Stato dell’Asia centrale e orientale. Il nome proviene dal portoghese China, che i primi esploratori portoghesi appresero dagli Indiani o dai Malesi, e con ogni probabilità deriva da quello della dinastia cinese Qin (221-206 a.C.) sotto il cui dominio la C. venne unificata. I Cinesi chiamano il loro paese Zhongguo «paese di mezzo» e anche Zhonghua «fiore di mezzo». Ufficialmente esso fu dal 1912 Zhonghua minguo «Repubblica di Cina», e dal 1949 Zhonghua renmin gonghe guo «Repubblica Popolare di Cina»; la denominazione Repubblica di Cina è stata mantenuta dal governo installatosi a Taiwan (➔).
Il nome Han, dall’omonima dinastia (206 a.C.-220 d.C.), indica i Cinesi in senso stretto, rispetto alle altre popolazioni (Mongoli, Tibetani ecc.) che abitano la repubblica. Il nome Sgrikò (Sùreq per gli abitanti) con cui i Greci indicavano i popoli mercantili delle oasi dell’Asia centrale, fu poi esteso alla C.; nel Medioevo in Occidente la C. fu chiamata Catai (➔).
La C. propriamente detta si estende da 20° a 43° lat. N e da 98° a 122° long. E Greenwich. Lo Stato cinese comprende però anche vaste regioni esterne alla Cina intesa in senso geografico, come la Manciuria, la Mongolia Interna, il Xinjiang, il Tibet. Le province corrispondenti a queste regioni storico-geografiche costituiscono una sorta di fascia che abbraccia l’area della C. propria da NE a SO, mantenendola separata dagli Stati limitrofi: verso E, Corea del Nord e Russia; verso N Russia e Mongolia; verso O Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, India; verso SO e S Nepal e India. La Repubblica Popolare di Cina confina poi, a S, con Myanmar (Birmania), Laos e Vietnam, ed è bagnata a S dal Mar Cinese Meridionale e a E dal Mar Cinese Orientale, nei quali si trovano parecchie isole. Nella superficie indicata in tabella, in base alla quale la Repubblica Popolare di C. è il terzo Stato del mondo dopo Federazione Russa e Canada, sono comprese aree tuttora in contestazione. Mentre i confini terrestri settentrionale e occidentale (cioè quelli con i paesi già parte dell’Unione Sovietica e la Mongolia) sono definiti, sia pure solo dagli ultimi anni del 20° sec., sono tuttora oggetto di rivendicazioni incrociate ampi tratti di territorio al confine tra C. e India. Anche il confine con il Vietnam manca di una definizione riconosciuta; la contesa dei confini fu peraltro una delle cause all’origine, nel 1979, della breve invasione cinese del Vietnam, durante la quale, secondo fonti vietnamite, le truppe cinesi avrebbero rettificato in più punti il confine a vantaggio del loro paese. Sono oggetto di disputa non sanata con il Vietnam anche le Isole Paracelso (Xisha) e Spratly (Nansha), queste ultime rivendicate anche da Filippine, Taiwan, Malaysia e Brunei: queste minuscole isole coralline hanno una posizione rilevantissima per il controllo militare del Mar Cinese Meridionale e per l’estensione delle aree di pesca, e poggerebbero su una piattaforma continentale ricca di idrocarburi. Dopo vari scontri armati, sia la C. sia il Vietnam hanno occupato militarmente alcune isole e concesso diritti di prospezione mineraria a compagnie petrolifere occidentali. Gli attriti più gravi e reiterati sono tuttavia quelli con l’India, lungo tutto il relativo confine, sia a O sia a E del Nepal; le regioni oggetto di contestazione includono alcuni passi himalaiani di grande valore strategico. A seguito di specifici accordi, Hong Kong e Macao sono state restituite alla C., rispettivamente dalla Gran Bretagna (1997) e dal Portogallo (1999), e fanno parte a tutti gli effetti del territorio cinese, con lo statuto di ‘regioni amministrative speciali’. Va infine ricordato che la C. considera come parte del territorio nazionale (‘la 23a provincia’) l’isola di Formosa (Taiwan) e relative dipendenze, vale a dire l’intera Repubblica di C., che viene definita ufficialmente ‘provincia ribelle’.
Il territorio della C. è in larghissima prevalenza (oltre i 3/4 della superficie) montuoso, ed è caratterizzato da una successione di alte terre, digradanti da O verso E fino alla fascia sublitoranea orientale, collinare e pianeggiante. Le regioni più elevate sono per lo più costituite da altopiani, generalmente orlati da catene montuose che si dipartono dal Pamir dapprima in direzione NE ed E-SE, dando origine a una serie di rilievi secondari che arrivano a interessare la fascia litoranea.
L’area più elevata corrisponde all’altopiano del Tibet (4000 m s.l.m. in media), diviso tra la regione autonoma del Tibet (Xizang) e il Qinghai; l’altopiano è circoscritto a O dal Karakoram, a S dal Himalaya (dove sono le massime elevazioni del paese, e di tutta la Terra, oltre gli 8000 m) e verso N dalla catena dei monti Kunlun (oltre 7000 m di quota), dal bacino di Tsaidam (Qaidam) e, più all’esterno, dai monti Altun e Qilian (che superano i 5000 m); questi, piegando verso S e saldandosi con le propaggini orientali del Himalaya, danno luogo a una serie di lunghe catene subparallele (con direzione N-S e cime oltre i 6000-7000 m), profondamente incise da valli fluviali (Nu-Salween, Lancang-Mekong, Chang Jiang ecc.), che interessano gran parte del Sichuan e tutto lo Yunnan, proseguendo poi nell’Indocina.
A N del Tibet si estendono i meno elevati (1000-2000 m) altopiani del Xinjiang Uygur e la Zungaria, divisi dalla catena dei Tian Shan (con elevazioni di 5000-7000 m); la Zungaria è a sua volta chiusa a N dalle propaggini meridionali dell’Altaj, mentre a E si fonde con l’estremità nord-orientale del Xinjiang e quindi con l’altopiano della Mongolia Interna, che si allunga per circa 3000 km ed è in buona parte occupato dal deserto di Gobi. Il rilievo digrada quindi in un’ampia fascia collinare, sia a S della Mongolia Interna, fino alla baia di Liaodong (Mar Giallo), subito a N di Pechino, sia a E e a SE dei rilievi che abbracciano il Tibet, raggiungendo quasi le rive del Golfo del Tonchino; questa fascia, di elevazione modesta, ma rinforzata localmente da catene (Qin Ling, Daba Shan e altre) che raggiungono anche altitudini ragguardevoli, è interrotta dalle grandi valli fluviali che qui scendono da O verso E, in primo luogo quelle del Huang He (Fiume Giallo) e del Chang Jiang (impropriamente detto Fiume Azzurro), e dall’ampia piana corrispondente all’alto bacino di sprofondamento di quest’ultimo, nella sezione orientale del Sichuan. A S del Chang Jiang altre formazioni collinari si allungano in direzione E, fino alle coste dello Stretto di Formosa e del Mar Cinese Orientale.
A E e a NE della Mongolia Interna, catene montuose (Grande e Piccolo Khingan, poco elevati), lungo il confine con Mongolia e Russia, e formazioni collinari piuttosto estese, a N della penisola di Corea, abbracciano l’ampio e fertile Bassopiano Cinese Settentrionale (corrispondente all’ingrosso alla Manciuria), che spinge le sue terre nere fino al mare in corrispondenza della baia di Liaodong. Più a S, oltre le colline che da settentrione cingono la regione di Pechino, si distende l’assai più vasto Bassopiano Cinese meridionale, che per l’essenziale corrisponde alle basse valli del Huang He e del Chang Jiang; a S di quest’ultimo la pianura è interrotta e poi sostituita dalle formazioni collinari di cui si è detto, nelle province di Zhejiang e Fujian. Altre ampie aree di pianura si aprono ancora più a S, lungo il Golfo del Tonchino e il Mar Cinese Meridionale, nel Guanxi e nel Guangdong. Una tradizionale distinzione divide la C. propria in C. Settentrionale e C. Meridionale, corrispondenti alle regioni rispettivamente a N e a S del Huang He.
I sistemi montuosi della C. settentrionale, in buona parte di origine molto antica, sono stati sottoposti a una forte erosione e danno alla regione, con i tavolati da cui si distaccano, un aspetto generale uniforme. Le valli fluviali sono profonde e con pareti ripide, interrotte da bacini ricoperti dal löss, cioè da depositi, che possono raggiungere alcune centinaia di metri di spessore, di polveri delle steppe e dei deserti dell’Asia centrale, trasportate dal vento e quindi dai fiumi che hanno colmato il Bassopiano Cinese. Questo è fertilissimo, fittamente popolato e coltivato, percorso da una densa rete di canali irrigatori e navigabili, tra cui il Canale Imperiale, che da Tianjin raggiunge Hangzhou con un corso di 1100 km parallelo alla costa.
Nella C. meridionale, la disposizione dei sistemi montuosi e collinari ha portato alla formazione di un gran numero di bacini fertilissimi: tra questi, il bacino di sprofondamento, detto Pianura Centrale, del medio Chang Jiang, e il ‘bacino rosso’ del Sichuan, così detto dal colore delle sue arenarie, regioni di particolare addensamento di popolazione. A contrasto, la parte occidentale del paese, detta a volte C. esterna o semplicemente occidentale, presenta un popolamento assai più modesto, certamente scoraggiato dalle condizioni ambientali, per gran parte dominate da rilievi elevati, bacini chiusi e altipiani subdesertici o desertici.
Il clima della C. è nettamente differenziato. La C. esterna, tanto a O quanto a N (Mongolia Interna) della C. propria, presenta climi continentali caratterizzati da temperature medie annue di 5-10 °C (ancora più basse sulle montagne e sugli altipiani d’alta quota), forti escursioni termiche, precipitazioni generalmente scarsissime (200-400 mm annui). La vegetazione spontanea, di conseguenza, varia tra formazioni erbacee più o meno aride, e solo nelle oasi prodotte dall’affioramento della falda o dove si convogliano le acque di fusione delle nevi è possibile un insediamento umano stabile e relativamente denso; a prescindere dalla valorizzazione conseguente a recenti scoperte minerarie, l’utilizzazione economica prevalente in tutta quest’area è stata la pastorizia, nomade o seminomade.
Nella regione nord-orientale (Manciuria), le basse temperature (media annua inferiore a 10 °C, con fiumi che gelano per oltre 6 mesi) determinate dalla latitudine relativamente alta tendono a innalzarsi procedendo verso S; le precipitazioni sono relativamente abbondanti, la copertura forestale è densa sui monti, l’agricoltura, nel bassopiano, è florida tanto da consentire un popolamento consistente.
Il clima della C. propria è invece, nel suo insieme, fortemente legato al regime monsonico; tuttavia l’influsso della circolazione monsonica tende a limitarsi al litorale e alle aree pianeggianti che si aprono alle sue spalle, mentre interviene poco nella formazione del clima delle regioni collinari-montane più interne. Più in generale, i monsoni incidono sull’apporto idrico, talvolta sotto la forma distruttiva di tifoni o di piogge eccezionalmente abbondanti, ma non sulla temperatura, e soprattutto nell’interno della C. propria il clima appare piuttosto di tipo continentale, con forti escursioni annue e netta stagionalità delle piogge. La continentalità del clima risulta evidente, peraltro, anche in alcune delle regioni costiere e subcostiere, e in tutta la C. propria centro-settentrionale le temperature invernali risultano piuttosto basse. Più nel dettaglio, la parte settentrionale della C. propria (Shandong, Henan ecc.) presenta nel mese più freddo temperature medie poco maggiori di 0 °C e medie annue al di sopra dei 10 °C, ma con escursioni di 25-35 °C; la piovosità vi raggiunge i 500 mm, con prevalenza in luglio; l’inverno è secco e lungo. Nella C. propria centrale (valle del Chang Jiang), si ha un periodo di 3 o 4 mesi con temperature medie inferiori a 10 °C, con escursioni annue da 18 a 25 °C; le piogge prevalgono da aprile a giugno e si aggirano sui 750-1000 mm; frequenti i cicloni invernali e primaverili; i tifoni arrivano con violenza attenuata. Nella parte meridionale costiera (Guangdong, Guangxi ecc.), le medie del mese più freddo sono superiori a 10 °C, le escursioni annue sono comprese fra 12 e 20 °C, le precipitazioni sono superiori a 1000-1500 mm annui, prevalenti da giugno a settembre, in coincidenza con l’epoca dei tifoni. Lo Yunnan (altopiano di 1000-1300 m) ha un clima tropicale, con media annua tra 14 e 18 °C, escursioni fra 12 e 15 °C, e circa 1000 mm di precipitazioni (durante la stagione estiva).
Il sistema idrografico della C. è, come il rilievo, strettamente connesso con l’altopiano del Tibet, dove hanno origine i grandi fiumi cinesi. I tre principali sono il Huang He (Fiume Giallo) a N, il Chang Jiang nel centro, il Xi Jiang (la cui parte terminale è nota come Fiume delle Perle) a S. Il Huang He nasce a 4455 m s.l.m. e si getta nel Golfo di Bohai dopo un corso di circa 5200 km, caratterizzato dal colore giallastro delle acque dovuto al löss trasportato in sospensione; ha un bacino di oltre 750.000 km2 e riveste qualche importanza anche come arteria navigabile. Il Chang Jiang forma con i suoi affluenti un’estesa rete di comunicazioni, tuttora (e più ancora in passato) di grande importanza economica; nasce a 4500 m s.l.m. e si sviluppa per 5800 km, portando al Mar Cinese Orientale le acque drenate da un bacino di circa 1,8 milioni di km2. La navigazione per grosse imbarcazioni raggiunge Wuhan, a 1000 km dalla foce; l’onda di marea risale fino a Nanchino. Il Xi Jiang, o Fiume Occidentale, ha origine dall’altopiano dello Yunnan e si getta nel Mar Cinese Meridionale dopo un corso di 2000 km. Tra i fiumi minori, notevoli il Bai He, che bagna la pianura di Pechino, il Huai He, che attraversa la pianura del Henan e il Min Jiang, nel Fujian.
I laghi principali si trovano nella valle del Chang Jiang, che nei periodi di piena si espande in numerosi bacini di estensione variabile, e nella piana tra i bassi corsi del Huang He e del Chiang Jiang; importanti e caratteristici sono poi i bacini, spesso salmastri, che costellano l’arida C. occidentale: tra questi il Lago Lop, nel Xinjiang nord-orientale.
La vegetazione della C. è straordinariamente ricca, oltre che per l’estensione del territorio e per la varietà climatica, per il fatto che essa fu poco disturbata dal periodo glaciale, potendo così conservare molti antichi ceppi di piante altrove scomparse. La varietà di essenze legnose e di arbusti porta alla formazione di masse forestali quanto mai eterogenee. Nella Manciuria e nella Cina settentrionali, a parte le Conifere, non vegetano che alberi e arbusti a foglie caduche, mentre nelle province meridionali, dove esistono più o meno vaste foreste pluviali, boschi e savane a carattere subtropicale, sono in assoluta prevalenza i sempreverdi. Molte delle piante ornamentali, specialmente arbustive, coltivate in Europa e nell’America Settentrionale, provengono dalla C., come il glicine, l’ortensia, la camelia.
Anche la fauna è ricca e varia. Vi sono rappresentate non meno di 100 famiglie di Vertebrati terrestri, ed è notevole l’infiltrazione di numerosi elementi prettamente orientali tra i dominanti elementi paleartici. Tra le Scimmie un cercopiteco (Rhinopithecus) è esclusivo della regione; tra i Carnivori sono da ricordare, oltre ai ben noti panda, un canide (Nyctereutes procyonoides) e l’irbis (Felis uncia). L’elafodo è un ruminante esclusivo della C. e del Tibet. Nella fauna ornitica sono notevoli i fagiani. L’anatra mandarino (Lampronessa galericulata) e l’anatra della C. (Anser sinensis) sono specie tipiche della regione. Tra i Rettili va ricordato un alligatore (Alligator sinensis) del Chang Jiang; tra gli Anfibi, è da ricordare la salamandra gigante (Andrias davidianus); tra i Pesci, il pesce dorato (Carassius auratus), noto come pesce ornamentale.
Entro i confini della C. odierna, all’inizio dell’era volgare vivevano circa 70 milioni di persone (su un totale mondiale stimato in 250 milioni), 60 dei quali nella C. propria. Nel 7° sec., quando lo Stato cinese era l’entità politica senza confronti più popolosa al mondo, gli abitanti si erano ridotti quasi della metà: una delle caratteristiche di fondo dell’andamento demografico cinese, fino al 20° sec., fu infatti il ricorrere di vistose fluttuazioni, generalmente innescate da eventi meteoclimatici (inondazioni e siccità) e dalle conseguenti carestie con diffusione di malattie epidemiche. Questo andamento può essere seguito nel caso della C. con un certo dettaglio, grazie al fatto che lo Stato cinese ha conservato una sostanziale continuità e così le sue registrazioni ufficiali (archivi, cronache). Una sempre crescente diffusione della coltura del riso (che nel S del paese già nel Medioevo dava due raccolti annui), l’espansione delle terre coltivate, il potenziamento delle pratiche irrigue consentirono un incremento che, nel 12° sec. portò la popolazione oltre i 120 milioni di abitanti. L’invasione dei Mongoli e le epidemie di peste ebbero effetti disastrosi: al censimento fatto eseguire nel 1393 gli abitanti si erano nuovamente dimezzati. La popolazione riprese ad aumentare sotto la dominazione mancese, e nel 1796 si avvicinava ai 300 milioni. Nel 19° sec., rivolte e carestie costarono alla C. milioni di morti: solo durante la rivolta dei Taiping si ebbero 30 milioni di vittime, mentre la carestia del 1877-79 causò 9 milioni di morti; accanto a questi, altri eventi meno disastrosi incisero pure pesantemente sugli effettivi demografici. Tuttavia al censimento realizzato nel 1911, poco prima della caduta dei Qing, risultarono circa 375 milioni di abitanti.
Il censimento successivo fu eseguito nel 1953, dopo 40 anni di guerra: la popolazione ascendeva a 601 milioni, un centinaio di milioni oltre le aspettative basate sui calcoli demografici. Nei primi anni 1960 sono stati superati i 700 milioni, gli 800 nel 1972 e i 900 nel 1979, fino a valicare la soglia del miliardo di ab. al censimento del 1982. Secondo il censimento del 2000, la popolazione cinese ammontava a 1,243 miliardi (cifra salita ulteriormente a 1,330 nel 2008). Il tasso d’incremento medio annuo è perciò molto diminuito negli ultimi decenni: dall’1,7% degli anni 1970 allo 0,6% del periodo 1999-2008.
Malgrado i luoghi comuni, considerando nel loro insieme gli ultimi 50 anni, la popolazione cinese è cresciuta molto meno rapidamente di quella indiana o pakistana, della media dei paesi del Terzo mondo, e addirittura meno della media mondiale. Bisogna aggiungere però che molti osservatori ritengono che un cospicuo numero (secondo alcuni, addirittura 200 milioni di persone) possa essere sfuggito al conteggio. La natalità è attualmente del 12‰ circa e la mortalità attorno al 6‰. Il rallentamento della crescita si è peraltro realizzato in concomitanza con una forte riduzione della mortalità infantile, che nel 1949 era del 200‰, mentre al 2008 risulta del 21‰.
Il rallentamento della crescita è quindi da ascrivere interamente alla riduzione della natalità, ottenuta dapprima con insistite e decise campagne demografiche condotte dalle autorità per ottenere che l’età matrimoniale venisse posticipata di una quindicina d’anni (27 anni per gli uomini, 25 per le donne) rispetto alle tradizioni vigenti, e che ciascuna coppia avesse un figlio o due al massimo. Alle politiche denataliste, si è poi sommata la spontanea tendenza delle coppie inurbate e inserite nei settori economici moderni, dove spesso entrambi i coniugi trovano impiego, a non avere affatto figli, come si è verificato in tutti i paesi industrializzati. Allo stesso tempo sembra drasticamente ridotta la pratica, un tempo corrente soprattutto nelle campagne, della soppressione delle neonate, finalizzata a privilegiare una discendenza maschile; ma va detto che essa è stata largamente sostituita dall’aborto selettivo consentito dalla diagnosi precoce del sesso del nascituro: sta di fatto che ogni 100 femmine si contano circa 120 maschi, fenomeno che nel giro di poco tempo rischia di produrre ripercussioni negative. Al netto calo della natalità, peraltro, si è accompagnato un innalzamento della speranza di vita (stimata nel 2008 intorno ai 75 anni per le femmine e 71 per i maschi: il doppio di 50 anni prima), così che la composizione per fasce di età risulta ancora relativamente equilibrata. Anche in C., tuttavia, la tendenza alla senilizzazione si profila con immediatezza, al punto che alcune amministrazioni locali hanno modificato i termini della politica demografica fin qui seguita, cominciando a promuovere la scelta sistematica di un secondo figlio, per consentire un ricambio generazionale più equilibrato. Infatti nel 2015 la C. ha ufficializzato la possibilità per le coppie sposate di avere due figli.
Sono molto migliorati anche gli altri indicatori sociodemografici, a cominciare dall’alfabetizzazione (circa il 91%), dalla quota di giovani che accedono a studi universitari e dalle disponibilità alimentari (circa 3000 kcal/giorno).
La densità media (138,5 ab./km2) ha scarsissimo significato, data la difformità delle potenzialità insediative. La C. propria ospita circa il 95% della popolazione complessiva, con una densità media intorno ai 500 ab./km2, che contrasta nettamente con i 2 ab./km2 del Tibet, i 7 del Qinghai, i 12 del Xinjiang Uygur, i 20 della Mongolia Interna: queste aree assommano circa 4,7 milioni di km2, vale a dire poco meno della metà del territorio cinese, ma ospitano appena una cinquantina di milioni di persone, cioè meno del 4% del totale.
L’addensamento nelle regioni orientali e specialmente in quelle costiere (alle quali va aggiunto il bacino del Sichuan) è una costante della storia cinese, appena smussata dalle politiche reinsediative e di colonizzazione dell’interno tentate negli anni 1960 e 1970; nei decenni successivi la tendenza appare di nuovo in crescita per gli straordinari flussi migratori interni, indirizzati verso le aree urbane in fase di espansione.
L’afflusso verso la costa è ben poco bilanciato dall’emigrazione all’estero, benché questa sia più intensa e diversificata che in passato; si registrano d’altra parte addirittura anche piccoli contingenti immigratori. I cinesi residenti stabilmente in comunità all’estero (divenuti oggi importantissimi per ampliare i contatti economici e culturali della C. con altri paesi, e anche come investitori nell’economia cinese) ammonterebbero a oltre 50 milioni.
La distribuzione territoriale degli abitanti tende a coincidere con la distribuzione etnica: le regioni orientali sono quelle abitate dalla popolazione propriamente cinese (Han), che corrisponde a circa il 92% del totale, mentre le ‘minoranze nazionali’ si distribuiscono nella C. esterna. Gli Han presentano del resto sensibili differenze sia di ordine culturale (lingue) sia addirittura di carattere somatico, particolarmente evidenti nel confronto tra Han del N e del S. Le varietà regionali del cinese parlato dagli Han spesso non consentono l’intercomunicabilità, malgrado l’adozione della varietà pechinese (cinese ‘mandarino’) come lingua ufficiale e la diffusione universale della scrittura ideografica (il reale veicolo di comunicazione); tuttavia gli Han hanno un’autoidentificazione etnica unitaria piuttosto forte. Altre 55 etnie ufficialmente riconosciute compongono il rimanente 8% della popolazione; premesso che molte sono le incertezze sulla reale consistenza numerica di alcuni gruppi etnici (le statistiche ufficiali differiscono a volte molto dalle stime proposte dai gruppi interessati), le etnie più numerose sono Zhuang (1,3%), stanziati nel S, Manciù (0,9%) nel NE, e poi Hui nel Ningxia, Miao nel SO, Uiguri nel Xinjiang (0,6% ciascuno), Tujia (0,6%), Yi (0,6%), Mongoli (0,5%), Tibetani (0,4%); nell’insieme, la maggiore varietà etnica si riscontra nel SO. In considerazione di queste specificità, alcune delle aree di stanziamento delle minoranze hanno ricevuto statuti di autonomia: così Mongolia Interna, Ningxia Hui, Xinjiang Uygur, Tibet, Guangxi Zhuang. Occorre peraltro aggiungere che in queste aree la presenza Han è andata rapidamente crescendo, sia per le politiche di avvaloramento agroforestale sia per la scoperta e la coltivazione di giacimenti minerari sia per la crescente incidenza di personale amministrativo sia, infine, per il rilevante stanziamento di truppe. Per tutto questo, la percentuale di Han stabilmente insediati nelle province della C. esterna è cresciuta al punto che la prevalenza numerica dei gruppi minoritari è di fatto venuta meno in 4 delle 5 regioni autonome. Anche nella Mongolia Interna e nel Xinjiang, benché in quest’ultima gli Uyguri, musulmani, presentino tassi di crescita demografica molto superiori a quelli degli Han; in Tibet, la quota di popolazione tibetana è stata quasi pareggiata dagli Han e il processo sembra destinato ad accelerare, specie dopo l’entrata in servizio (2006) di un tronco ferroviario di circa 1400 km che, spingendosi a 5072 m s.l.m., collega Lhasa (Tibet) con la rete cinese. Queste tre regioni sono anche le sole in cui si sia manifestata, in forme più o meno decise, un’opposizione alla sinizzazione e alla dipendenza politica dalla Cina.
La crescita demografica ed edilizia delle città è certo il fenomeno più imponente degli ultimi decenni del 20° secolo. La popolazione urbana è ancora solo il 43% del totale (e si consideri che vengono censiti come urbani i centri con appena 2000 ab.). I residenti in aree urbane stanno comunque aumentando con grandissima rapidità, al punto che le valutazioni statistiche hanno valore solo indicativo. Se all’inizio del Novecento soltanto Shanghai aveva oltre 1 milione di abitanti, e alla metà del secolo le città milionarie erano 6, attualmente queste sono poco meno di 60. A 4 di esse viene riconosciuto il carattere di ‘municipalità’, aree metropolitane dotate di un’amministrazione particolare: la capitale, Shanghai e Tianjin (con 12,7, oltre 17 e 8 milioni di ab. nelle rispettive agglomerazioni secondo stime del 2007) e Chongqing (6,2 milioni di ab. nell’agglomerazione, ma addirittura più di 31 considerando l’intera municipalità).
La distribuzione delle grandi città coincide con quella della popolazione, privilegiando nettamente le regioni orientali. Tra le aree più compattamente urbanizzate è tuttavia anche la Manciuria meridionale, dove attorno a Shenyang, nata come centro commerciale e poi prevalentemente industriale, grazie ai giacimenti locali di ferro e di carbone, si sono sviluppate Fushun, Benxi e Anshan, che formano una sorta di conurbazione; Dalian e la vicina Lüshun (Port Arthur) rappresentano gli sbocchi portuali della regione. L’area che fa capo a Pechino e al suo porto, Tianjin, è una delle regioni urbane più rapidamente in crescita e in mutamento; in particolare, la capitale è incessantemente rimodellata da interventi urbanistici di enorme portata (i più recenti sono quelli effettuati per i Giochi Olimpici del 2008), i quali stanno riducendo le aree edificate tradizionali e modificando il paesaggio urbano in senso decisamente occidentale.
Il medio e basso bacino del Chang Jiang ospita Shanghai, Nanchino e, più a monte, Wuhan; Shanghai ha ripreso il suo ruolo di principale centro industriale e finanziario della C. e, oltre a crescere smisura;tamente a partire dal suo centro storico, profondamente rinnovato, ha prodotto un modernissimo centro direzionale (Pudong), un nuovo porto (il primo del mondo per movimento navi) e una decina di città satelliti, cogliendo anche l’occasione dell’organizzazione dell’Expo 2010.
Intorno al Fiume delle Perle, Canton, uno dei primi centri di commercio dell’Asia, Shenzhen, Hong Kong e altre città formano una megalopoli di una cinquantina di milioni di abitanti.
Il quadro economico e socioeconomico che, dalla fine del 20° sec., sempre più impetuosamente va delineandosi in C. si distacca nettamente dall’immagine tradizionale di paese rurale. La prima fase di vera modernizzazione della struttura economica corrispose agli anni successivi alla rivoluzione, con le politiche di piano e l’impianto di industrie pesanti, più tardi (negli anni della rivoluzione culturale) disseminate un po’ dappertutto; in un paio di decenni, la produzione industriale eguagliò in valore quella agricola, la quale, a sua volta, ristrutturata da una serie di riforme fondiarie e gestionali, accrebbe rapidamente le sue dimensioni, praticamente raggiungendo l’autosufficienza alimentare e allontanando definitivamente lo spettro delle ricorrenti carestie. Queste non si sono più verificate già dai primi anni postrivoluzionari, malgrado il costante ripetersi di eventi naturali avversi, grazie a una gestione centralizzata delle risorse e alla capacità di mobilitazione di immense masse di persone (per es., nella distribuzione di aiuti di emergenza o nel controllo delle inondazioni).
Nel decennio 1970 il nuovo corso economico puntò sulla specializzazione produttiva nell’industria leggera, realizzata nell’ambito di sistemi regionali integrati. I piani messi in atto nel decennio seguente, nella prospettiva di un ‘socialismo di mercato’, diedero ulteriore impulso alla modernizzazione, specialmente dell’industria, mentre restituivano spazio all’impresa privata in agricoltura e spingevano alla formazione di un terziario privato, soprattutto nella direzione dell’interscambio con l’estero e della creazione di canali e strumenti finanziari: molte aziende statali vennero privatizzate, fu consentita ai privati la costituzione di aziende industriali e commerciali, vennero liberalizzati i prezzi al consumo, si cominciò a liquidare il patrimonio immobiliare pubblico. Nel decennio 1980 vennero aperte sulla costa le prime cinque Zone Economiche Speciali (ZES), in seguito moltiplicatesi fino a coprire quasi l’intero litorale e varie aree interne; le ZES sono soggette a regimi fiscali particolarmente favorevoli e sono rivolte agli investitori internazionali, a cominciare da quelli asiatici. Nel 1990 fu riaperta la borsa di Shanghai; nel 1997 la restituzione di Hong Kong conferiva alla C. una piattaforma efficientissima per connettersi con l’economia globale; già nel 1998 gli investimenti diretti esteri destinati alla C. erano inferiori solo a quelli destinati agli Stati Uniti.
La C. si è così affacciata in maniera decisa sulla scena internazionale, non più solo grazie agli investimenti esteri, ma anche mettendo le sue produzioni, via via aggiornate, e i suoi propri investitori in vigorosa competizione con le economie avanzate, mentre nei confronti di quelle arretrate tende a replicare (con alcune sostanziali differenze) i rapporti di tipo centro-periferia che hanno caratterizzato lo sviluppo otto-novecentesco delle economie occidentali: importazione di materie prime ed esportazione di beni di consumo a basso valore aggiunto, di infrastrutture, di armamenti, sotto l’egida di rapporti diplomatici privilegiati, ma con una modesta o nulla intromissione negli affari interni. I tassi di crescita dell’economia cinese sono dai primi anni 1990 straordinariamente elevati: spesso oltre il 10% annuo (ancora nei primi mesi del 2007, quasi il 12%), sostenuti dall’aumento così della produzione destinata all’esportazione come dei consumi interni. La C. si è ormai insediata al quarto posto nel mondo per ricchezza prodotta, e anche i redditi medi per abitante hanno registrato un’impennata considerevole, pur mantenendosi contenuti; è del resto il basso costo del lavoro una delle prime attrattive per gli investitori esteri in C. e il principale punto di forza delle imprese cinesi. Si stanno così affermando un ceto di imprenditori dalle disponibilità economiche ampie e una classe media occidentalizzata per aspettative e, soprattutto, per consumi; speculare è l’aumento rapidissimo del divario socioeconomico (in un paese che per decenni ha fatto dell’uguaglianza il proprio fondamento) tra ceti benestanti e non, e del divario regionale, che per decenni si era tentato di annullare, ma che la modernizzazione dell’area costiera ha nuovamente enfatizzato, a danno delle aree rurali e interne. A questi fenomeni, che certo concorrono a destabilizzare la tenuta della compagine sociale e politica, si aggiunge una serie di ricadute intrinseche a un processo di crescita tanto rapido: dalla crescente dipendenza dagli approvvigionamenti esteri alle costanti spinte inflattive, dalla necessità di manovre monetarie del tutto inedite per il paese alla negoziazione anche in sede internazionale (la C. è entrata a far parte dell’APEC, Cooperazione economica Asia-Pacifico, e del WTO, Organizzazione mondiale del commercio) di interventi di freno all’espansione economica, al fine di evitare l’aggravarsi degli squilibri interni e gli scompensi commerciali con l’estero; questi ultimi sono nettamente favorevoli alla C., che fra l’altro ha visto moltiplicarsi a dismisura le sue riserve monetarie, divenendone uno dei principali detentori al mondo.
In tutto questo, l’imprenditoria privata e pubblica e le autorità di governo sembrano riuscire a governare saldamente una tendenza decisamente positiva in termini macroeconomici e non del tutto negativa in termini sociali. È comunque proprio sul versante sociale che appare più a rischio la tenuta del processo di crescita: la liberalizzazione della proprietà (attuata entro certi limiti) e dell’iniziativa economica ha di fatto messo fra parentesi i meccanismi comunitari solidaristici che, più ancora delle vere e proprie politiche sociali centrali, avevano nei decenni precedenti garantito una relativa prosperità alla popolazione, la tutela delle fasce più deboli, la minimizzazione dei contrasti sociali e territoriali. Le autorità cinesi si devono ormai confrontare, come quelle dei paesi capitalisti, con la gestione di meccanismi di previdenza sociale, di concertazione sindacale, di drenaggio e redistribuzione di risorse monetarie, mirando al contempo a non deprimere la forte propensione all’investimento produttivo e a non esacerbare le condizioni di vita della popolazione: la riduzione, in particolare, dell’impegno pubblico in settori tradizionali di intervento come l’istruzione, il lavoro, la casa e la sanità costituisce difatti un aggravio pesante, mal tollerabile, per quei circa 300 milioni di cinesi che vivono al di sotto della soglia di povertà. D’altro canto, con un PIL (a prezzi correnti) medio per abitante di 2.968,789 dollari (2008), la C. si inserisce ormai tra i paesi a medio sviluppo, a dimostrazione del complessivo successo delle politiche di crescita economica adottate.
Malgrado l’intensa industrializzazione di ampie regioni, la C. rimane nel suo insieme un paese marcatamente rurale. Poche regioni (nessuna, in effetti, su una superficie così ampia) sono state coltivate tanto intensamente e così a lungo come la C. propria; in nessun altro caso, inoltre, la popolazione contadina e la struttura agraria hanno vissuto mutamenti dell’entità e della rapidità di quelli verificatisi in C. dopo l’avvento del regime socialista. Prima di allora, la piccola proprietà contadina poteva contare su appezzamenti minuscoli, ma più diffuse erano le affittanze o altre forme di subordinazione, che lasciavano ai coltivatori margini di profitto sostanzialmente nulli, al punto che l’indebitamento era generalizzato; le grandi proprietà, per altro verso, erano quasi assenti. Tra i primi interventi sistematici (oltre a una radicale riforma della proprietà terriera) del regime socialista ci fu l’espansione verso O delle colture, essenzialmente mediante lo spostamento di contadini Han nell’interno, in grandi fattorie statali razionalmente organizzate; pur in assenza di stime complessive, si può valutare in pochi milioni (quantità, cioè, molto modeste sui totali cinesi) il numero di coloni che nel cinquantennio si sono trasferiti a O, con un risultato produttivo però oltre modo soddisfacente. La superficie incolta è calata fino a circa il 25%, mentre gli arativi si sono attestati sopra il 14% e le aree forestali oltre il 17%: giganteschi sono stati in particolare i lavori di riforestazione, specie lungo il margine meridionale della Mongolia Interna, e in generale nelle regioni diboscate in secoli di ampliamento dei coltivi, esposte a gravissime conseguenze in termini di erosione superficiale e di dissesto dei versanti; grazie a questa politica di rimboschimento (12 milioni di alberi messi a dimora solo fra 2001 e 2006), la C. vede gradualmente aumentare il proprio patrimonio boschivo, pur essendo il terzo produttore mondiale di legname (dati 2005). Il rimanente della superficie (43%) è destinato a prati e pascoli. Mentre verso O l’obiettivo era l’aumento dei terreni coltivabili, con buoni risultati ottenuti sia nel Xinjiang sia nel Tibet, un enorme impegno venne profuso nelle regioni orientali, in particolare lungo il basso corso del Huang He, per regolarizzare l’andamento del fiume (capace di mutare corso anche per centinaia di chilometri, in occasione delle frequenti piene) e per stabilizzare i terreni agricoli circostanti, coltivati a cotone, frumento e tabacco. Il fiume è stato in gran parte arginato e frazionato, come molti degli affluenti, da frequenti dighe con relativi invasi in funzione di casse di espansione. Lavori analoghi sono stati condotti sul corso del Huai He, a S del Huang He; qui sono state aperte altre foci, per meglio smaltire le piene, mentre centinaia di laghi artificiali lungo il medio e l’alto corso sono destinati ad assorbire gli eccessi di portata. Migliaia di chilometri di canali destinati all’irrigazione sono stati scavati o ammodernati. Non sono, tuttavia, sempre le colture irrigue a prevalere: la piana del Huang He era tradizionalmente destinata al frumento, al quale è stata negli ultimi decenni affiancata una seconda coltura annuale.
Nel Centro-Sud della C. propria, un tempo destinato quasi esclusivamente al riso, si è estesa (valle del Chang Jiang) la coltura del frumento, così che si ha un raccolto di riso e uno di grano, oppure si è intensificata quella del riso, che prevede due cicli di coltivazione annuali (addirittura tre nelle aree più meridionali). In conseguenza di tutto questo, dalla fine del 20° sec., in alcune annate favorevoli, la C. è stata in grado di proporsi sul mercato mondiale come esportatrice di frumento. Il riso resta senza dubbio alla base dell’agricoltura e dell’alimentazione cinesi, benché la superficie coltivata si sia ridotta (29,3 milioni di ha coltivati, quasi 200 milioni di t prodotte nel 2005), ma la sua posizione è ormai insidiata dal mais (26,2 milioni di ha, 131 milioni di t) e, appunto, dal frumento (22,8 milioni di ha, 96 milioni di t). Imponente è la produzione di patate e patate dolci, di soia, di arachidi, di ortaggi e di frutta. La C. è il primo produttore mondiale di frumento e riso, il secondo di mais; inoltre ha il primato per patate, patate dolci, arachidi, frutta (agrumi in specie), tè, tabacco, cotone (fibre, filati e tessuti), lino, ed è fra i primi produttori di canna da zucchero e zucchero; da segnalare, infine, il secondo posto (dopo gli Stati Uniti) nella produzione di birra.
Molto diffuso è l’allevamento, specialmente quello suino (quasi mezzo miliardo di capi, metà del totale mondiale); ma anche per i caprini, gli ovini, gli equini e i volatili da cortile la C. vanta un larghissimo primo posto, mentre per i bovini è il terzo produttore. Di conseguenza, per la produzione di carni e uova il primato cinese è schiacciante; ma importanti sono anche la lana (secondo produttore mondiale, sia per la lana greggia, sia per i tessuti) e il latte. Analoghe posizioni la C. occupa per l’insieme delle produzioni ittiche; per i pesci d’acqua dolce e per crostacei e molluschi, da sola produce oltre la metà del totale mondiale. Infine, è tuttora praticata la tradizionale bachicoltura, generalmente in impianti di piccole dimensioni (familiari o di villaggio), e la C. continua a essere il primo produttore mondiale di seta greggia. Nell’insieme, il settore primario dà lavoro ancora a poco meno della metà della popolazione attiva cinese, ma il suo apporto alla formazione del PIL, malgrado recenti incrementi di produttività, raggiunge appena il 13%.
Non meno vistosa è la ricchezza della C. in minerali utili (fig. 2), dopo che i decenni a cavallo tra i due secoli hanno visto moltiplicarsi le scoperte minerarie. Anzitutto, la C. è di gran lunga il primo produttore mondiale di carbone (quasi 2 miliardi di t nel 2006) e probabilmente detiene le maggiori riserve non utilizzate. L’industrializzazione della seconda metà del secolo scorso si è basata quasi esclusivamente sul carbone, il che ha comportato costi ambientali e sanitari elevatissimi, specialmente nelle aree urbane industrializzate; dagli ultimi anni del Novecento una maggiore disponibilità di idrocarburi e soprattutto di energia elettrica ha consentito una diversificazione crescente delle fonti energetiche; i problemi derivanti dall’impiego del carbone rimangono però molto gravi, come gravi, in generale, sono i livelli di inquinamento delle acque e dei suoli.
La produzione cinese di petrolio, iniziata nella seconda metà del 20° sec., è tutt’altro che irrilevante, anche se non sembra in grado di fronteggiare la crescita rapidissima della domanda interna. Più modesta la produzione di gas naturale. In aumento rapido, come si accennava, è la produzione di energia elettrica, per la quale complessivamente la C. è il secondo produttore mondiale (oltre 3000 miliardi di kWh nel 2007); si tratta per oltre l’80% di energia termoelettrica, ma quella di origine idrica è cresciuta grandemente dopo l’entrata in esercizio della diga delle Tre Gole sul Chang Jiang, la più grande del mondo, e delle molte dighe (la principale è quella di Xiaolangdi) sul Huang He. Attualmente la produzione idroelettrica cinese è solo di poco inferiore a quella del Canada, da lungo tempo primo produttore mondiale. Nel suo insieme, la produzione energetica della C. risulterebbe addirittura esuberante rispetto alle richieste del mercato interno; la tendenza alla contrazione nell’impiego di carbone, tuttavia, e l’aumento dei consumi di idrocarburi stanno modificando la composizione settoriale della domanda in modo tale che potrebbe risultare problematico farvi fronte con le risorse interne.
Fra i minerali per i quali l’apporto cinese è degno di nota sono da segnalare ferro, la cui produzione è straordinariamente cresciuta negli ultimi due decenni, stagno, piombo, zinco, alluminio, tungsteno (dei quali è il primo produttore mondiale), argento (secondo produttore), fosfati, oro, zolfo, uranio, manganese.
Questo insieme di risorse minerarie era sostanzialmente ignoto o comunque poco sfruttato (a eccezione del carbone e, in qualche misura, del ferro) prima del 1949. È stata la decisa spinta all’industrializzazione del paese ad aver sollecitato le ricerche minerarie e la conseguente disponibilità di materie prime interne, a partire da quelle energetiche. Per decenni, del resto, la C. ha fatto scarsissimo ricorso all’importazione di materie prime minerarie. Il settore siderurgico e quello chimico furono i primi a essere incentivati, dapprima nell’ambito di grandi complessi integrati concentrati nelle regioni nord-orientali. A partire dal decennio 1960, si procedette a una dispersione delle industrie in tutto il paese; la dimensione si ridusse, la produzione aumentò, ma in termini di produttività spesso la tendenza ai piccoli impianti si rivelò antieconomica, fuorché per la chimica e per la produzione di cemento.
La siderurgia ha ancora un’importanza fondamentale (e la C. è il maggior produttore mondiale di acciaio e ghisa). L’industria si è diversificata grandemente, ma nella metalmeccanica conserva uno dei suoi punti di forza: primeggia il settore delle macchine utensili, ma è importante anche quello delle autovetture come già da tempo quello dei veicoli commerciali e del materiale ferroviario. Accanto a queste produzioni, resiste quella tradizionale di biciclette (40 milioni di pezzi all’anno). Dalla metalmeccanica si è sviluppata, a partire dagli anni 1980, una varietà di produzioni di beni a più o meno elevato tasso tecnologico, sempre prevalentemente basati su un vasto impiego di manodopera: meccanica di precisione, elettrodomestici, telefonia e comunicazioni, ottica, elettrotecnica, elettronica, fino all’aerospaziale (la C. ha lanciato un gran numero di satelliti artificiali e nel 2003 si è avuto il primo volo di un astronauta cinese). Accanto a queste produzioni, quelle legate alla filiera agroalimentare (compreso il tessile) hanno registrato uno sviluppo straordinario e diffuso in tutto il paese. L’industria leggera, tuttavia, e specialmente quella tecnologicamente più avanzata o più decisamente orientata all’esportazione (elettronica, tessile, comunicazioni, chimica) si è prevalentemente localizzata nelle regioni centro-meridionali e, in generale, nelle aree costiere.
Non può essere infine trascurato l’apporto dell’artigianato, diffuso in tutto il paese e noto per produzioni di alto pregio (porcellane, sete, vetri); allo stesso modo, produzioni particolari, come quella libraria (con oltre 100.000 titoli pubblicati ogni anno, la C. è il primo paese del mondo per l’editoria libraria) e quella cinetelevisiva hanno un’importanza tutt’altro che trascurabile.
Solo a partire dagli ultimi due decenni del Novecento (e soprattutto dall’ultimo) ha preso avvio la crescita di un vero e proprio settore terziario; in precedenza limitato all’amministrazione, il settore ha visto moltiplicarsi le iniziative private, da quelle commerciali (spesso filiate o promosse da imprese appartenenti a cinesi emigrati all’estero) a quelle bancarie e finanziarie, con un’impennata spettacolare nei giri d’affari delle borse di Hong Kong e Shanghai; il settore assorbe oltre un quarto della forza-lavoro e garantisce poco meno della metà del PIL.
In un paese delle dimensioni della C. e con un processo di modernizzazione incessantemente in atto da oltre mezzo secolo, la rete dei trasporti non può che avere assunto un ruolo di assoluto rilievo. Fin dai primi piani economici, lo sviluppo delle ferrovie è diventato una costante dell’infrastrutturazione del paese, che oggi conta circa 62.000 km di linee in esercizio (per meno di un terzo elettrificate), sulle quali transitano il 40% delle merci e il 45% dei passeggeri. Come per il resto degli elementi di modernità, anche nel caso delle ferrovie sono le regioni orientali e soprattutto nord-orientali a vantare la maggiore densità. Non mancano però linee di penetrazione verso l’interno, in direzione O e SO. È proporzionalmente migliore, nelle regioni interne, la dotazione di strade; queste assommano complessivamente a oltre 1,8 milioni di km, per circa l’80% asfaltati. Malgrado la rapida crescita, il traffico veicolare è tuttavia ancora relativamente ridotto e soprattutto molto concentrato nelle aree urbane orientali, dove sono stati costruiti parecchi tratti autostradali; è però importante (9 milioni di unità) l’insieme dei veicoli commerciali, ai quali soprattutto è destinata la ramificazione della rete stradale.
Una gran parte dei trasporti di merci (circa il 45%) avviene per via d’acqua, sull’estesissima rete di canali e di fiumi navigabili del Bassopiano Cinese; dal canto suo, la cospicua flotta marittima svolge un ruolo di notevole importanza a livello mondiale, specialmente nei trasporti a lungo raggio per conto terzi, campo nel quale alcune imprese armatrici cinesi sono ormai leader del mercato dei noli.
Alquanto sviluppato è anche il trasporto aereo, specialmente rivolto al movimento passeggeri (circa 138 milioni nel 2005). Notevole e rapida, infine, è stata la crescita del turismo di origine internazionale: circa 42 milioni di visitatori (soprattutto asiatici).
Il commercio estero, dopo aver visto prevalere gli scambi con l’Unione Sovietica fino al decennio 1950, ed essersi rivolto nel decennio successivo ai paesi del Terzo mondo di recente indipendenza, solo dal decennio 1970 si è aperto ad alcuni paesi industrializzati (in primo luogo Giappone e Corea del Sud) e solo dal successivo ha preso a manifestarsi in modo pervasivo su tutti i mercati mondiali. L’ingresso nel WTO (2001) ha definitivamente sancito l’apertura della C. e, mentre favoriva l’afflusso improvviso e massiccio di capitali esteri, ha visto le esportazioni cinesi crescere a dismisura in quasi ogni comparto manifatturiero (elettrotecnica ed elettronica per oltre il 20% del valore totale, meccanica per il 15%, tessile e abbigliamento per il 15%) e superare stabilmente le importazioni; dal 2003 la C. è il quarto paese del mondo (dopo Stati Uniti, Giappone e Germania), non solo per produzione complessiva realizzata, ma anche per contributo al commercio internazionale. I principali fornitori sono Giappone, Stati Uniti, Corea del Sud e Germania; i principali clienti Stati Uniti, Hong Kong (che dal punto di vista commerciale figura nelle statistiche distintamente), Giappone, Corea del Sud, Germania, seguiti da numerosi paesi europei compresa l’Italia.
L’unità monetaria è il renminbi, o moneta della Banca del Popolo (conosciuto soprattutto con il nome di yuan e diviso in 10 jiao e 100 fen), che fu istituito il 1° marzo 1955 in sostituzione del vecchio yuan.
Testimonianze fossili documentano che la C. fu abitata dal Paleolitico inferiore. In particolare, l’uomo di Yuanmou è stato datato oltre 1 milione di anni fa, l’uomo di Lantian a 600.000, il Sinanthropus pekinensis di Zhoukoudian (riconducibile a Homo erectus) al Pleistocene medio. Dopo tali culture paleolitiche è stato possibile datare varie culture neolitiche, come quelle localizzate nelle province del Hebei e del Henan (5900-5400 a.C.), quelle di Yangshao (4800-3000 a.C.) e di Longshan (nella provincia Henan, 3000-2300 a.C.).
La prima dinastia registrata nelle cronache cinesi è quella Xia (21°-16° sec.). Con l’età del Bronzo ha inizio la dinastia Shang (16° sec.-1066 a.C. circa), il cui regno appare molto esteso. La struttura sociale e politica, molto primitiva, sembrava allora fondata su una specie di protofeudalesimo, in cui il sovrano aveva funzioni soprattutto sacrali. Al Nord-Ovest si formò lo Stato di Zhou, su base etnica analoga ma con qualche peculiarità culturale. Intorno al 1070 a. C. il suo re distrusse il regno Shang impadronendosi dei suoi territori, che furono distribuiti tra capi fedeli. Sorse così una struttura feudale, in cui l’autorità del re si indebolì sempre più, mentre le lotte fra i principi portavano alla sparizione dei più deboli. Tentativi di dare un assetto più stabile alla C. sotto un principe egemone fallirono, e i secoli dal 5° al 3° a.C. furono un’epoca di lotte incessanti (i cosiddetti Stati combattenti).
Fra le dinastie contendenti, che tutte, l’una dopo l’altra, assunsero il titolo regio, ottenne il sopravvento quella di Qin, che nel 256 prevalse sugli Zhou. Nel 221 il re di Qin, avendo unificato la C. del Nord e del Centro, assunse il titolo di imperatore, abolì il feudalesimo, diede al paese un’organizzazione burocratica, lo protesse collegando nella Grande Muraglia i tratti di muro preesistenti, e avviò la conquista e colonizzazione del Sud, abitato da popolazioni non cinesi.
La guerra civile che seguì la sua morte si concluse con l’affermazione della dinastia Han, che completò la conquista del Sud e diede inizio all’espansione cinese in Asia centrale (fig. 3), con notevole impulso dei traffici. In questo periodo penetrò dall’India il buddhismo, che presto si diffuse largamente. Alla fine degli Han la C. si divise in 3 Stati: Wei al Nord, Wu al Sud, Shu Han nel Sichuan. L’ultimo dei Wei fondò la dinastia Jin (256-420), che nel 280 riuscì a riunificare il paese, prima di perdere la capitale Luoyang e parte dei territori sotto l’attacco dei Barbari, dopo il quale la C. restò divisa tra Sud imperiale, con capitale Nanchino, e il Nord, dominato da dinastie prototurche e prototibetane. La C. venne nuovamente riunificata sotto i Sui (581-618), che ripresero l’espansione ma riportarono gravi insuccessi in Corea; ai Sui succedettero i Tang (618-907), con i quali la C. raggiunse il massimo splendore politico-culturale. Le due principali figure della dinastia furono gli imperatori Taizong (626-649) e Xuanzong (712-756). Il primo sottomise i Turchi e condusse una serie di imprese militari verso occidente. Il secondo è famoso soprattutto per il grande sviluppo che pittura e letteratura ebbero alla sua corte.
Alla caduta dei Tang successe un periodo di disgregazione. Cinque effimere dinastie regnarono successivamente nel Nord (907-960), mentre il Sud era smembrato in una mezza dozzina di Stati regionali. L’unità della C. venne ricostituita dalla dinastia Song (960-1279), la cui capitale era Kaifeng. Una stretta fascia nordorientale era però caduta in mano ai Khitan che, tra il 1115 e il 1124, furono soppiantati a loro volta dai Nüzhen della dinastia Jin. Questi si lanciarono alla conquista della C. del Nord e i Song, indeboliti dall’aggravarsi della situazione agraria, perdettero nel 1126 la loro capitale e diedero il Nord agli invasori. I Nüzhen mantennero i loro privilegi di conquistatori senza concedere diritti politici ai Cinesi.
Nel frattempo, al di là della Grande Muraglia, Genghiz khān (1162-1227) creava la potenza mongola. Le prime scorrerie dei Mongoli ebbero inizio nel 1210 e nel 1215 essi occuparono Pechino. La conquista della C. meridionale fu opera di Qūbīlāy (1214-1294), le cui truppe presero Hangzhou (1276) stroncando le ultime resistenze dei Song (1279). La C. era così di nuovo unificata, ma questa volta a opera di un conquistatore straniero, il primo che nella sua storia la dominasse interamente. Qūbīlāy fissò la capitale a Khān bālīq (Pechino) e diede alla sua dinastia il nome cinese di Yuan. Adottò una politica razzista, allo scopo di evitare che i Mongoli fossero assorbiti nella massa cinese; attaccò il Giappone (1274; 1281), il Champa e il Vietnam (1283-84; 1287-88). Costruì strade, creò un regolare servizio postale e riorganizzò le finanze. Le diverse religioni godevano di completa tolleranza, sebbene il buddhismo tibetano venisse favorito. I successori di Qūbīlāy si dimostrarono tuttavia incapaci di reggere il peso del grande impero. Dopo il 1350 ebbero inizio le rivolte nella C. meridionale, finché Zhu Yuanzhang seppe riunire sotto la sua guida le forze del Sud e cacciare i Mongoli dal Nord (1368).
Zhu Yuanzhang, noto sotto il suo nome di regno Hongwu (1368-1398), fondò la dinastia nazionale dei Ming (1368-1644), sotto cui la C. si chiuse completamente verso l’esterno. L’imperatore Yongle (1402-1424) fu l’unico sovrano a lanciare una grande politica marinara; nel 1403 le flotte cinesi si spinsero fino a Giava, nel 1408 raggiunsero Ceylon, nel 1411 Aden. Ma tale politica fu presto abbandonata, la C. si richiuse verso l’esterno e i mercanti stranieri furono tollerati solamente a Canton. Durante il regno di Wangli (1572-1620) si ebbero continui attacchi da parte dei Mongoli e nel 1592 truppe cinesi dovettero intervenire per respingere gli invasori giapponesi dalla Corea. Frattanto, nel 1514, i primi Portoghesi erano apparsi nei mari della C., seguiti dagli Spagnoli e dagli Olandesi che, nel 1623, s’insediarono a Formosa. Del progressivo indebolimento della dinastia, approfittò il nuovo Stato mancese, sorto alla fine del 16° sec. al di là della Grande Muraglia, ma la fine della dinastia fu opera di un ribelle, Li Zicheng, che nel 1644 occupò Pechino. I Mancesi, chiamati in aiuto dalla burocrazia cinese, rioccuparono la capitale e completarono la conquista del paese nel giro di due decenni.
I Mancesi furono il secondo popolo straniero a dominare l’intera C., col nome di dinastia Qing (1644-1912). Cercarono di servirsi della collaborazione della classe dirigente cinese, mantenendola però in una condizione subordinata e tutelando gelosamente i diritti dei vincitori; non riusciro;no però a evitare una rapida sinizzazione. Il primo imperatore fu Shunzhi (1644-1661). Kangxi (1661-1722) poté intraprendere una grande politica imperiale: venne annessa Formosa (1683), furono affrontati e respinti gli Zungari, stabilendo l’alto dominio sulla Mongolia (1691) e imponendo il protettorato al Tibet (1720). Al Nord l’espansione russa fu frenata col trattato di Nerčinsk (1689). Kangxi protesse le lettere e le arti e favorì i gesuiti finché, in seguito alla questione dei riti, nel 1717 emanò il primo di una serie di editti contenenti misure restrittive. Qianlong (1735-1796) distrusse il Regno degli Zungari e annesse all’impero i loro domini, il Turkestan cinese o Xinjiang (1756-59).
Dopo la morte di Qianlong gli effetti delle guerre, della cattiva amministrazione e dell’aumento della popolazione determinarono, per tutto il 19° sec., un graduale impoverimento del paese, provato da numerose rivolte, in un momento in cui l’espansionismo industriale e commerciale europeo, soprattutto inglese, insisteva per l’apertura del commercio con la Cina.
La prima guerra anglo-cinese, detta dell’oppio (1839-42), si concluse con il trattato di Nanchino, per il quale l’Inghilterra ebbe Hong Kong e diversi porti furono aperti al commercio. Il trattato di Tianjin, che nel 1861 pose fine alla seconda guerra anglo-franco-cinese sancì il raddoppio dell’ammontare dell’indennità dovuta dalla C. alla Gran Bretagna, che acquisiva anche la penisola di Kowloon di fronte al possedimento di Hong Kong, l’apertura di altri porti e il diritto per i cittadini britannici di reclutare manodopera cinese da far lavorare nelle colonie britanniche o in altre località. Ai disastri esterni si aggiunsero quelli determinati dalle rivolte interne, tra le quali famosa fu la rivolta dei Taiping (1849-64), che devastò la C. centrale. Intanto, i traffici con gli stranieri lungo la costa favorivano il sorgere di una borghesia commerciale che, specie nel Sud, diveniva il miglior ambiente di propagazione delle nuove idee venute dall’Occidente.
Nel 1894 scoppiò la guerra cino-giapponese, che vide la C. costretta a firmare il trattato di Shimonoseki (1895), con cui cedette Formosa e rinunciò alla tradizionale sovranità sulla Corea. Il governo mancese, retto dall’imperatrice Cixi (1835-1908), persistette nella sua politica di reazione; Cixi riuscì anzi a far rivolgere contro gli stranieri il movimento dei Boxers, originariamente antimancese. Il risultato, però, fu la spedizione internazionale del 1900, che diede il colpo di grazia al prestigio della corte. Mentre nel Sud della C. si preparava la rivoluzione a opera di Sun Zhongshan, nel Nord il generale Yuan Shikai mirava a trarre vantaggio dalla decadenza della dinastia per i suoi fini personali. Nel 1910 scoppiarono le prime rivolte, rapidamente seguite nel 1911 dalla costituzione di un governo provvisorio a Nanchino e dal tradimento di Yuan Shikai che forzò l’ultimo imperatore, il giovane Pu Yi, a rinunciare al trono (1912), mentre egli era eletto primo presidente della Repubblica.
Sun Zhongshan nel 1912 organizzò il Partito nazionalista (Guomindang), ma Yuan Shikai, dichiaratolo illegale, riportò la capitale a Pechino e prese a governare autocraticamente. Alla sua morte (1916) si aggravò il contrasto tra i rivoluzionari e il governo di Pechino, rimasto in balia dei generali che miravano a costituirsi dei feudi personali nelle varie province. Nel 1917 il governo dichiarò guerra alle Potenze centrali, mentre i deputati del Guomindang, contrari, costituirono un governo militare a Canton sotto Sun Zhongshan. I successivi tentativi di riunificare i due governi fallirono, mentre l’insuccesso riportato alla conferenza di Versailles (mancata reintegrazione dei territori ex-tedeschi nello Shandong, rivendicati dal Giappone per diritto di conquista) portò allo scoppio di violenti moti studenteschi antioccidentali (1919). Accanto agli studenti parteciparono al movimento insurrezionale anche gli esponenti delle nuove classi sradicate dall’ordine confuciano tradizionale, come la borghesia mercantile e il nascente proletariato industriale. Fu a queste nuove forze che si rivolse Sun Zhongshan, quando riorganizzò il Guomindang facendone, con la collaborazione del Partito comunista cinese, un partito totalitario di massa.
Il Partito comunista cinese era stato fondato nel 1921 a Shanghai per iniziativa di un gruppo d’intellettuali illuministi convertiti al marxismo, come Chen Duxiu, Li Dazhao, Mao Zedong, e di cinesi formatisi all’estero, come Zhou Enlai. Il governo sovietico inviò a Canton degli emissari del Comintern per aiutare a organizzare non solo il Partito comunista cinese ma lo stesso Guomindang su di una base comune di lotta anti-imperialista. Sun Zhongshan procedette, quindi, a una ridefinizione della sua ideologia dei Tre principi del popolo (Sanmin zhuyi), e riorganizzò il Guomindang sul modello leninista.
La morte di Sun (1925) fu seguita da violente agitazioni anti-imperialiste, culminate a Shanghai nel Movimento del 30 maggio, che accrebbero in seno al Guomindang l’influenza già forte dei comunisti. Tuttavia la guida del Guomindang fu assunta dal generale conservatore Jiang Jieshi, che nell’aprile 1927 ruppe con il Partito comunista, massacrandone i quadri riuniti a Shanghai. Nel frattempo completava le campagne contro i signori della guerra del Nord, unificando almeno formalmente la C. sotto il governo del Guomindang, la cui sede era stata stabilita a Nanchino. Liquidati i signori della guerra, Jiang si rivolse contro i comunisti, che nel 1931 avevano proclamato una Repubblica Cinese Sovietica, con capitale a Ruijin, nel Jiangxi. Riuscì a sconfiggere l’esercito avversario, ma più della metà di questo sfuggì all’accerchiamento e si sganciò con un’epica marcia (la cosiddetta lunga marcia), che portò i 30.000 superstiti nella C. del Nord. Nello Shaanxi i comunisti organizzarono un’amministrazione sovietica autonoma e Mao Zedong fu riconosciuto capo incontrastato del movimento comunista in Cina. Nel frattempo il regime nazionalista, il cui potere era detenuto da una ristretta oligarchia politica dominata da Jiang Jieshi, falliva in politica economica, nel programma di ‘ricostruzione rurale’ e nei tentativi di promuovere lo sviluppo industriale e la modernizzazione del credito. Ad aggravare le difficoltà di Jiang contribuì in modo decisivo l’aggressione giapponese.
I Giapponesi occuparono nel 1931 la Manciuria, erigendola in Stato separato, il Manchukuo, formalmente indipendente, in realtà sotto il loro controllo, e nel 1937 dilagarono nella C. del Nord. In questa emergenza comunisti e Guomindang furono costretti a collaborare. Le forze armate comuniste, pur mantenendo la loro unità, furono poste sotto il comando di Jiang Jieshi. L’ingresso del Giappone nella Seconda guerra mondiale ridusse lo sforzo militare giapponese in C. e consentì ai Cinesi, riforniti dagli alleati, di resistere fino alla resa giapponese (1945). L’occupazione sovietica della Manciuria, provocò nuovi scontri armati tra nazionalisti e comunisti; le missioni di pace statunitensi fallirono ed ebbe inizio la guerra civile che durò fino al 1949. I comunisti estesero il loro controllo sulla Manciuria e tutta la C. settentrionale, nel 1949 conquistarono il resto del paese e il 1° ottobre Mao proclamò a Pechino la Repubblica Popolare di Cina. Il governo nazionalista, rifugiatosi a Taiwan, poté mantenere il controllo dell’isola grazie al sostegno statunitense.
I delegati del PCC, di altri 11 partiti minori e dell’esercito popolare approvarono una Costituzione provvisoria. Nel 1950 fu promulgata una legge di riforma agraria, allo scopo di ridistribuire le terre ai piccoli e medi contadini; in politica estera, fu firmato a Mosca un accordo trentennale di alleanza fra C. e Unione Sovietica; intanto la C. riaffermava la propria sovranità sul Tibet e interveniva nel conflitto coreano. Il tentativo di rioccupare Taiwan fu bloccato dalla neutralizzazione dello stretto e dall’intervento della flotta statunitense. Nel 1954 l’Assemblea approvò la Costituzione definitiva e confermò Mao (presidente della Repubblica dal 1949) alla guida dello Stato.
Nel 1958, con il nome di Grande balzo in avanti, prese avvio una campagna per favorire l’aumento della produzione agricola e industriale, che impresse una decisa caratterizzazione in senso maoista alla politica interna; fra l’altro, nelle campagne si passò dalle cooperative alle comuni popolari agricole, ciascuna dotata di una sua organizzazione militare difensiva. L’attuazione di tale programma provocò contrasti all’interno del PCC con i fautori del modello sovietico di costruzione del socialismo; principale esponente di questa linea era Liu Shaoqi, che nel 1959 fu eletto presidente della Repubblica. Anche la politica estera subì una progressiva radicalizzazione in senso anti-imperialista entrando in conflitto con gli sviluppi della politica sovietica di coesistenza pacifica. Tali contrasti nel 1960 portarono al ritiro di tutti i tecnici sovietici e alla sospensione degli aiuti di Mosca ai programmi di industrializzazione cinesi. Dopo la defenestrazione di Chruščëv (1964) e di fronte all’intensificarsi dell’intervento statunitense nel Vietnam, all’interno del gruppo dirigente cinese si manifestarono tendenze a una riconciliazione con l’URSS e alla realizzazione di un fronte comune contro l’azione americana nel Sud-Est asiatico; ma, con l’avvio nell’autunno 1965 della ‘grande rivoluzione culturale proletaria’, i rapporti con l’URSS subirono un ulteriore peggioramento.
La rivoluzione culturale ebbe come protagonisti milioni di giovani che si mobilitarono, dando vita al movimento delle Guardie rosse, per una radicalizzazione del processo rivoluzionario e una lotta serrata contro le tendenze ‘revisioniste’, rappresentate da burocrati, intellettuali, dirigenti del partito e dello Stato. Il processo coinvolse gli operai delle grandi città e con il tempo divenne sempre più impetuoso fino a provocare una crisi nelle strutture politiche e amministrative del paese (anche per la messa sotto accusa e l’esautorazione di migliaia di quadri) e un calo della produzione. Dopo la destituzione di Liu Shaoqi (1968), il IX congresso del PCC, nell’aprile 1969, pose di fatto termine alla rivoluzione culturale, registrando il rafforzamento degli esponenti radicali all’interno del gruppo dirigente cinese (tra i quali Lin Biao, designato dal congresso erede politico di Mao). Mentre si acuivano i contrasti con l’URSS, anche con violenti scontri di frontiera, a partire dal 1971 la C. avviò il riavvicinamento agli USA e un’apertura verso tutti i paesi occidentali. Sul piano interno iniziò la revisione della linea di sinistra e riprese quota l’ala moderata e pragmatica del partito.
Alla morte di Mao Zedong (1976), con l’ascesa al potere di Hua Guofeng l’ala sinistra del PCC fu definitivamente sconfitta. La sessione plenaria del Comitato centrale del PCC del 1978 decise l’avvio di un processo di decentramento e di liberalizzazione dell’economia, di riforma del sistema amministrativo e di profonda revisione ideologica. Negli anni successivi ebbe crescente influenza la corrente pragmatica e modernizzatrice che faceva capo a Deng Xiaoping. Intanto subivano un grave deterioramento le relazioni con il Vietnam, anche a causa della sua politica di alleanza con l’Unione Sovietica e del suo tentativo di assicurarsi un ruolo egemone in Indocina. Tali contrasti portarono, dopo l’intervento vietnamita in Cambogia del 1979, a un attacco dei Cinesi al Vietnam; il breve ma violento conflitto (febbraio-marzo 1979) lasciò un persistente clima di tensione tra i due paesi.
Nel 1980 la campagna contro l’estrema sinistra culminò nell’apertura del processo contro la ‘banda dei quattro’ (la vedova di Mao, Jiang Qing, Zhang Chunqiao, ex vice primo ministro, Wang Hongwen, ex vicepresidente del PCC, Yao Wenyuan, ideologo della rivoluzione culturale), accusati di aver commesso delitti durante la rivoluzione culturale. Proseguiva intanto il rafforzamento del gruppo di Deng Xiaoping con l’avvento di Zhao Ziyang alla direzione del governo (1980), di Hu Yaobang alla presidenza del partito, e dello stesso Deng alla presidenza della sua Commissione militare (1981). Nel 1982 la quarta Costituzione del paese ristabilì la carica di presidente dalla Repubblica, alla quale fu designato Li Xiannian. Ormai saldamente al potere ai vertici del partito e dello Stato, la nuova leadership cinese, moderata, tecnocratica ed efficientista, accentuava negli anni successivi la politica di modernizzazione e di promozione della crescita economica del paese e ampliava le misure di liberalizzazione e di apertura dell’economia verso l’estero (dal 1980 la C. aveva aderito al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca mondiale).
In campo internazionale, l’aspirazione cinese ad arrivare a una ‘completa riunificazione della madre patria entro la fine del secolo’ ottenne due successi con gli accordi per la restituzione di Hong Kong nel 1997 e di Macao nel 1999 stipulati con il governo britannico nel 1984 e con quello portoghese nel 1987. Gli aiuti militari da parte di Washington a Taiwan restavano il principale elemento di attrito nei rapporti tra la C. e gli USA. Un graduale disgelo dall’inizio degli anni 1980 nelle relazioni con l’URSS consentì una ripresa degli scambi economici e commerciali e degli accordi di cooperazione tra i due paesi, ristabiliti regolarmente dopo l’annuncio del ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan e dalla Mongolia.
Sul piano interno, la politica di Deng provocò una forte accelerazione dello sviluppo produttivo, accompagnata tuttavia da contraddizioni e squilibri. L’insorgere di fenomeni inflazionistici, di problemi occupazionali e di massicci movimenti migratori, l’aumento delle diseguaglianze sociali e regionali, della corruzione e della criminalità suscitavano forti tensioni sociali. Nel 1989 dimostrazioni studentesche indette a Pechino in onore del riformatore Hu Yaobang, appena scomparso, si trasformarono in un ampio movimento di protesta, al quale il primo ministro Li Peng e il presidente della Repubblica Yang Shangkun, con l’appoggio di Deng, risposero con la proclamazione della legge marziale. L’esercito occupò il centro di Pechino, provocando migliaia di morti, e fu poi avviata una dura repressione, con migliaia di arresti e decine di esecuzioni nei mesi successivi.
Nel 1993 l’Assemblea Nazionale elesse Jiang Zemin (già segretario generale del PCC e capo della Commissione militare centrale del partito e dello Stato) alla presidenza della Repubblica. Alla morte di Deng (1997), lo stesso Jiang Zemin fu ufficialmente indicato come suo successore alla guida del paese. Il Congresso approvò un progetto di riforma amministrativa che riduceva drasticamente l’apparato burocratico e rilanciò la politica di liberalizzazione economica, che permise alla C. di incrementare gli scambi economici e commerciali con i paesi occidentali; lo sviluppo di questa tendenza porterà nel 2001 all’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio. La liberalizzazione economica fu però accompagnata da un’accentuazione della politica repressiva nei confronti dei dissidenti e da un’estensione del controllo politico su tutti gli aspetti della vita sociale.
A Jiang Zemin nella carica di segretario generale del partito subentrò nel 2002 Hu Jintao, eletto poi presidente della Repubblica (2003) e capo della Commissione militare centrale (2004). Capo del governo dal 2003 è Wen Jiabao. La nuova leadership ha proseguito sulla strada della liberalizzazione economica, conseguendo risultati notevolissimi in termini di crescita del PIL (superiore per più anni al 9%), che hanno portato la C. al secondo posto nella graduatoria mondiale, dopo gli Stati Uniti. La crescita sostenuta del settore industriale ha però accresciuto il divario fra la popolazione urbana e quella rurale, a favore della quale sono stati disposti diversi interventi, culminati nel 2008 con il varo di una riforma agraria, in base alla quale i contadini possono gestire la terra come se fossero titolari della proprietà, che rimane solo nominalmente allo Stato. La proprietà privata è totalmente ammessa in altri settori, dopo gli emendamenti introdotti nella Costituzione nel 2004.
Il XVIII Congresso del Partito comunista cinese, tenutosi nel novembre del 2012, ha sancito il passaggio di potere dall'amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao: successore del primo nella carica di segretario del Partito comunista cinese è stato designato Xi Jinping, che gli è subentrato dal marzo 2013 anche nella carica di presidente della Repubblica, mentre il ruolo di primo ministro è stato assunto a partire dalla stessa data da Li Keqiang. La leadership del comitato permanente che guiderà il Paese nei prossimi dieci anni è stata ridotta da nove a sette membri; il Congresso ha inoltre approvato un emendamento della costituzione per rendere più stringenti i controlli disciplinari sui membri del partito, al fine di evitare il ripetersi di vicende come quella che nel marzo del 2012 aveva portato Bo Xilai, presidente del Partito comunista cinese nella municipalità di Chongqing e leader carismatico che aveva rilanciato la cosiddetta “cultura rossa” promuovendo attraverso i media importanti campagne sociali, a essere rimosso dalla carica ed espulso, nel settembre successivo, dal partito stesso.
In politica estera, oltre alla crescente rete di rapporti con i paesi dell'Africa subsahariana, ai quali sono forniti finanziamenti in cambio delle materie prime, si segnala la tendenza alla distensione, esplicitata negli accordi per la soluzione della vertenza sui confini con l'India (2004), la Russia e il Vietnam (2008), ma che ha visto un irrigidimento dopo le prese di posizione della comunità internazionale a favore del Tibet, dove la rivolta guidata dai monaci buddhisti nel 2008 è stata brutalmente repressa, e degli Uiguri dello Xinjiang, altra minoranza etnica di cui è contrastata l'aspirazione a una maggiore autonomia. Nell'ambito dei rapporti con Taiwan, di cui la C. non ha mai riconosciuto la sovranità, lo storico incontro - il primo dal 1945 - avvenuto nel novembre 2015 a Singapore tra i presidenti Xi Jinping e Ma Ying-jeou ha segnato un riavvicinamento tra i due Paesi, sebbene la svolta diplomatica debba essere inquadrata nell'ambito della necessità di mantenere la pace e la stabilità nello Stretto.
Nell'ottobre 2017 il XIX Congresso del Partito ha riconfermato Xi Jinping come presidente della CMC e segretario generale per un secondo quinquennio, inserendo il suo pensiero "sul socialismo con caratteristiche cinesi" nello statuto del partito, e a marzo dell'annosuccessivo l’Assemblea nazionale del popolo ha approvato la riforma costituzionale che abolisce il limite di due mandati per le cariche di presidente e vicepresidente, ciò consentendo all'uomo politico di restare a vita alla guida del Paese; riconfermato in tale carica nell'ottobre 2022, nel marzo dell'anno successivo ha ricevuto il terzo mandato presidenziale. Nella stessa data al premier Li Keqiang è subentrato Li Qiang.
I primi nomi di autori che si trovano nella letteratura cinese appartengono a filosofi; ciononostante l’espressione cinese per filosofia, zhexue, è un neologismo coniato sulle lingue occidentali. Il termine cinese zi, che si ritrova in molti dei nomi dei pensatori cinesi antichi, è generalmente reso con «filosofo», laddove significa in realtà «maestro».
Le prime scuole di pensiero sorsero in C. durante la terza dinastia, quella dei Zhou e il primo pensatore fu Confucio (551-479 a.C.). Confucio più che come un innovatore si presentò come un interprete di una tradizione preesistente, ponendo alla base della sua dottrina il rispetto e lo studio dell’antichità. Indicò la via da seguire nell’imitazione della vita e delle opere dei saggi sovrani antichi, ipotizzando una mitica età dell’oro da cui l’umanità sarebbe decaduta. Attraverso la pratica delle virtù, l’individuo dovrà perfezionarsi in funzione del ristabilimento di una società ordinata. La società ipotizzata da Confucio è su base rigorosamente gerarchica e la letteratura, come in età successiva l’arte, viene concepita come un mezzo didattico-didascalico per l’elevazione dell’individuo e non come fine a sé stesso. Confucio sviluppa nella sua predicazione esclusivamente l’etica e la politica, la prima in funzione della seconda; nella sua dottrina rifugge sempre da problemi metafisici.
Il primo grande interprete della scuola confuciana fu Mencio (Meng Zi, circa 327-288 a. C.), che rese più accettabile per i suoi tempi la dottrina di Confucio. Anche Mencio dà importanza alla politica, svolgendo tesi moderne che lo portano a giustificare il regicidio nei confronti di un cattivo sovrano; l’individuo appare più libero che nell’enunciazione originaria confuciana. Nella polemica del 4° sec. sulla qualità della natura umana, Mencio è uno strenuo difensore della bontà innata dell’animo umano.
Xun Zi (circa 298-238 a.C.), confuciano eterodosso, insisteva invece sulla malvagità innata della natura umana, che poteva essere corretta soltanto con lo studio e con l’osservanza rigida del li, ovvero del rito, dell’etichetta, mezzo coercitivo per il miglioramento interiore dell’individuo. Alla sua scuola dobbiamo la codificazione dei rituali dell’antica Cina.
La corrente di pensiero che contrastò sempre il confucianesimo fu quella taoista, che ebbe in Lao Zi, Zhuang Zhou, Lie Zi i primi tre esponenti e, al tempo stesso, i primi tre testi filosofici.
Lao Zi è un personaggio leggendario, che dà il nome a un breve testo, che successivamente prese il nome di Daodejing (o «Libro della via e della virtù»), in cui, seppur succintamente, vengono espresse idee metafisiche, etiche e politiche.
Zhuang Zhou (369-286 a.C.) è l’autore di una ponderosa opera, di alto valore letterario, in cui, oltre a ripetere i temi già esposti della dottrina taoista, giunge a dubitare scetticamente di tutto, persino della stessa esistenza. È ricorrente il motivo della necessità di lasciar libera la natura del singolo individuo, perché solo chi segue le proprie inclinazioni può raggiungere la felicità, laddove le leggi e la società stessa sono sovrastrutture innaturali, che possono solo causare il dolore. Nella sua opera c’è un primo accenno a pratiche dietetiche, respiratorie, alchemiche che saranno posteriormente sviluppate dal taoismo religioso.
Lie Zi (n. forse 450 a.C.) è il supposto autore di un libro omonimo, sicuramente più tardo, parzialmente derivato dal testo di Zhuang Zhou, ma di un certo interesse filosofico-religioso in quanto in esso abbondano elementi del posteriore taoismo magico.
Particolare fortuna godette la scuola moista, che prese nome dal suo caposcuola, Mo Zi (circa 479-381 a.C.). Teorizzatore dell’amore universale e del pacifismo, Mo Zi credeva in uno stato autocratico, ancor più gerarchizzato di quello ideato dai confuciani; fu il primo, in C., a collegare l’economia con la demografia, sostenendo che un incremento demografico avrebbe aumentato la produzione agricola.
Tutte le scuole filosofiche dell’antica C., sorte in un periodo di crisi politico-economica, si prospettavano il problema dello Stato come basilare, magari negandolo come giungevano a fare paradossalmente i taoisti; ma tutte avevano in mente la mitica età dell’oro delle origini. Eccezione a tale teoria fu la scuola legalista o legista (fajia), che ebbe i suoi principali esponenti in Shang Zi (m. 338 a.C.) e Han Fei Zi (m. 233 a.C.). Essi basavano la loro teoria su una concezione autoritaria dello Stato, che doveva essere controllato da un sovrano secondo una rigorosa osservanza delle leggi penali; ricompense e pene dovevano essere date a seconda del comportamento, che non doveva riferirsi all’antico ma essere consono al momento presente. Tale scuola, se ebbe breve vita, determinò la formazione, nel 221 a.C., del primo impero cinese e l’abolizione del sistema feudale. Negli ultimi secoli della terza dinastia operarono altresì scuole di pensiero minori, quali quella dei dialettici (mingjia), dei politici (zonghengjia), degli eclettici (zajia) e la scuola dell’agricoltura (nongjia).
Della scuola dei dialettici o sofisti va ricordato il nome di un pensatore del 3° sec. a.C., Gongsun Long, che sostenne una teoria che presenta alcune affinità con quella platonica delle idee.
Durante la dinastia Han, se da un lato cominciò a fiorire l’esegesi dei testi filosofici della scuola confuciana, dall’altro appaiono alcune figure di pensatori che si autodefiniscono confuciani, ma che in realtà si discostano dal pensiero originario di Confucio. Tipici esempi furono Dong Zhongshu e Wang Chong.
Dong Zhongshu (179-104 a.C.) si allontanò dalle teorie di Mencio e di Xun Zi dando molta importanza ai rapporti fra la cosmologia e la politica e basandosi essenzialmente sulla dottrina dei Cinque Elementi (legno, fuoco, metallo, acqua, terra) e sul loro avvicendamento ciclico. Si può far iniziare con lui quel processo di sincretismo filosofico per cui si fondono elementi derivati da altre scuole che, magari, si combattono, ma da cui inconsciamente si è contagiati.
Wang Chong (27-97 d.C. circa), nel suo Lun heng o «Discussioni», cercò di combattere quanto vi era di irrazionale nelle teorie delle diverse scuole filosofiche; se ci rimane la sua opera demolitrice degli altri sistemi, è andata purtroppo persa la sua opera dottrinale.
Intorno agli inizi dell’era volgare era giunto in C. il buddhismo, non solo come nuova forma religiosa, ma anche come espressione filosofica e se, in un primo momento, fiorirono le traduzioni in cinese di testi in pali o sanscrito, seguirono ben presto trattazioni filosofico-religiose in lingua cinese, tutte raccolte nel grandioso canone buddhista (Sanzangjing). A imitazione dei buddhisti, anche i taoisti sentirono la necessità di raccogliere tutte le loro opere in un grande corpus e vide così la luce il Canone taoista (Daozang), in cui sono raccolti più di mille testi.
Con la dinastia dei Song fiorì la scuola neoconfuciana, che culminò nella persona e nell’opera di Zhu Xi (1130-1200). Per merito dei neoconfuciani, il confucianesimo si arricchiva di una metafisica, derivata dalle scuole buddhista e taoista che pure essi andavano avversando. Zhu Xi si proponeva di tornare a un confucianesimo primitivo, libero da sovrastrutture posteriori; in realtà, fece opera sincretista al di là della sua apparente ortodossia. L’ultimo grande esponente della scuola confuciana fu Wang Yiangming (1472-1528), vissuto sotto la dinastia dei Ming, che cercò di opporsi all’interpretazione del confucianesimo fatta da Zhu Xi.
Sorse la scuola detta Hanxue o scuola Han, in opposizione alla scuola Song neo-confuciana; si cercò di ristudiare i testi filosofici confuciani secondo i più antichi commenti, approdando a risultati filologici di primaria importanza e facendo sorgere la prima sinologia cinese.
Fra la fine del 19° sec. e i primi decenni del successivo la C. venne in contatto con il pensiero occidentale. Fu merito di un grande traduttore, Yan Fu (1853-1921), se furono tradotti in cinese T.H. Huxley, A. Smith, H. Spencer, J.S. Mill, Montesquieu, Rousseau e Hume. Conseguenza del suddetto contatto fu la diffusione in C. di vari filoni filosofici occidentali, dall’evoluzionismo darwiniano alle teorie di Nietzsche, a quelle marxiste. A queste ultime soprattutto si ispirò Chen Duxiu (1879-1942) che insieme a Hu Shi (1891-1962), pragmatista e discepolo di J. Dewey, sviluppò una serrata critica al confucianesimo dando vita al Nuovo movimento culturale le cui parole d’ordine furono ‘democrazia’ e ‘scienza’. A tale tentativo di diffusione in C. di ideali propri della civiltà occidentale si contrappose, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, una rivalutazione del confucianesimo e la ripresa di tematiche metafisico-religiose ad opera di Liang Qichao (1873-1929), seguace delle correnti pessimistiche, di Liang Shuming, dotto buddhista, e di Zhang Junmai, studioso di Bergson e di Eucken.
Contributi originali allo sviluppo del pensiero marxista furono inoltre elaborati da Li Dazhao (1888-1927) e, in special modo, da Mao Zedong che nelle opere Della pratica e Della contraddizione, entrambe del 1937, tentò un innesto della dialettica marxista sulla dialettica cinese tradizionale.
Anche se la C. ha conosciuto molte altre religioni, quali il manicheismo, l’islamismo, il cristianesimo, la sua storia religiosa appare dominata dalla varia fortuna e dalle reciproche relazioni di confucianesimo, taoismo e buddhismo. A questo proposito occorre precisare che il confucianesimo non è una religione ma una sistemazione dottrinaria elaborata da Confucio della religione classica della C. antica, le cui origini fanno tutt’uno con le origini stesse delle comunità cinesi e che, quale religione ufficiale dell’Impero, è rimasta formalmente in vita fino all’instaurazione della Repubblica (1912). Il buddhismo, invece, quanto a origine è una religione straniera, ma radicatasi nella civiltà cinese, sia in profondità sia in estensione, in misura tale da rendere impossibile anche il semplice paragone con altre religioni parimenti importate. Le tre grandi formazioni hanno svolto un tipo di funzione interamente diverso. La religione classica, sia nella sua elaborazione confuciana sia al suo stato originario nelle campagne, è di tipo ‘nazionale’ o ‘antico’; il suo ambito d’interesse riguarda soltanto il buon funzionamento della vita della comunità e del cosmo naturale entro il quale e del quale la comunità vive, senza volersi costituire come religione soteriologica rispetto agli individui presi singolarmente in quanto tali. A una problematica che comprende aspirazioni alla salvezza individuale e personale risposero invece il buddhismo e il taoismo, con la differenza che quest’ultimo, pur essendo per natura a carattere tendenzialmente universalistico come tutte le religioni di salvezza, non superò mai nella realtà della sua storia i limiti fortemente etnici delle sue origini cinesi, mentre il buddhismo cinese realizzò pienamente la sua funzione, iscrivendosi come momento fondamentale di una storia religiosa che investe l’intera Asia.
Caratteristiche della religione classica della C. erano una grande figura di essere supremo celeste (Shangdi o Tian), riconducibile allo stesso tipo di divinità delle religioni primitive; una complessa serie di figure preposte alle attività umane e alle manifestazioni naturali, buone o cattive; una vistosissima vitalità del mondo degli antenati ai quali si tributava culto. Le credenze sull’aldilà erano molto complesse. Il concetto di anima prevedeva due categorie: tre anime superiori (o intellettive: hun) e cinque anime inferiori (o vegetative: po), raccolte in vita sotto il comune denominatore del corpo e soggette, dopo la morte, a vario destino; con il venir meno del corpo le anime hun e le anime po si separavano: il circuito psichico po restava attaccato al corpo e si nutriva delle offerte (se queste mancavano, diveniva un crudele demone affamato, detto Gui), mentre lo hun saliva allo Shangdi per essere giudicato. Anticamente si praticavano i sacrifici umani, ma le vittime furono in seguito sostituite con simulacri di paglia o di legno.
Queste antiche credenze vennero sistemate nel confucianesimo a partire dal 6° sec. a.C.; il buddhismo fu introdotto durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), mentre il taoismo, basato sulle dottrine di Lao Zi fu costituito come religione da Zhang Daoling (1°-2° sec. d.C.). Caratteristica della mentalità cinese attraverso i secoli è stata quella di fondere e unire gli elementi comuni alle tre religioni, sì che ognuna delle tre accoglie elementi delle altre e, soprattutto, dell’antica religione popolare.
Il manicheismo e l’islamismo entrarono in Cina durante la dinastia Tang (618-907). Il cristianesimo fu introdotto per la prima volta durante la dinastia Tang nel 635 a opera dei missionari nestoriani e nonostante le persecuzioni riuscì a diffondersi per tutta la C. tanto che Marco Polo ebbe modo d’incontrare comunità di nestoriani. Nel 13° sec., durante l’Impero mongolo, arrivarono missionari francescani. Poi con la caduta dell’Impero mongolo e l’inizio della dinastia Ming nel 1368 ogni traccia di queste missioni, sia nestoriane sia cattoliche, fu cancellata. Nel 16° sec. il cattolicesimo venne introdotto nuovamente a opera dei gesuiti Matteo Ricci e Michele Ruggieri, che riuscirono a entrare nel paese, allora chiuso agli stranieri, seguiti da altri missionari, fra cui i domenicani. La mancanza d’accordo fra i vari ordini e le persecuzioni impedirono la continuazione dell’opera missionaria, che riprese solo nel 19° secolo. Nel 1946 venne costituita la gerarchia ecclesiastica ordinaria e fu nominato il primo cardinale cinese (Thomas Tien). Il numero dei convertiti restava pur sempre piccolo rispetto alla massa della popolazione: a metà del 1948 non toccavano i 3.500.000, contando i catecumeni.
Al momento della rivoluzione le religioni della C. mostravano molti segni di debolezza, soprattutto le creden;ze tradizionali, che presentavano tracce di logoramento già prima del rovesciamento del sistema imperiale e la cui crisi aumentò nei primi decenni del 20° secolo. La prima Costituzione della Repubblica Popolare (1954) sancì la libertà di credenza religiosa, ma la politica del nuovo Stato socialista di netta separazione tra Chiesa e Stato fu interpretata come esclusione della religione dal campo dell’educazione e dai settori vitali della vita sociale. Il governo si riservò inoltre il diritto di ridimensionare e riformare i vari gruppi religiosi: molti monaci buddhisti e taoisti furono eliminati nel movimento per la riforma agraria, che spogliò i monasteri di vasti possedimenti; in pochi anni tutto il personale straniero delle missioni cristiane fu espulso; non pochi sacerdoti e pastori cinesi furono condannati per aver tentato di difendere l’indipendenza o i legittimi interessi delle rispettive Chiese. Nel frattempo, all’interno delle 5 grandi religioni che avevano ottenuto il riconoscimento ufficiale (taoismo, buddhismo, islam, cattolicesimo e protestantesimo), furono costituite delle ‘associazioni patriottiche’, cui era affidato il controllo e la rappresentanza dei rispettivi gruppi. In campo cattolico, la resistenza fu particolarmente forte e fu pagata da molti con il carcere e i campi di lavoro forzato; quando nel 1957 fu costituita l’Associazione patriottica dei cattolici, i vescovi si trovarono praticamente ridotti a una funzione puramente rituale e liturgica, mentre la gestione della Chiesa passava ai comitati dell’associazione; la situazione si aggravò nel 1958, quando vari comitati dell’associazione decisero di eleggere e far consacrare autonomamente i vescovi senza l’approvazione della Santa Sede (fra il 1958 e il 1962 fu eletta una cinquantina di vescovi patriottici). Durante la rivoluzione culturale, ministri del culto e semplici fedeli furono perseguitati a morte; moschee, templi e chiese furono saccheggiati e anche demoliti; preziose biblioteche e opere di inestimabile valore storico distrutte. Intanto la Costituzione del 1975, pur riaffermando il diritto alla libertà di credenza, proclamava nello stesso paragrafo «la libertà di non credere e di propagare l’ateismo». Con la nuova politica instaurata da Deng Xiaoping, anche la religione poté tornare alla luce del sole. La Costituzione del 1982 impegnava lo Stato a garantire l’esercizio del culto e la non discriminazione nei confronti dei credenti. Nella risorgenza del fatto religioso che ne è conseguita, comunque marginale rispetto agli interessi delle masse cinesi, il taoismo, pur numericamente poco cospicuo, esercita un evidente influsso sulla religiosità popolare specialmente nelle zone rurali; il numero dei praticanti è difficilmente calcolabile, ma si contano 1500 templi e più di 25.000 monaci. La vitalità del buddhismo è testimoniata dalla presenza di 13.000 templi, 33 istituti buddhisti e 50 pubblicazioni. I musulmani, diffusi per lo più nelle regioni autonome del Xinjiang e del Ningxia Hui, nelle province del Gansu, Qinghai e Yunnan, gestiscono 30.000 moschee, nelle quali esercitano 40.000 imam. Il cristianesimo ha presentato l’aumento più vistoso di aderenti. Il protestantesimo conta 10 milioni di seguaci, 18.000 pastori, 12.000 chiese e 25.000 sedi di attività. Per i cattolici si parla di 12 milioni di fedeli, ma mancano statistiche attendibili: di questi 5 milioni appartengono alla Chiesa patriottica, gli altri, che si richiamano all’autorità del papa, sono clandestini.
Di fronte alla imprevista crescita delle religioni le autorità hanno moltiplicato restrizioni e controlli, che hanno assunto il carattere di vera e propria persecuzione nei confronti del movimento religioso del Falun Gong, una pratica di meditazione ed esercizi fisici ispirati alle tradizioni buddhista e taoista, definita «culto malvagio», «minaccia per la stabilità sociale e politica».
Si usa distinguere la lingua cinese in ‘parlata’ e ‘scritta’. La lingua cinese parlata (Hanyu), usata dal 97% della popolazione e distinta dalle lingue delle 54 minoranze nazionali riconosciute, è classificata in 7 principali gruppi dialettali, tra i quali il gruppo dei dialetti del Nord (beifanghua) ha costituito la base della lingua nazionale. È monosillabica, spesso i monosillabi sono raggruppati in bisillabi con significato nuovo e diverso da quello dei monosillabi che li compongono. Essa è inoltre politonica: i monosillabi si possono pronunciare in 4 toni diversi che corrispondono a diversi significati.
La lingua scritta, i cui primi esempi risalgono al 5° millennio a.C., è uniforme in tutto il territorio, con l’esclusione delle lingue delle minoranze nazionali riconosciute, ed è ideografica. È costituita da ideogrammi (o ‘caratteri’) che si scrivono in successione regolare (anticamente su linee verticali procedenti da destra verso sinistra, attualmente su linee orizzontali, da sinistra verso destra). Tra i caratteri è riconoscibile una piccola parte derivata da successive stilizzazioni di pittogrammi o ideogrammi che rappresentano direttamente l’oggetto o il concetto che denotano. Gli ideogrammi sono circa 40.000, ma la maggioranza di essi non viene quasi mai usata. Per la lettura dei giornali, riviste, romanzi moderni, opere scolastiche, è più che sufficiente la conoscenza di 8-9000 caratteri. Fino alla rivoluzione del 1911 il mezzo di espressione scritta era il cosiddetto ‘cinese classico’ o ‘letterario’ (guwen), nel 1917 si cercò un nuovo mezzo di espressione scritta che meglio corrispondesse alla lingua comunemente parlata nella maggior parte del paese; questo nuovo mezzo di espressione scritta, sempre mediante ideogrammi, venne chiamato baihua; esso presentava in prevalenza strutture proprie al dialetto di Pechino, che si veniva affermando come lingua nazionale (guoyu) in quanto parlata dai ceti colti della capitale. Con l’avvento della Repubblica Popolare, presentandosi il problema dell’unità linguistica della C., si giunse nel 1955 alla formulazione secondo la quale la lingua comune (putonghua) «ha per base i dialetti del Nord, come pronuncia standard la pronuncia di Pechino e come norme grammaticali quelle delle moderne opere letterarie scritte in baihua».
Il problema della trascrizione fonetica della lingua cinese, e in particolare del dialetto di Pechino, è stato affrontato dagli Europei fin dal 17° sec. e ha prodotto numerosi sistemi di trascrizione fonetica; tra questi sistemi, il più diffuso nell’Europa Occidentale è stato quello dovuto a T.F. Wade, con vocali pronunciate all’italiana, e consonanti pronunciate all’inglese. Anche i Cinesi hanno elaborato diversi progetti di alfabeti fonetici. Nel 1958 è stato adottato un alfabeto fonetico composto di 26 lettere, tutte appartenenti all’alfabeto latino, definito Hanyu pinyin fang’an («schema di alfabeto fonetico della lingua cinese») o, brevemente, pinyin; tale alfabeto fonetico non sostituisce i caratteri (per i quali si procede a successive semplificazioni di scrittura), ma serve principalmente ad annotare foneticamente i caratteri e a diffondere la lingua comune.
Primo documento di sicuro valore letterario è il Shijing («Libro delle odi»), i cui più antichi componimenti sembra risalgano agli inizi del 1° millennio a.C. Il Libro delle odi comprende 305 componimenti e si divide in 3 parti (Feng, Ya, Song), suddivise a loro volta in altre sezioni minori.
Durante la dinastia Zhou (1066-221 a.C.), la prosa si formò nelle opere storiche e annalistiche e a opera di pensatori come Confucio, Mencio, Zhuang Zhou, i quali interessano non solo la storia della filosofia ma anche quella della letteratura, essendo ottimi prosatori. La poesia si elevò a forme più artistiche con l’opera di Qu Yuan che ha lasciato un famoso poema, il Li sao («I tormenti dell’esilio»), oltre ad altre poesie, come il Tian Wen («Domande celesti»), Jiu Ge («I nove canti») ecc., denominate con il termine di Chuci («Elegie dello stato di Chu»).
Durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) si sviluppò un tipo di prosa poetica detto Ci fu: uno dei poeti più noti è Sima Xiangru (m. 118 a.C.). Nel campo della storiografia emerse la figura di Sima Qian autore dello Shiji («Memorie storiche») che servì da modello alle opere storiche seguenti come la storia della dinastia Han (Hanshu). Il periodo che va dalla fine della dinastia Han all’inizio della dinastia Tang fu un periodo di transizione anche in letteratura. Si distingue un poeta, Tao Qian, noto per il suo amore per la natura.
Durante la dinastia Tang (618-907) la poesia (shi) raggiunse la massima perfezione. La sola Quan Tang shi («Collezione completa delle poesie dell’epoca Tang»), pubblicata durante la dinastia Qing, comprende più di 48.900 poesie ad opera di oltre 2200 autori. I 289 anni della dinastia vengono divisi, per quanto riguarda la poesia, in 4 periodi: dell’inizio (618-713); della fioritura (714-766); medio (766-835); della decadenza (836-907). Al secondo periodo appartengono alcuni dei più famosi poeti cinesi, come Li Bai, Du Fu, Wang Wei, Meng Haoran. Il terzo periodo è dominato dalla figura di Bai Juyi; altro grande poeta è Li He. Il quarto periodo, che si accompagna a un periodo di decadenza politica, ha come principali poeti Li Shangyin e Du Mu. Nella prosa (wen) eccellono Han Yu e Liu Zongyuan. Notevole sviluppo ebbero, poi, in quest’epoca la poesia popolare e le novelle brevi.
Con la dinastia Song (960-1279) si diffuse la poesia del metro libero (ci) già conosciuta ad opera dell’ultimo imperatore della dinastia Tang posteriore, Li Yu, e del grande poeta e scrittore Su Shi. Nella prosa è da ricordare Ouyang Xiu e, nel campo della storia, del pensiero e della critica, le figure di Sima Guang, Zhu Xi e Wang Anshi.
Durante la dinastia mongola degli Yuan (1279-1368) si sviluppò l’arte drammatica, sia per l’introduzione di elementi stranieri sia forse perché la classe dei letterati, causa la conquista straniera, si trovò a essere esclusa dagli uffici. Il teatro in quell’epoca era di tipo melodrammatico: i testi dei drammi hanno però un discreto valore letterario, alternando le parti in poesia (cantate) con le parti in prosa (recitate e scritte in uno stile più semplice). Il capolavoro del teatro Yuan è il Xixiang ji («La storia del padiglione d’occidente») di Wang Shifu.
Ai primi anni della dinastia Ming (1368-1644) risale un altro famoso dramma, il Pipa ji («La storia della chitarra») di Gao Ming. Durante la dinastia Ming si assistette al sorgere di varie scuole drammatiche, fra cui la più famosa è quella di Kunshan. La dinastia Ming segnò un periodo di ripresa culturale in ogni campo: come letterato e filosofo è da ricordare Wang Shouwan. Il genere del saggio si diffuse verso gli ultimi anni della dinastia, mentre nel campo della novellistica si ebbero dei capolavori, come i famosi romanzi Shuihu Zhuan («Sulla riva dell’acqua», noto anche in Italia come I briganti) di carattere avventuroso, Jin Ping Mei («Il prugno nel vaso d’oro») di carattere erotico, e Xiyu ji («Il viaggio in Occidente») di carattere fantastico e avventuroso, opera del monaco buddhista Xuan Zang.
La letteratura dell’epoca Qing (1644-1912) è caratterizzata da un grande sviluppo dell’erudizione e della narrativa. È l’epoca delle grandi raccolte di opere classiche e delle più note enciclopedie. Nel campo della narrativa, sono famosi i Liaozhai zhiyi («Racconti fantastici di Liao») di Pu Songling. Il romanzo Rulin waishi («Storia privata del mondo dei letterati») di Wu Jingzi evidenzia, con l’ironia e la spregiudicatezza di un letterato ribelle, l’ipocrisia e il ritualismo del mondo dei letterati ufficiali. Ma il capolavoro del romanzo, e non solo di quest’epoca, è Honglou meng («Sogno della camera rossa»), scritto da Cao Zhan (Cao Xueqin) durante il regno di Qianlong (1735-1796), in cui si descrive la rovina di una grande famiglia feudale. Verso la fine del 19° sec. cominciarono le traduzioni delle opere europee anche in campo letterario, per lo più dall’inglese o dal giapponese.
La caduta dell’impero e l’avvento della repubblica nel 1912 furono seguiti da un profondo rivolgimento culturale, che fu dapprima chiamato Rivoluzione letteraria ma che, dopo la manifestazione studentesca del 4 maggio 1919, finì con l’identificarsi nel Movimento del 4 maggio (wusi yundong). Uno dei principali aspetti del movimento fu quello di promuovere l’adozione in letteratura della lingua parlata (baihua, letteralmente «lingua bianca») contro la lingua classica (wenyan) comprensibile ormai solo da una ristretta cerchia di eruditi. Promotori di questo movimento furono Hu Shi, che si era formato negli USA alla scuola di T. Dewey, e Chen Duxiu. Si ottenne nel 1920 dal governo l’adozione nelle scuole della lingua parlata (detta anche lingua nazionale, o guo yu) fondata grosso modo sulla lingua parlata a N del Chang Jiang. Gli anni 1920 furono caratterizzati dall’avida lettura e traduzione delle opere delle letterature occidentali, alle quali i giovani scrittori cinesi attingevano per sperimentare nuove forme espressive. Corrisponde a questo momento tutto un fervore di iniziative culturali, la nascita di riviste, il formarsi di circoli letterari. Figura centrale dell’epoca fu Lu Xun, non solo per la sua opera di narratore, di poeta, saggista e traduttore, ma soprattutto per la lucidità e modernità dei suoi giudizi. Un’altra figura di primo piano è Guo Moruo, poeta, traduttore, erudito di vastissime conoscenze. La repressione delle sinistre da parte del Guomindang nel 1927 aprì poi una spaccatura nel fronte intellettuale.
Il modello di società cinese proposto dopo la lunga marcia da Mao Zedong prevedeva il recupero della tradizione nazionale popolare (emblematica la diffusione del yangge, o canzone-spettacolo per il trapianto del riso) e una letteratura «al servizio del popolo». Negli anni 1950 si sviluppò la narrativa a sfondo sociale, che trovò, tra gli altri, in Zhao Shuli un autore garbato e colorito di scene di vita contadina, mentre la scrittrice Ding Ling si impose per la robusta qualità dei suoi affreschi corali. In coincidenza con il Grande balzo in avanti si manifestò il fenomeno della poesia di massa che si rifaceva alla tradizione orale, esaltando le risorse creative e produttive del popolo. Con la rivoluzione culturale la produzione letteraria di massa si generalizzò e finì col fissarsi in forme ripetitive, anche per l’eclissi culturale e politica di molti intellettuali. Nella narrativa, tuttavia, si distinguono, per ricchezza di osservazione e vivacità di linguaggio, i romanzi di ambiente contadino di Hao Ran. Grande attenzione, anche a fini propagandistici, fu data al teatro, con la produzione di «opere modello rivoluzionarie», come Hongdeng ji («La lanterna rossa») e Zhiqu wei Hushan («La conquista strategica della montagna della tigre»).
Dalla fine degli anni 1970 si assistette a un rinnovamento generale del panorama culturale. Ai grandi nomi delle vecchie generazioni ancora in attività (come Ba Jin, Ai Qing, Cao Yu) si affiancarono autori più giovani, come il romanziere Wang Meng, nominato nel 1985 ministro della Cultura. La narrativa, specie nella forma del romanzo breve e della novella, dopo una fase di critica amara delle condizioni degli intellettuali durante la rivoluzione culturale (la cosiddetta «letteratura delle cicatrici» o shangba), ha esplorato vari aspetti della vita sociale del paese e, fenomeno più nuovo, aspetti psicologici dei rapporti individuali. In poesia, il movimento detto Menglong, libero nella forma e spesso allusivo o volutamente oscuro nel contenuto, ha suscitato discussioni e appassionati consensi. Anche il teatro ha presentato forme nuove in cui si avverte l’assimilazione di esperienze occidentali (teatro espressionista, intimista). Non va trascurata la fioritura delle letterature delle minoranze nazionali che, dopo l’avvento della Repubblica Popolare, hanno potuto disporre, spesso per la prima volta, di lingue scritte.
Il rinnovamento culturale della fine degli anni 1970 ha dato i suoi frutti nei decenni successivo, facendo emergere nuovi autori e interessanti linee di ricerca sia nel campo della poesia sia nel campo della prosa. In poesia, il movimento detto menlong shi («poesia oscura, indistinta») ha messo in luce poeti di grande originalità formale e di forte individualità. Da segnalare la nuove riviste indipendenti come Jushi niandai («Anni Novanta»), diretta dal 1989 a Chengdu da Xiao Kaiyu, e Xiandai huashi («Poesia cinese contemporanea»). Tra gli autori di larga popolarità, Ye Yanbin, poeta del paesaggio urbano, e Li Xiaoyu, che esprime in una dolceamara vena autobiografica i sentimenti femminili spesso sacrificati alle leggi della società. Tra i poeti delle minoranze nazionali, si è messo in luce Jidi Majia della minoranza Yi, che ha tratto dalla tradizione culturale del suo popolo immagini e ritmi di sorprendente vigore epico.
La narrativa, dopo la fase amara della denuncia delle storture della rivoluzione culturale, ha trovato fonte d’ispirazione nella ricerca dei caratteri più autentici, meno scolastici e ufficiali della tradizione cinese (xungen «ricerca delle radici»). A questa tendenza si possono ascrivere Acheng, Mo Yan, autore, fra l’altro, di Hong gaoliang jiazu (1987; trad. it. Sorgo rosso, 1994), che ha ispirato una raffinata trasposizione cinematografica del regista Zhang Yimou, Feng Jikai, Jia Pingwa. Anche Lingshan («La montagna dell’anima», 1990), il più importante romanzo di Gao Xingjian, premio Nobel nel 2000, è una ricerca nel profondo della memoria, ma la sua complessità formale e di intreccio ne fanno un’opera difficilmente classificabile. Wang Meng (ministro della Cultura dal 1986 al 1989), dopo il romanzo Huodong bian renxing (1988; trad. it. Figure intercambiabili, 1989), in cui si riflettono i mutamenti di mezzo secolo di storia cinese, ha pubblicato un libro tra prosa poetica e racconto fantastico-visionario, Shizijie shan («Sulla croce», 1988), ispirato al tema dell’Apocalisse. Della stessa generazione è Zhang Xianliang, autore del romanzo largamente autobiografico Nanren de ban shi nuren («La metà dell’uomo è la donna», 1985). Un romanzo di successo, nutrito dell’autentico spirito popolare della Pechino nel primo Novecento, è Yanhu (1985; trad. it. Tabacchiere, 1995) di Deng Youmei, che ravviva con piglio picaresco la tradizione dei narratori orali delle case da tè. La scrittrice Can Xue si è fatta notare per l’originalità dello stile tra il surreale e il filosofico di derivazione taoista con i suoi Tiantanlide duihua (1988; trad. it. Dialoghi in cielo, 1991). Notevole il romanzo breve Jinse (1993; trad. it. La cetra intarsiata, 2000) di Ge Fei. Tra i narratori delle minoranze, il tibetano Tashi Dawa ha scritto racconti ambientati nella sua terra, alla ricerca di un’identità dilaniata, rivissuta attraverso la presenza di elementi magici e fantastici. Notevole risonanza sul piano internazionale ha avuto il peculiare intreccio tra letteratura e cinema, cui si devono alcuni tra i maggiori successi degli anni 1990: in questo ambito, oltre al citato Mo Yan, va ricordato Su Tong.
I drammatici avvenimenti del giugno 1989 hanno creato una frattura e un senso di disorientamento tra gli intellettuali cinesi alcuni dei quali, come Bei Dao, Acheng, Yang Lian, Duo Duo, Gao Xingjian, che si trovavano all’estero, hanno scelto di restarvi. Tuttavia l’imponente sviluppo economico, la riassunzione di sovranità cinese su Hong Kong, la diffusione dei mezzi di comunicazione, le relazioni con le comunità della diaspora cinese creano un panorama in evoluzione che non potrà non riflettersi sugli sviluppi della creatività letteraria, stimolata anche da un enorme lavoro di traduzione di opere straniere e dalla diffusione della lingua inglese come lingua di comunicazione internazionale. La produzione editoriale, che ammonta a oltre 100.000 titoli all’anno, ha creato un panorama diversificato nel quale trovano posto opere narrative di larga popolarità e spesso di breve respiro. Gli scrittori più consapevoli e impegnati devono fare i conti non solo con la persistente influenza delle direttive politiche diffuse attraverso le organizzazioni e le riviste culturali ufficiali, ma anche con le leggi del mercato che impongono linguaggio e temi di immediata presa sul pubblico. Parallelamente alla ricerca formale, della quale sono testimonianza sia l’immissione nella lingua letteraria del linguaggio frammentato e gergale delle periferie cittadine sia una rarefatta sofisticazione in senso tradizionale, si assiste a un allargamento dei temi narrativi, con una ripresa, dopo la stagione del soggettivismo quasi ossessivo, di una nuova oggettività che viene definita xiu xianshi («nuovo realismo»). In questo filone la campagna ritrova il suo spazio narrativo in contrapposizione con l’arrogante dominio della città, come nei racconti di Liu Xinglong, considerato lo scrittore di punta di questa corrente.
Già dal tardo Neolitico (4000-2000 a.C. circa) si forma quel linguaggio espressivo che diverrà peculiare della produzione figurativa cinese. Le varie culture si contraddistinguono per produzione ceramica, struttura dei villaggi, lavorazione della giada e poi di altri materiali (bronzo, seta, lacca). Attraverso un lento processo di unitario riconoscimento culturale si assiste all’evoluzione di un gusto e di specifiche modalità di approccio estetico che, almeno per la classe sociale che detiene il potere sacrale e temporale, si risolve nella ritualità e nell’interpretazione del segno simbolico. Nel panorama delle società stratificate tardoneolitiche si nota una spiccata tendenza ornamentale in cui la linea e l’uso comunicativo dell’immagine si configurano come elementi basilari per l’apprezzamento e la comprensione del manufatto. Grande importanza riveste l’evoluzione dei decori e delle forme delle ceramiche dipinte a impasto rosso, della cultura Yangshao (dalle province dello Henan occidentale, Shaanxi centrale, Shanxi meridionale, Gansu, Hebei ecc., 5000-3000 a.C.). Dalla scansione ordinata e costruttiva della fase Miaodigou (Henan, 4° millennio a.C.) con motivi a cerchi, spirali e linee arcuate – ma sono presenti anche motivi figurativi zoomorfi già attestati nel sito di Banpo (Shaanxi, 5°-4° millennio) – si pervenne all’enfasi data al movimento e alla sinuosità di forme nella fase Majiayao (Gansu, inizio 3° millennio), pur non essendo ancora utilizzata la lavorazione al tornio. Quest’ultima componente è fondamentale per la comprensione delle raffinate ceramiche bianche e nere del tardo periodo Dawenkou (Shandong, 4°-3° millennio) e della successiva produzione ceramica di colore nero Longshan, con decorazioni incise e traforate (nello Shandong, ma anche Shaanxi e Henan, 2500-1700 a.C.).
La fase finale del Neolitico (3300-2000 a.C. circa) documenta una vera e propria età della Giada, immediatamente precedente l’età del Bronzo (2000-1000 a.C. circa), con migliaia di oggetti rituali e ornamenti dalle tombe delle classi dominanti. Importanti corredi caratterizzano le culture Hongshan (Liaoning e Mongolia interna, 3500-2500 a.C. circa) e Liangzhu (Zhejiang e Jiangsu, 3300-2200 a.C. circa). Nella prima prevalgono ornamenti lavorati in forme astratte ‘a nuvola’ e pendenti con creature serpentiformi, nella seconda ricorrono emblemi di autorità e oggetti rituali: asce, dischi circolari levigati e forati al centro (bi) e parallelepipedi di altezza variabile, circolari all’interno con decori intagliati esternamente (cong).
A partire dal 2000 a.C. circa, attraverso la produzione dei celebri bronzi, si rivelano altissime capacità tecniche ed espressive. Gli oggetti per la maggior parte svolgevano una funzione rituale, per cuocere, conservare e offrire cibi e bevande; già i reperti recuperati nelle sepolture del sito urbano di Erlitou (Henan, 1700-1500 a.C.), corrispondente, con tutta probabilità, alla dinastia Xia (date tradizionali 2205-1766 a.C.), mostrano un pregevole livello qualitativo.
Eccezionali, per padronanza tecnica, varietà tipologica e uso del modellato, furono i risultati raggiunti nell’epoca Shang (16°-11° sec. a.C.), in cui la fusione avvenne prevalentemente in matrici composite in terracotta; dai pezzi provenienti da Erligang Zhengzhou (Henan, 15°-14° sec.), a quelli di Panlongcheng (Hubei, 1500-1400 a.C. circa), fino ai prodotti dell’ultima capitale della dinastia, Anyang (Henan, 13°-11° sec.), si dispiega un repertorio di temi figurativi, soluzioni ornamentali e classi di oggetti di assoluta bellezza. Le brevi iscrizioni presenti nei bronzi, l’articolata composizione delle strutture palaziali evidenziata dagli scavi, unitamente alla scoperta delle ‘ossa oracolari’ (scapole di bovini e carapaci di tartaruga), incise con pittogrammi e usate per la pratica divinatoria della scapulomanzia, testimoniano la complessità della struttura sociale della dinastia di re-sacerdoti Shang, i quali già praticavano il culto ancestrale degli antenati, riconoscendo in Shang Di il Supremo Antenato. Nell’ampio repertorio figurativo Shang, un’immagine dominante in tutti i tipi di prodotti in bronzo è quella della maschera teriomorfa del taotie, essere mitico con funzione apotropaica; ma la creatività di questo periodo è attestata anche dalle numerose giade intagliate, con figure zoomorfe e umane, sempre trovate ad Anyang. Notevoli testimonianze provengono anche dalla Cina meridionale; i ritrovamenti più importanti sono stati compiuti nel 1986 a Sanxingdui (Sichuan, 1200-1000 a.C. circa), da dove provengono grandi mascheroni con volti antropomorfi in bronzo, forse di divinità da issare su supporti lignei; sempre nello stesso sito è stata recuperata una straordinaria statua in bronzo alta più di 2 metri e mezzo.
La qualità dei bronzi mantenne livelli elevatissimi anche con i Zhou occidentali (1045-771 a.C.) che, deposti gli Shang, stabilirono la capitale vicino l’odierna Xi’an (Shaanxi). Lunghe iscrizioni compaiono nei bronzi, che assunsero il ruolo di doni onorifici, piuttosto che di strumento essenziale del rito; scomparsero alcune tipologie, come quelle correlate alle libagioni con bevande alcoliche fermentate dai cereali, il cui abuso, secondo i Zhou, avrebbe determinato la revoca del mandato celeste (tianming) concesso agli Shang. Ugualmente si assiste alla lenta sparizione del taotie, mentre si osserva un più controllato uso dell’ornamentazione nelle superfici.
Nel 771, dopo il saccheggio della capitale da parte di nomadi, e lo spostamento verso E del centro del potere nei pressi di Luoyang (Henan), si suole iniziare il periodo dei Zhou orientali (770-256 a.C.), in cui si manifestò appieno la frammentazione politica e culturale del territorio; per questa differenziazione, che si riflette nella produzione artistica dei singoli Stati, sempre più svincolati dal potere centrale, è preferibile seguire la divisione in ‘Primavere e Autunni’ (770-476 a.C.) e ‘Stati Combattenti’ (475-221 a.C.). Nella prima fase, in cui già si attestò l’uso del ferro, le tecniche di fusione del bronzo, utilizzando anche quella della ‘cera persa’, progredirono ulteriormente; alcune spade da Changsha (Henan) risultano fatte di acciaio al carbonio naturale. Le sepolture delle varie corti propongono uno sfarzo inusitato, come testimoniano le sontuose sete ricamate di Mashan (Hubei, 4°-3° sec.), le lacche di Leigudun e Baoshan (Hubei, 5°-4° sec.), i pettorali in giada e le fibbie, intarsiate in oro, argento e pietre dure, insieme con l’uso sempre più frequente dell’agemina nei bronzi. I reperti del grande Stato meridionale di Chu mostrano straordinari risultati tecnici ed elaborati effetti coloristici, segno della creatività e dei progressi raggiunti, riconoscibili nel corredo funerario della tomba del Marchese Yi di Zeng, rinvenuto nel 1978 a Leigudun (Hubei, 5° sec.). Nell’architettura funeraria il ritrovamento, avvenuto tra il 1974 e il 1978, della pianta incisa in una lastra di bronzo del complesso funerario di Pingshan (Hebei, fine 4° sec. a.C.) rivela l’ostentazione della ricchezza e del fasto, oltre che la complessità delle strutture.
Una svolta epocale si concretizzò nel 221 a.C., quando il re Zheng di Qin sconfisse il potente regno di Chu, unificando forzatamente la C. e assumendo il titolo di Qin Shi Huangdi «Primo Augusto Imperatore» della dinastia Qin (221-206 a.C.). Oltre allo sviluppo architettonico – testimoniato dai resti archeologici della nuova capitale Xianyang (Shaanxi, a NO di Xi’an) – di particolare importanza rimane l’avvio dell’operazione di unificazione culturale, politica e sociale fortemente imposta.
Il suo nome è ormai legato alla scoperta, avvenuta nel 1974 nella zona di Lintong a est di Xi’an, dello straordinario Esercito di terracotta, destinato a vegliare sul riposo eterno dell’imperatore, in prossimità del tumulo sulla camera funeraria, rimasta inviolata. Il grandioso complesso, su un’area di oltre 56 km2, fu iniziato sin dal 246 e non era ancora compiuto alla sua morte nel 210. In prossimità del tumulo sono grandi fosse, di cui la nr. 1 è la più ampia e famosa, nel cui interno sono disposti in file parallele i vari reparti dell’esercito: centinaia di cavalli e migliaia di personaggi, già in terracotta dipinta, ciascuno differenziato in alcuni particolari anatomici o di abbigliamento.
Dopo la rapida dissoluzione dei Qin, la dinastia Han proseguì il lungo processo di omogeneizzazione culturale.
Con gli Han occidentali (206 a.C.-23 d.C.) s’impostò una grande espansione territoriale che porterà nel 1° sec. a.C. al controllo dei traffici commerciali lungo un amplissimo tratto della Via della Seta; le manifestazioni artistiche legate al mezzo serico caratterizzano fortemente l’arte Han. Straordinario esempio di tecnica pittorica e documento riguardante le credenze sull’aldilà nel 2° sec., è sicuramente lo stendardo in seta, recuperato nel 1972 nella tomba della marchesa di Dai a Mawangdui (Hunan), insieme con altri resti di sete ricamate e tessute, manufatti in legno laccato e dipinto, specchi in bronzo e statuine lignee dipinte. Lo splendore della vita della corte degli Han, la cui capitale era Chang’an (od. Xi’an), è testimoniato anche da sontuosi corredi funerari con bruciaprofumi, lampade e oggetti in bronzo, come quelli del principe Liu Sheng e della consorte, della fine del 2° sec., riportati alla luce nel 1968 a Mancheng (Hebei); i corpi dei coniugi sono interamente rivestiti da un sudario di tessere in giada legate tra loro da fili in oro argento e rame, come le oltre 40 sepolture di rango elevato scoperte poi in altre località. La grande statuaria in pietra annovera, infine, gli esemplari imponenti, seppur statici, risalenti al 117 a.C., posti presso il tumulo del generale Huo Qubing vicino a Xi’an, a ricordare le prime vittorie cinesi sulle popolazioni nomadi.
Nel periodo degli Han orientali (24-220) problemi di sicurezza comportarono lo spostamento della capitale a Luoyang, mentre evolvevano le tecniche e l’ornamentazione degli specchi in bronzo e nella lavorazione dei tessuti serici, tramite indiretto di comunicazione con l’Impero romano. Seguendo i tracciati della via carovaniera, ma nella direzione opposta, iniziò verso il 1° sec. d.C. la penetrazione del buddhismo, come testimonia la fondazione nel 68 del Monastero del Cavallo Bianco (Baimasi), poco lontano dalla capitale. Nell’ambito della sempre più articolata produzione ceramica, si amplificò la diffusione delle statuine e manufatti funerari noti come mingqi («oggetti splendenti», o «dell’anima»), prevalentemente in terracotta; essi documentano la cultura materiale, i costumi e gli esiti della perduta architettura in legno. Dalle sepolture provengono mattonelle ceramiche impresse che attestano un potente dinamismo figurativo, così come si evince il gusto della linea nei pochi superstiti esempi di pitture parietali, di mattonelle dipinte, pietre incise e lacche decorate.
La frantumazione politica e culturale, che contraddistinse il lungo periodo dal 220 al 581, si riflette nelle varie manifestazioni artistiche delle diverse corti settentrionali e meridionali che perseguirono linee di sviluppo diversificate. L’aspetto più rilevante, ancora oggi avvertibile nel Nord, è dato dall’incontro con l’arte buddhista che giunse in territorio cinese tramite le vie carovaniere centro-asiatiche, ma anche da quelle marittime, attraverso la mediazione delle regioni dell’Asia sud-orientale. Nel 5° sec., dato il favore accordato al buddhismo dai Wei settentrionali (386-535), si realizzarono molte delle preziose opere plastiche in argilla, ma soprattutto pittoriche, conservate nelle Grotte dei mille Buddha di Mogao, presso Dunhuang (Gansu), in cui già si lavorava sin dalla seconda metà del 4° sec.; dal 460 in poi videro la luce le prime colossali statue in pietra arenaria nelle grotte principali del complesso rupestre di Yungang, vicino a Datong (Shanxi), la capitale dei Wei (almeno fino al 493), con i loro massicci volumi e le forme rigide e ieratiche di grande potenza. Dopo lo spostamento della capitale a Luoyang si iniziò verso il 495 a scavare dalla roccia di calcare il complesso rupestre di Longmen (Henan); centinaia di grotte, che giungono fino all’8° sec., documentano gli sviluppi stilistici della scultura buddhista cinese, sottoposta anche a nuovi influssi indiani.
Il Sud invece, nell’ambito delle raffinate corti della capitale meridionale di Nanchino (Jiangsu), vide il fiorire, a partire dal 4° sec., di una produzione pittorica, per la quasi totalità perduta ma recuperabile attraverso qualche lacerto, copie posteriori, più o meno attendibili, e la conservazione degli scritti del tempo. Un cauto esame comparativo con manufatti provenienti da tombe, le copie di alcuni celeberrimi rotoli del pittore e teorico Gu Kaizhi (sec. 4°-5°) e la lettura di alcuni trattati, massimamente l’interpretazione dei 6 canoni di Xie He (sec. 5°-6°), consentono di ricostruire gli aspetti salienti della pittura tra il 4° e il 6° sec., nonché dell’arte calligrafica, anch’essa quasi totalmente perduta.
La riunificazione tra Nord e Sud operata dai Sui (581-618) darà i suoi frutti sotto la dinastia Tang (618-907), epoca di massimo splendore artistico e culturale. Le manifatture ceramiche progredirono ulteriormente nelle elaborate invetriature piombifere, passando attraverso le delicate sfumature delle opere Sui, per giungere dopo la metà del 7° sec. alla famosa produzione sancai (ceramica ‘a tre colori’) e delle prime porcellane (ci). Specchi in bronzo, sete, manufatti in oro e argento, oltre alla produzione fittile, documentano un cosmopolitismo aperto a influssi iranici e occidentali. Anche l’architettura e le soluzioni urbanistiche della capitale, già impostata in epoca Sui, testimoniano la magnificenza della Chang’an dei Tang, con i suoi sfarzosi templi, l’ordinato reticolo viario e la scansione degli isolati simmetricamente disposti nella bipartizione data dall’asse mediano nord-sud. Pochi resti superstiti in territorio cinese, a causa del tradizionale impiego preminente del legno, e l’esame di strutture giapponesi coeve, o di poco più tarde, permettono di tentarne un’ideale ricostruzione. Malgrado i sensibili interventi di ristrutturazione e restauro, la Dayanta (Grande Pagoda dell’Oca Selvatica) dell’antica Chang’an, costruita nella metà del 7° sec. in muratura, a più piani digradanti verso l’alto, rimane un nobile esempio di una delle più importanti tipologie legate al buddhismo. Nel 672-75 si scolpì la potente figura del Buddha centrale con il gruppo di monumentali figure del tempio Fengxian a Longmen, mentre imponenti se non sempre espressive, risultano le statue di grandi animali posti a protezione delle tombe imperiali del 7°-8° sec., presso Xianyang e Qianling (Shaanxi). La produzione pittorica assurse ai più alti livelli, influenzando anche altre civiltà. Oltre alle più tarde copie di capolavori perduti, alle opere eseguite in Giappone e alle testimonianze letterarie, sono le pitture parietali, ma anche i dipinti su seta, di Dunhuang dall’epoca Sui ai Tang, compreso il periodo dell’occupazione tibetana nell’area (760-848), a documentare la varietà di soluzioni figurative, cui vanno aggiunti gli ‘affreschi’ di eccellente qualità e freschezza inventiva di alcune tombe imperiali; dalla fine dei Sui si segnalano, infine, i primi esempi di stampe xilografiche.
Il travagliato periodo che segue alla rovinosa caduta dei Tang, detto comunemente delle ‘Cinque Dinastie’ (907-960), vide l’affacciarsi sulla scena pittorica dei primi grandi maestri del paesaggio, genere già ampiamente praticato ma che raggiunge ora arditi risultati nell’impianto spaziale dei maestosi scenari naturali, rappresentati in rotoli prevalentemente verticali, in rari casi giunti in originale. Virtuosi dell’arte calligrafica e sottili pittori di genere contribuirono allo sviluppo del fare pittorico, mentre si realizzarono xilografie sempre più complesse e a più colori. Contemporaneamente andarono formandosi al Nord Stati retti da dinastie di origine straniera – prima i Liao (907-1125) e poi Jin (1125-1234) – la cui arte si lega essenzialmente al buddhismo, tanto nell’architettura, quanto nella scultura in bronzo, in ceramica, lacca secca e in legno, e in parte anche nella pittura parietale.
Gli esiti di questo articolato fermento culturale trovarono la loro più completa espressione nell’arte, fiorita al tempo della dinastia Song e divisa in due grandi momenti: quello dei Song settentrionali (960-1127) con capitale Kaifeng (Henan), e quello dei Song meridionali (1127-1279) con capitale Hangzhou (Zhejiang). La scultura lignea, le lacche, la metallistica e la tessitura ancora oggi contano capolavori di squisita sensibilità, ma è nella produzione ceramica e in quella pittorica e calligrafica che l’arte Song ha colto i più felici risultati; se la coroplastica s’impone per il valore tattile, il senso plastico delle forme e dei decori, insieme con le multiformi sfumature e gradazioni delle vetrine di porcellane, celadon e ceramiche, l’arte del pennello dispiega un eccezionale repertorio di temi e di modalità compositive, documentate da un numero un poco più ampio di originali. I pittori dei Song settentrionali proseguirono e perfezionarono gli spunti dell’epoca precedente, intensificando quel rapporto tra l’attività della riflessione filosofico-religiosa e la pratica pittorica. I ‘pittori-letterati’ (wenren), in molti casi abilissimi calligrafi, si cimentarono, oltre che con il paesaggio, con temi legati al bambù e ai fiori e uccelli, creando opere che saranno modello per le generazioni successive. Nuove strade furono intraprese anche da alcuni dei migliori esponenti dell’Accademia di pittura, ricostituita verso la metà del 12° sec. alla corte dei Song meridionali, seguiti poi dalle creazioni dei pittori legati al buddhismo Chan.
Nei circa 100 anni di dominio dei Mongoli, che assumono il nome dinastico di Yuan (1271-1368), gli artisti e i letterati – in larga parte dissenzienti – pervennero spesso a un recupero della tradizione, sviluppando in alcuni casi un accentuato arcaismo; se la plastica, però, ripeté debolmente le sintesi Tang, la pittura e la ceramica si segnalano per gli elevati esiti formali ed espressivi. Dei grandi maestri Yuan si sono conservate, oltre alle copie, diverse opere autografe, in cui è possibile rintracciare il percorso stilistico delle singole personalità; la vitalità della pittura Yuan si esplica nei temi del paesaggio, della rappresentazione dei cavalli (particolarmente amati dai Mongoli), del bambù o dei fiori di susino, in cui si allude spesso alla capacità di sopportare tempi difficili, in vista del risveglio di un orgoglio nazionale.
Nella produzione ceramica, oltre ai celadon, in varie tonalità di verde, prodotti a Longquan (Zhejiang), esportati nell’area orientale e verso i mercati occidentali, andarono imponendosi le porcellane di Jingdezhen (Jiangxi), uno dei centri più importanti nell’arte ceramica fino alle soglie del 19° sec.; nel 14° sec. le porcellane qinghua, bianco e blu (in ossido di cobalto sotto coperta) furono sempre più apprezzate. Quasi nulla rimane di Khān bālīq, la capitale degli Yuan, ma con la sua fondazione il centro del potere e del controllo imperiale si sposta a nord, nell’area di Pechino.
Inizialmente, con la restaurazione Ming (1368-1644), Nanchino tornò a essere per l’ultima volta capitale dell’impero (1356-1420); si conservano nella zona le tombe ipogee dei primi imperatori Ming e l’imponente cinta muraria. Nel primo quarto del 15° sec. si edificò la nuova capitale, Pechino, dalla pianta ordinata e regolare, mura possenti, oggi scomparse, templi – come il Tian Tan («Tempio del Cielo», il cui edificio più famoso è il Qinian dian, il Padiglione della preghiera per il buon raccolto, più volte restaurato), a tre terrazze circolari sovrapposte, raccordate da scalinate e circondate da balaustrate di marmo, con il tetto in tegole azzurre – e il complesso della Città proibita (Gugong), disposta secondo un asse nord-sud con la successione di sontuosi padiglioni. Una monumentale shendao (via degli spiriti) si dispose in direzione dei mausolei imperiali Ming, nei pressi di Pechino; malgrado l’imponenza di quest’opera, nel complesso la statuaria rivela minore vigore e potenza d’espressione rispetto agli esiti di Nanchino. Ma l’opera eccelsa del periodo Ming riguarda il ripristino della Grande Muraglia (Wanlicheng, «muro dei diecimila li») che assunse l’aspetto definitivo di costruzione militare in mattoni e pietra.
Nella pittura del primo periodo Ming due scuole dominano la scena artistica: la prima, Zhe, risulta tendenzialmente più accademica, anche se di grande equilibrio, la seconda, Wu, esprime maggiore vigore espressivo e libertà creativa. La distinzione in due scuole, una del Nord, l’altra del Sud, sarà codificata verso la fine del 16° sec. dal pittore e teorico Dong Qichang. Nella produzione di porcellane di Jingdezhen, oltre ai migliori risultati decorativi e compositivi dei pezzi bianco e blu, si assiste anche alla creazione di pregevoli decori policromi.
Con l’ultima dinastia mancese dei Qing (1644-1912) la pittura ebbe una stagione intensamente creativa tra 17°-18° sec., sia attraverso l’opera dei ‘pittori accademici’, fedeli alla tradizione secolare, sia nei rivoluzionari rotoli degli ‘individualisti’ che raggiunsero risultati espressivi di sorprendente modernità.
In architettura, nell’ambito delle collaudate soluzioni tecniche e formali tradizionali, appesantite in taluni casi da un gusto esornativo e sovrabbondante (Palazzo d’Estate, Yiheyuan; Tempio dei Lama, Yonghegong; parti della Città Proibita a Pechino), si rilevano scelte stilisticamente più essenziali, come nelle residenze imperiali di Chengde (Hebei) e di Shenyang (Liaoning), più consone alla tradizione mancese, accanto a echi tibetani, data l’adesione della corte dei Manciù al buddhismo lamaista (templi di Chengde, o lo Stupa Bianco del parco Beihai a Pechino). L’adozione di un linguaggio eminentemente europeo si riscontra nelle rovine degli edifici di stile occidentale (Xiyanglou) nel parco imperiale Yuanmingyuan (Il Giardino del Perfetto Splendore) a NE di Pechino, commissionati al pittore-architetto gesuita Giuseppe Castiglione (1688-1766), detto in C. (dove visse dal 1715) Lang Shining. Anche i suoi dipinti testimoniano il tentativo di fusione di modelli cinesi con linguaggi e tecniche occidentali.
Le arti applicate (intagli in pietre dure, lacche, smalti cloisonné, tessili, bronzetti) conobbero sempre nel 18° sec. una splendente fioritura sotto la protezione imperiale, mentre la produzione di porcellane, prima del declino generale delle arti nel 19° sec., visse l’ultima grande stagione grazie alla creatività dei vasai di Jingdezhen, che realizzarono eccellenti ‘bianco e blu’, straordinari policromi (usualmente indicati in Occidente nella distinzione tra ‘famiglie’, verde, rosa, nera ecc.) e monocromi; le manifatture di Dehua (Fujian) si specializzarono nei cosiddetti Blanc de Chine, mentre a Yixing (Jiangsu) si perfezionarono i gres di colore purpureo.
Dagli inizi del Novecento, malgrado il crollo di un millenario ordine politico, sociale e culturale con l’avvento del modello repubblicano nel 1912, si percepisce nella pittura e nelle arti grafiche un rinnovato fervore creativo, alimentato anche dal confronto, più o meno diretto, con le più avanzate tendenze occidentali. Lungo tutto il 20° sec., la maggior parte dei grandi maestri della pittura rinnovò coscientemente e originalmente la tradizione. Altri sensibili interpreti, pittori e scultori, si mossero sempre più nel solco delle avanguardie europee, ma è indubbio il peso assunto dall’influenza del realismo socialista, imposto con la Repubblica Popolare nel terzo quarto del secolo. Anche l’architettura subì una trasformazione radicale e profonda. Al gigantismo magniloquente delle opere ispirate ai modelli sovietici, come la sistemazione della piazza Tiananmen («Porta della Pace Celeste»), si aggiunse il verticalismo di costruzioni spesso di scarso rilievo estetico.
Negli ultimi anni del secolo si è assistito tuttavia alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi linguaggi, non solo di ispirazione occidentale ma di intenzione propulsiva nell’ambito di un mercato globale. Agli istituti preposti allo sviluppo delle arti (l’Accademia centrale di belle arti di Pechino o di altre città) si sono contrapposti nuovi luoghi di aggregazione e confronto; esemplare è il caso della fabbrica occupata a Pechino, denominata Factory 798 (Qijioba), luogo imprescindibile di un nuovo modo di fare arte. Da tempo gruppi d’avanguardia (il primo, Xingxing «Le Stelle», risale al 1979) e singole personalità propongono installazioni, come quelle di Cai Guo-Qiang, performance, video, body art. In questo articolato contesto s’inseriscono le presenze sempre più consistenti di artisti cinesi alle maggori rassegne internazionali.
Nel campo dell’architettura e dell’urbanistica la corsa all’occidentalizzazione ha avviato un’immensa opera di costruzione che ha interessato i principali centri urbani. Sul modello della riacquisita Hong Kong, in particolare Shanghai, in qualità di centro industriale e finanziario, ha avuto uno straordinario sviluppo edilizio, spesso frutto di progetti di architetti stranieri. Molti anche gli stranieri chiamati a operare in altre città cinesi. Fra i più noti si ricordano: il francese P. Andreu, autore del nuovo Teatro dell’Opera a Pechino (1999-2003) e del complesso sportivo costruito a Canton in occasione dei IX Giochi nazionali (1998-2001); lo studio tedesco von Gerkan, Marg & Partners, responsabile della sede della scuola tedesca a Pechino (1998-2001); i giapponesi Arata Isozaki (centro culturale a Shenzhen, dal 1997-2005) e Shin Takamatsu (Museo Nazionale di Tianjin, presso Pechino, 2001, in collaborazione con Mamoru Kawaguchi); lo statunitense di origine cinese Ieoh Ming Pei (Cyber City a Shenzhen, un esteso parco tecnologico progettato in collaborazione con lo studio Sherman Kung & Partners di Hong Kong, dal 2001); la sede centrale della televisione cinese CCTV di R. Koolhaas e OMA (2008) e una serie di edifici tecnologicamente e formalmente d’avanguardia legati ai Giochi Olimpici di Pechino del 2008 (il complesso con piscina Water Cube, progettato dallo studio australiano PTW Architects; lo Stadio olimpico nazionale di Herzog e de Meuron ecc.).
La musica comparve in C. con le più antiche memorie della civiltà. Attraverso i secoli, si ebbe una fioritura di musiche strumentali e vocali molto raffinate. Le prime si giovarono soprattutto del liuto a 5 o 7 corde, detto qin. Delle musiche vocali, la maggior parte appartenne al genere teatrale, e si sviluppò nei drammi e nelle commedie del periodo mongolico (dinastia Yuan), del quale ci sono giunti centinaia di libretti con recitativi e parti cantate. Importante fu la produzione moderna dal 16° al 19° sec. in cui la musica dei drammi era accompagnata con il flauto.
Nella produzione teatrale dell’ultimo periodo, dalla metà del 19° sec., si avvertono nuovi indirizzi stilistici, ove la musica assunse un carattere più passionale. L’accompagnamento non è più con il flauto ma con uno strumento a corda. Tale nuovo genere teatrale fu detto jinoxi o Teatro di Pechino. Dall’inizio del 20° sec., musicisti popolari come Nie Er (1912-1935), Xian Xinghai (1905-1945) e, per l’opera lirica, Ma Ke (1918-1976), fusero elementi della musica occidentale con la tradizione cinese.
Base della musica cinese è la scala diatonica: in 5 gradi determinati per quinte (ravvicinati come nella serie do-re-mi-sol-la) nella musica antica e nell’odierna del Sud; in 7 gradi (analoga a do-re-mi-fa disesis-sol-la-si) dall’epoca Zhou (1066-221 a.C.) in poi. Queste scale possono essere trasportate su ognuno dei 12 gradi della scala semitonale. La ritmica è quasi sempre binaria (o quaternaria). Gli strumenti che si trovano fin dall’antichità sono: campane, pietre sonore, tamburi, liuti a 5 o 7 corde (qin) e a 25 (shi), flauti a 2 canne (guan), a 13 o 19 canne (sheng), simili a piccoli organi a bocca ecc.
Dopo la parentesi di isolamento negli anni della rivoluzione culturale, dai primi anni Ottanta la vita musicale in C. ha subito un deciso mutamento di rotta, grazie anche alla progressiva apertura all’Occidente. Tra gli autori più interessanti nati negli anni 1950 vi sono Tan Dun (il più celebre in Occidente), Qu Xiaosong e Guo Wenjing. Dalla fine degli anni 1990 si è assistito a una progressiva espansione degli spazi dedicati alla musica di consumo, nei grandi filoni internazionali pop e rock, con l’inaugurazione, per esempio, di molti siti web dedicati alla musica, veicolo di comunicazione con le fasce giovanili del resto del mondo.