica: che era l'inizio della trionfale vita delle scienze cosiddette esatte nel pensiero moderno.
Com'è ovvio, l'influsso non si limitava a creare una certa forma mentis generale, a determinare il metodo delle scienze morali a somiglianza di quello delle scienze matematiche; ma si faceva avveriire poi, sin dal Hobbes, nella visione del mondo che veniva creandosi. E affiorava così la concatenazione causale anche nella speculazione filosofica e storica; e il senso della necessità quasi meccanica, della fatalità rischiava di trapassare dal mondo della natura al mondo dello spirito, vi trapassava anzi apertamente col barone d'Holbach, naturalizzando così anche la vita dello spirito umano: che era il gran pericolo in cui il trionfo delle scienze esatte trascinava le scienze morali, già tratte per lo schematismo dell'idea di "ragione" - astratta proprio per voler essere universale ed eterna, sempre uguale a sé stessa, non mai mutantesi per volgere di eventi - verso il regno della teoria astratta e verso una nuova metafisica, non meno chimerica delle altre. E dall'una e dall'altra di queste due sue fonti il nuovo pensiero derivava infatti, in un con la chiarezza e la precisione, anche la rigidezza schematica delle sue formulazioni dottrinali.
Sicuri dunque della via da battere e del metodo da seguire per frugare definitivamente le tenebre da cui il mondo era tuttavia avvolto, gli uomini dell'illuminismo si provarono a costituire il proprio mondo dello spirito: e qui il loro sforzo consisté, soprattutto, nel sottrarre definitivamente alla sfera teologico-religiosa - per lo meno delle religioni positive e tradizionali - l'uomo e la sua azione, nel ridurre la religione a "una" forma di attività umana, parallela alle altre, ma non più abbraeciante in sé, anzi condizionante le altre. Fu, quest'epoca, l'epoca del declino del cattolicesimo medievale; pertanto, nonostante tutte le divergenze di mentalità e di atteggiamenti, il culmine di quell'opera di dissolvimento dell'unità spirituale del Medioevo cristiano, già iniziata e condotta innanzi dal Rinascimento italiano.
Il primo passo decisivo, a questo riguardo, era stato anch'esso compiuto in quella prima metà del sec. XVII, in cui veniva plasmata l'idea di ragione nel nuovo significato - non aristotelico-medievalistico - della parola; e l'aveva compiuto Ugo Grozio.
Non che l'idea di una lex naturae fosse rimasta sconosciuta al pensiero cristiano: anzi, si può dir fin dalle origini o quasi, questo aveva accolto in sé il concetto di un diritto naturale, precedente ogni costruzione sociale e statale e quindi moralmente condizionante la vita e le norme della società e dello stato. V'era in ciò anche un notevole influsso dello stoicismo romano; ma - e qui sta il suo carattere essenziale - nel pensiero cristiano la lex naturae è indissolubilmente associata alla lex Dei, e il diritto naturale è solo un presupposto all'elevazione verso la legge soprannaturale, verso la Grazia. Carattere non dissimile, nonostante tutte le divergenze d'interpretazione anche profonde nei singoli punti, aveva mantenuto il diritto naturale cristiano nell'età della Riforma. Sia che, con Lutero, si vedesse nella lex naturae solo una norma resa necessaria dallo stato di peccato in cui giacciono gli uomini, ma limitata al mondo terreno e senza rapporto alcuno con la Grazia, con il regno di Cristo; sia che, con Calvino, nuovamente si riportasse in connessione la legge naturale con la legge cristiana, nell'un caso e nell'altro il diritto naturale manteneva il suo valore solo perché connesso con la volontà divina. Le dottrine politiche dei calvinisti francesi, nell'età delle guerre di religione, e quelle dei gesuiti (Suarez) di quello stesso periodo, rivelano chiaramente il rapporto strettissimo in cui la legge naturale si trova ancora con la legge soprannaturale: donde la fallacia dei giudizî che accostano questi teorici ai più tardi giusnaturalisti e il "contratto" dei primi al "contratto" del sec. XVII-XVIII (v. anche contrattualismo).
Ma già con Altusio, alla soglia del Seicento, si compieva il passo innanzi per dare al diritto naturale la sua piena autonomia; e finalmente con Grozio si giungeva all'affermazione di un diritto naturale indipendente da ogni teologia e da ogni fede religiosa, che avrebbe valorei nella sua salda base razionale, anche se - per assurdo - non ci fosse alcun Dio. L'importanza enorme di una simile affermazione che, per la prima volta dacché il mondo era cristiano, costruiva tutta la società umana su basi puramente umane e razionali, staccandola da ogni rapporto con il problema religioso, non era limitata al campo specifico delle dottrine politiche e sociali, dove tuttavia avrebbe costituito, per circa due secoli, il substrato necessario di ogni discussione e di ogni teorizzamento, quali si fossero poi le illazioni singole che dal principio sarebbero state tratte. Era, in verità, forse ancor più significativo e ricco di conseguenze il fatto che, per tal modo, dalla natura scompariva quel marchio del peccato originale che l'aveva gravata, dal cristianesimo in poi, in maniera incancellabile: che voleva dire un colpo decisivo alle basi stesse del cristianesimo e della concezione cristiana del mondo, uno staccare recisamente tutta la realtà umana - sia nel campo politico sia fuori di esso - da ogni dipendenza con il regno della Grazia, un attribuire a essa realtà umana valore a sé stante, conchiuso in sé. Il diritto naturale cristiano era stato sempre relativo allo stato d'imperfezione dell'umana natura, provocato dal fallo del primo uomo; ora tornava a essere assoluto, e cioè rinnegava la caduta. Era, nell'ambito delle dottrine morali, il corrispondente alle affermazioni che, da Galileo a Newton, costruivano un universo fisico, retto da leggi proprie, autonome e a sé sufficienti.
E che lo svellere il diritto di natura dalla connessione con l'idea religiosa avesse un significato rivoluzionario di tutto il mondo dello spirito, dimostravano ancor più nettamente le affermazioni di un pensatore, di poco posteriore al Grozio, e che doveva potentemente influire sui suoi contemporanei e sui posteri: vale a dire del Hobbes, il quale non solo poneva anch'egli un originario diritto di natura, senza nesso necessario con la tradizionale lex Dei, ma postulava altresì l'autonomia della morale da ogni vincolo con la preoccupazione religiosa.
Come nello stato di natura prima di qualsivoglia esperienza religiosa l'uomo possedeva i suoi diritti, così possedeva la sua morale che è poi sempre rimasta l'eterna morale degli uomini. Che poi il contenuto particolare di questa morale, qual'era propugnato dal Hobbes, fosse accolto o rifiutato nei tempi seguenti; che all'egoismo hobbesiano si cercasse di sostituire una primitiva idea morale antiegoistica - divenendo anzi la morale stessa la forma con cui l'uomo combatteva i suoi impulsi egoistici -; che si propugnasse un'etica del sentimento (Shaftesbury) o nuovamente l'essenza egoistica della morale umana trovasse un più tardo esaltatore come l'Helvétius e si giungesse all'utilitarismo etico di A. Smith, erano divergenze particolari, che non avrebbero più annullato il riconoscimento dell'autonomia della morale dalla religione.
Già dunque per i filosofi del sec. XVII la separazione della morale dalla religione era compiuta; e non più a ricercar quale dovesse essere il comportamento dell'uomo per adempiere ai precetti di Dio si svolgevano le ricerche in tal campo, ma a determinare che cosa fosse l'anima umana, e quali le sue tendenze: il che significava non solo dar vita agli studî di psicologia - una delle massime preoccupazioni dei secoli XVII e XVIII - ma anche ricondurre l'uomo verso il vagheggiato stato di natura, verso il supposto uomo primitivo, non celato dall'inverniciatura della società e dei costumi: e punto di partenza delle nuove concezioni, la natura ne diventava anche il punto d'arrivo. Ma se per Hobbes l'uomo naturale era stato l'homo lupus, al punto d'arrivo la prospettiva era rovesciata: non l'uomo-lupo, ma l'uomo-innocenza, l'uomo-bontà; non la tempesta, ma l'idillio. E non è solo Rousseau, a veder l'idillio: tutto il secolo XVIII, antihobbesiano, in politica come in morale, avverso allo stato leviathan come all'uomo-lupo, è su questa via. La natura è nuovamente lo stato d'innocenza da cui l'uomo è precipitato non per un peccato originale di cui è svanita la forza d'attrazione, ma per colpa di cattive leggi e cattivi principi, per l'ignoranza, la superstizione e il fanatismo religioso, la fourberie des moines e l'avidità predatrice di sovrani. L'esaltazione, così caratteristica del sec. XVIII, del "selvaggio", dell'uomo primitivo, rappresenta il nuovo mito che sorge.
Ora, in questa raffigurazione dell'uomo-naturale, dello stato di natura, è possibile percepire d'un subito quel che l'illuminismo rappresenta di nuovo. Poiché il mito dell'uomo primitivo era stato vivissimo anche nel pensiero cristiano; e s'era espresso, nel Medíoevo e nel Rinascimento ancora, con la tradizione di Adamo che ispirava poeti e artisti. Ma, allora, indissolubilmente connessa con l'idea della felicità primitiva, del Paradiso Terrestre era stata l'idea della colpa del primo uomo: non un Adamo ridente e felice avevano raffigurato Masaccio e Michelangelo, ma un Adamo curvo sotto l'onta del fallo e la rampogna divina, che fugge dalla felicità perduta. Ora invece, svanito il senso del peccato, svanita cioè l'essenza stessa di una fede millenaria, il Paradiso Terrestre riappare a portata di mano: ché non si tratta più di caduta irrimediabile e sanabile solo per l'intervento, dall'alto, di un Redentore, ma di un fuorviamento temporaneo; e a questo si può ovviare con i precetti della ragione, la quale, ripulendo l'uomo dalle incrostature che il malanno dei tempi ha lasciato, lo restituirà alla piena consapevolezza di sé, alla serenità e alla gioia. Lasciar libera la natura: è una parola d'ordine, ripetuta dagli economisti (laissez faire, laissez passer), dai pedagogisti, dai moralisti.
A questo punto, fede nella ragione umana e fede nella natura - non matrigna, anzi buona madre ai suoi figli - confluiscono per crear l'avvenire e la nuova umanità, il cui avvento è prossimo. Debellata dalle "luci della ragione" l'intolleranza religiosa, considerata come prima fonte di oscurantismo e di mali; posto freno, coi precetti del diritto naturale e della morale, all'ingordigia dei principi, ammoniti dai filosofi del loro vero interesse, ch'è di far felici gli uomini, gli uomini si avviano alla nuova età dell'oro. L'umanità esce dalle tenebre e progredisce verso la luce, che già comincia a irraggiare. Profonda e incrollabile la fede in questa nuova età dell'oro che s'annunzia; diffusissima l'aspettativa ansiosa di essa.
Giacché il progresso non è, per gl'illuministi, almeno fino a Condorcet, un progresso ad infinitum, un continuo svolgimento d'idee e di eventi, gli uni confluenti negli altri, senza che mai giunga la fine, perché fine dell'avanzamento significherebbe fine dell'umanità stessa: è invece un progresso ad finitum che deve sfociare in un'età di perfetta giustizia, di perfetto ordine, in cui la luce della ragione risplenderà dovunque. A nessuno degli uomini del sec. XVIII sarebbe mai passato per la mente di dire, come avrebbe fatto più tardi un Leopoldo Ranke, che il giorno in cui il mistero della Trinità fosse spiegato, quel giorno l'uomo cesserebbe di pensare, cioè di essere: volendo con ciò esprimere il perenne porsi e rinascere dei problemi dello spirito.
Per l'uomo del Settecento i misteri stanno per essere svelati: e poi, sarà l'età felice.
In questa attesa escatologica, in questo senso del progresso ad finitum, è impressionante l'analogia con certe forme di escatologismo cristiano; solo che, ora, non si attende più l'età dello Spirito Santo vaticinata dall'abate Gioacchino, ma l'età della Ragione. Come per il concetto di diritto di natura, così anche per quello di progresso la sostanziale novità dell'illuminismo consiste nella trasposizione su terreno puramente umano e razionale di ciò che prima era stato sentito in diretta connessione con l'idea religiosa. E, non diversamente, vien trasportato su terreno puramente umano quel senso antistorico proprio d'ogni attesa escatologica: non, dunque, contro i secoli di mondanità e di predominio dello spirito terreno, bensì contro i secoli di mortificazione della ragione e della natura umana si scaglieranno i corifei dell'illumiuismo, ai quali la storia non può apparire una zona continua di luce progressiva, ma un frammischiamento di luce e ombre, di età civili e di età barbare (si pensi alle quattro età di luce, ma tra loro non temporalmemte contigue, che Voltaire esalta nel preambolo del Siècle de Louis XIV), e quindi un che di composito, da cui bisogna estrarre il buono, rinnegando il male. Il male, soprattutto, è il "gotico", il "medievale", cioè l'età cristiana per eccellenza; ma le critiche che questa volta si muovono alla Chiesa, nonché provenire da una volontà di rinnovamento di questa, provengono dalla volontà di abbattere e distruggere la religione cristiana nella sua essenza stessa.
Dio, sì, gl'illuministi l'accolgono: ma nel divino che trionfa non c'è più nulla di quello che aveva costituito il nocciolo primo della fede cristiana: il senso della colpa umana, il bisogno della Grazia soprannaturale. Il Dio degl'illuministi, dio puramente razionale, contempla dall'alto, ma senza intervenire, il mondo degli uomini, che ormai basta a sé stesso e non ha più bisogno di cure altrui.
A preparare e accelerare l'avvento della nuova età dell'oro, gl'illuministi dedicarono le loro forze, con una fede nella propria azione e nei proprî ideali che, nel secolo XVIII, si propagò assai oltre i circoli letterarî e filosofici pervadendo di sé buona parte della società del tempo. Come in poche altre epoche della storia umana, l'Europa centro-occidentale fu scossa da una febbre di attesa, da un ottimismo nel futuro, da una volontà di fare, che nella seconda metà del secolo travolse anche i principi, traducendosi nelle riforme che talora nel loro ardimento eccessivo e frettoloso (v. giuseppe II) erano tipicamente rappresentative dell'ansia di azione, dell'attesa febbrile dell'epoca.
Ed era naturale che le idee e le passioni dei pensatori si diffondessero su larga scala. Non solo perché tali idee costituivano una potente arma a fini pratici immediati; nemmeno solo perché, a diffonderle, erano uomini, specialmente in Francia, mirabilmente adatti a ridurre le dottrine in quella forma agile, chiara, leggiera ch'è necessaria per la divulgazione su larga scala - primo fra tutti il Voltaire, il più efficace e brillante divulgatore di idee che mai sia apparso. Il motivo era più profondo: era nella natura stessa delle dottrine che venivano propagate.
L'altro grande movimento spirituale che aveva aperto la via al pensiero moderno, e cioè il Rinascimento, era rimasto limitato a ristretti gruppi di studiosi: non perché fosse una Hofkultur nel senso immediato e materiale del termine - come spesso si dice -, cioè una civiltà sbocciata e fiorita in alcune corti principesche italiane, lungi dalla folla, ma bensi perché era una civiltà per aristocratici dell'intelligenza e non per il volgo. L' humanitas richiesta dai padri del Rinascimento non era la semplice umanità d'ogni uomo, che ogni uomo poteva vantare di nutrire in sé; ma anzi, il frutto di un faticoso e lungo processo d'autoeducazione interiore, d'elevazione spirituale e morale, quale poteva sì essere compiuto da alcuni, ma non certo da molti. Non l'homo, la creatura umana com'è foggiata dalla natura, bensì il vir, cioè l'uomo che per forza d'ingegno e di volontà, riesce a emergere sulla media; non la "virtù" nella comune accezione del termine, ma la virtù ch'è capacità d'agire, coerenza di propositi e di fatti, cioè, ancora, una virtù che non è concessa a tutti.
L'humanité dell'illuminismo non presuppone invece più un processo di selezione fra gli uomini, non crea una categoria di privilegiati, un'aristocrazia dell'intelligenza: "sentiment de bienveillance pour tous les hommes", siccome la definisce l'Encyclopédie, è sì, anch'essa, retaggio delle sole anime grandi e "sensibili", ma tende verso tutti, e pertanto, nonché costituire un gruppo a parte di privilegiati, finisce con l'abolire i ceti e le distinzioni di caste di razza, di religione, con l'accomunare gli uomini. La caratteristica fondamentale di questo "nobile e sublime entusiasmo" è di tormentarsi "delle sofferenze altrui e del bisogno di lenirle" dunque, nuovamente un "sentimento", connaturato nelle anime sensibili, e che deve investire non la testa, ma il cuore; non una conquista graduale e lenta, soprattutto dello spirito, ma un naturale attributo delle anime generose.
La fondamentale differenza fra i due concetti - entrambi basilari per le due età - basterebbe già a spiegare il diverso esito dei due movimenti di pensiero, rimasto, l'uno, dominio di ristretti gruppi, divenuto, l'altro, dominio della moltitudine. La quale poi doveva sentirsi facilmente e pienamente appagata dalla chiarezza e linearità delle idee che le venivano poste innanzi, da una filosofia ehe s'appellava alle leggi di una ragione molte volte identificabile col buon senso comune, e quindi di facilissima recezione, e che in nome di questa ragione-buon senso bandiva le sue crociate contro certa storia, vicina o remota: proprio come piace alle moltitudilíi, per le quali il senso storico rappresenta il più difficile e complicato dei misteri, e proprio com'era necessario allora, dato il clima storico di quell'età.
Le idee degl'illuministi si spargevano infatti in una società in pieno fermento di vita e anelante a scrollarsi di dosso le sopravviventi bardature del passato; e alla lotta dei pensatori contro i tempi del cosiddetto oscurantismo, corrispondeva pienamente la lotta di alcuni ceti contro certe forme politiche, sociali, economiche dell'assolutismo. L'antistoricismo dei pensatori era pertanto quello che, nella vita politica e sociale, veniva reclamato da un ceto almeno, e cioè dalla borghesia.
Ed è precisamente nella borghesia che i filosofi trovano i loro seguaci a frotte. Voglioso di sottomettere al controllo del suo raziocinio, dopo le imprese commerciali, bancarie e industriali, anche quella più vasta impresa ch'è il mondo morale e il mondo fisico; insofferente di tutele dall'alto, e pertanto più che disposto a metter fuori di casa la Provvidenza divina; fiducioso e pieno d'ottimismo e quindi ripugnante all'idea di un peccato originale che pesi sull'umanità e la costringa in catene, e staccatosi così dalla religione in quanto essa aveva di più profondo; ridotta la fede a un'abitudine domenicale: il borghese, l'honnête homme, è un ben fertile terreno su cui possono fruttare i semi che la nuova cultura sparge prodigalmente. E a questo borghese pensano i filosofi: l'opinion universelle ch'essi hanno di mira è quella del terzo stato. Non scendono più giù; anzi di fronte alle classi inferiori, par che l'humanité cessi di funzionare. Prima di Rousseau - che anche in questo è lontano dall'illuminismo -, forse il solo Diderot s'avvicina con l'animo al popolo; ma gli altri non abbassano i loro sguardi fino a quel punto. Siano nobili, come il barone di Montesquieu e il barone di Holbach, o sìano essi stessi borghesi, come il signor di Voltaire, l'atteggiamento non muta: la populace rimane quella belua immanis multorum capitum ch'era stata per gli scrittori del Cinque e Seicento. Il me parait essentiel qu'il y ait des gueux ignorants, scriveva a un amico, nel 1766, il signor di Voltaire; non l'uomo della strada, non l'operaio o il contadino dev'essere educato e istruito, ma le bon bourgeois, che è, per tutti l'honnête homme senz'altro. Di un ugualitarismo democratico, nemmeno la traccia fino a Rousseau.
Ma le idee, una volta messe in circolazione, sfuggono al controllo di chi le crea: e così fu che all'illuminismo, alienissimo dalle violente e aperte rivoluzioni politiche e sociali, s'appellassero quelli che, poco più tardi, dovevano far sorgere il novus ordo: alquanto diverso, in verità, da quello auspicato dai filosofi, e grondante di sangue.
In tale stretta compenetrazione fra movimento di pensiero e vita pratica, come l'illuminismo ritrovava una centuplicata capacità e volontà di lotta e la sua forza morale, così ritrovava la sua particolare missione storica, nel campo della storia civile: potente luce ideale per scalzare i ruderi di un vecchio ordine di cose, per dare piena coscienza di sé alle nuove forze che premevano nell'ambito della vita sociale e politica e crear loro un mondo ideale su cui giustificare e poggiare l'azione pratica. Ma se questa fu la sua contingente, seppur alta missione di quel momento, non contingenti furono i risultati ideali in cui esso sboccò.
Certo, il "progresso" non si fermò là; e a lor volta le particolari dottrine degl'illuministi furono sostituite da altre dottrine che, da esse partendo, pervenivano a più alto segno; e decaddero e svanirono anzi i due miti fondamentali, quello dello stato di natura - con correlativi diritto e morale - e quello di progresso, cui si sostitui il più complesso e ricco concetto di svolgimento, che faceva dell'uomo non una creazione naturale, sibbene una creazione della volontà umana stessa, attraverso la storia; e svanì l'ottimismo ingenuo, la fede escatologica nel novus ordo. Ma quello che non andò perduto fu il nocciolo stesso dell'illuminismo e cioè l'aver fissato su basi puramente umane e razionali la vita dell'uomo e dell'umanità. In questa concezione d'insieme - che corona e completa e sistema definitivamente le prime conquiste del Rinascimento italiano - è il valore ideale dell'illuminismo.
Bibl.: V. soprattutto E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklärung, Tubinga 1932, e gli studî di W. Dilthey (in Gesamm. Schriften, II e III, Tubinga 1921 e 1927 e di E. Troeltsch (Gesamm. Schriften, IV, Tubinga 1925). Del Troeltsch estremamente importante anche, per la teorica del diritto naturale, Die Soziallehren Christlichen Kirchen und Gruppen (Gesammelte Schriften, I, Tubinga 1923) e Das Stoisch-Christl. Naturrecht u. das moderne profane Naturrecht, in Hist. Zeitschrift, CVI, (1911); v. anche, per questo, O. Gierke, Joh. Althusius und die Entwicklung des naturrechlitchen Staatstheorien, 3ª ed., Breslavia 1913. V. inoltre O. Ewald, Die französischen Aufklärungs philosophie, Monaco 1924; C. v. Brockdorff, Die englische Aufklärungsphilosophie, Monaco 1924; id., Die deutsche Aufklärungsphilosophie, Monaco 1926; C. Dentice di Accadia, Il preilluminismo, in Giornale critico della filosofia italiana, VIII (1927); E. Ducros, Les Encyclopédistes, Parigi 1900; M. Roustan, Les philosophes et la société française au XVIIIe siècle, 2ª ed., Parigi 1911; F. Rocquain, L'esprit révolutionnaire avant la révolution, Parigi 1878; C. Aubertin, L'esprit public au XVIIIe siècle, Parigi 1889; F. Brunetière, Études sur le XVIIIe siècle, Parigi 1911; J. Delvaille, Essai sur l'histoire de l'idée de progrès, Parigi 1910; R. Charbonnel, La pensée italienne au XVIe siècle et le courant libertin, Parigi 1919; B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 3ª ed., Bari 1927; R. Hubert, Les sciences socialesa dans l'Encyclopédie, Parigi 1922; Mornet, La pensée française au XVIIIe siècle, Parigi 1929; G. Lanson, in Études d'histoire littéraire, Parigi 1930; A. Gerbi, La politica del settecento, Bari 1928. Assai utile infine B. Groethuysen, Die Entstehung der bürgerlichen Welt- und Lebensanschauung in Frankreich, voll. 2, Halle 1927-1930.