(tibetano Bod) Regione storico-geografica (1,5 milioni di km2 ca.) dell’Asia centrale, politicamente appartenente per la quasi totalità alla Cina e in piccola parte, nella sezione sud-occidentale, all’India (Ladakh); la parte in territorio cinese è formata da una regione autonoma denominata ufficialmente Xizang (1.221.600 km2 con 2.740.000 ab. nel 2005; capitale Lhasa), dal margine meridionale del Xinjiang Uygur, dal Qinghai, da parte del Gansu sud-occidentale, del Sichuan occidentale e dello Yunnan nord-occidentale.
Noto agli Occidentali, per conoscenza diretta, dal 14° sec. (viaggio di Odorico da Pordenone), solo nel 17° sec. se ne ebbero le prime notizie organiche, a opera di missionari francescani e gesuiti, e più ancora dopo il viaggio di I. Desideri, nella prima metà del 18° sec. Nel corso del secolo seguente viaggiatori europei e indiani percorsero la regione, ma solo con le esplorazioni di S.A. Hedin, tra la fine del 19° sec. e l’inizio del 20°, si raggiunse una conoscenza sistematica, sebbene incompleta, del T., precisata poi da varie altre spedizioni, fra le quali vanno segnalate quelle, numerose, di G. Tucci.
Il T. costituisce un vastissimo sistema di alteterre dall’elevazione media superiore ai 4500 m s.l.m., approssimativamente circoscritto dalle catene del Karakoram e del Himalaya a S e del Kunlun a N, e rapidamente digradante verso la pianura cinese a E; ha forma pressoché ovale, con asse maggiore di circa 2600 km e minore di 1300. L’intera regione è percorsa da catene e rilievi fortemente erosi e arrotondati nella parte centrale, profondamente scavati dall’azione delle acque correnti (che si alimentano in gran parte da vasti ghiacciai) lungo i bordi esterni.
La distanza dal mare e la presenza di bordi rilevati impediscono l’afflusso di aria umida, salvo che nelle parti meridionali e propriamente periferiche, raggiunte dai monsoni; qui le precipitazioni possono superare i 1500 mm annui, concentrati nei mesi estivi. Le aree centrali del T., invece, sono caratterizzate da un’aridità marcata (fino a meno di 200 mm di precipitazioni), assenza di scorrimento superficiale di acque nella parte centro-occidentale e settentrionale (deserto di Qaidam), bacini endoreici. Le temperature offrono violente escursioni, sia diurne (in estate, da oltre 25 °C a oltre −10 °C) sia annue (con minimi invernali che superano i −40 °C), escursioni che si abbassano nelle valli dell’Indo e del Brahmaputra, dove le quote scendono anche sotto i 2000 m s.l.m.; a Lhasa (3650 m s.l.m.) la media di luglio è di 19,5 °C, quella di gennaio −2,8 °C. Numerosi i laghi, in prevalenza salati e senza emissario nell’area centro-settentrionale, dolci e con emissario verso i margini della regione.
Al bordo meridionale dell’altopiano del T. si aprono le valli scavate dagli alti corsi dell’Indo e del Brahmaputra, mentre il versante orientale è solcato trasversalmente da numerosi importanti fiumi che scendono alla Penisola Indocinese e alla pianura cinese (alti corsi del Salween, del Mekong, del Chang Jiang, dello Huang He).
La flora del T. è composta prevalentemente da specie mongoliche e himalaiane e da altre tipiche delle regioni steppiche, che si ritrovano dal Caspio fino al Pamir e al T.; la vegetazione in complesso è poverissima per l’aridità e per il suolo ciottoloso o roccioso; in molte montagne mancano del tutto le foreste e le piante legnose sono ridotte a pochi arbusti. Quanto alla vegetazione coltivata, si hanno in prevalenza cereali (orzo, avena, frumento, grano saraceno), il cui limite altimetrico in genere non supera i 4400 m; nelle vallate più calde si coltivano alberi da frutto (meli, peschi, noci ecc.).
La fauna è interessante per alcune specie peculiari, ma in complesso offre le caratteristiche della regione paleartica. Tra i Mammiferi, si trovano alcune scimmie, l’orso (raro), l’irbis (o leopardo delle nevi), varie pecore e capre selvatiche e altri bovidi, tra cui il budorcade (o takin), della sottofamiglia caprini, e lo yak (➔).
4. Geografia umana ed economica
La densità del T. è mediamente bassissima (2 ab./km2) e in realtà quasi nulla nell’area centro-occidentale; modesti addensamenti si incontrano lungo il margine meridionale, in corrispondenza dei solchi vallivi dell’Indo e del Brahmaputra, e nella sezione nord-orientale (specialmente nella provincia del Qinghai), dove sorgono i centri urbani più rilevanti. Una non trascurabile aliquota della popolazione tibetana vive al di fuori del T. di sovranità cinese (gli abitanti delle zone del T. ricadenti in territorio indiano e i circa 2.000.000 di Tibetani emigrati.
Il notevole aumento di popolazione (il 20% ca.) manifestatosi nella regione autonoma è dovuto soprattutto all’immigrazione da altre aree cinesi e riguarda solo in modestissima misura la popolazione autoctona, il cui saldo naturale non è molto elevato e che per di più alimenta correnti emigratorie. Dal 1951, e più intensamente dagli anni 1970, si è assistito infatti a una crescente immigrazione dalle altre regioni cinesi, composta sia di militari, sia di coloni addetti allo sfruttamento delle risorse agricole e di operai e tecnici impiegati nelle attività industriali, mentre, parallelamente, si sono susseguite varie ondate emigratorie di Tibetani, partiti, spesso clandestinamente, in direzione per lo più dell’India, ma anche di alcuni paesi occidentali, per motivi economici oppure politici.
Le tradizionali attività economiche sono rappresentate dalla coltivazione di orzo, riso di montagna, ortaggi e frutta, soprattutto nelle valli, dove è praticata l’irrigazione, e dall’allevamento di yak, ovini, caprini e cavalli nell’area interna. A partire dal 1951, tuttavia, la spinta alla modernizzazione impressa dal governo cinese ha portato alla modificazione delle condizioni economiche tradizionali, a cominciare da quelle strutturali: la maggior parte delle terre agricole in T. era proprietà dei monasteri; mancavano le vie di comunicazione con l’esterno, l’industria, la produzione e distribuzione dell’energia; lo sfruttamento delle risorse boschive e di quelle minerarie era praticamente nullo. Le attività in questi settori, intraprese con personale cinese, hanno portato alla costruzione di centrali idroelettriche, all’apertura di strade carrozzabili (in direzione del Xinjiang Uygur, del Qinghai, del Sichuan, del Sikkim, del Nepal, del Pakistan), di un collegamento aereo e di una ferrovia tra Lhasa e Pechino, alla nascita di un nucleo industriale (specie nella capitale: industria tessile, alimentare, chimica), allo sfruttamento silvicolo (nel Nord-Ovest e nel Sud), all’individuazione di giacimenti minerari (rame, carbone, ferro, grafite). Lo sviluppo economico del T., a ogni modo, permane molto problematico per una serie di ragioni: in primo luogo, il disinteresse e l’attiva resistenza che la popolazione tibetana mostra nei confronti di una modernizzazione imposta dal governo centrale cinese; l’esiguità di un vero mercato interno; la morfologia e la posizione della regione, difficile da percorrere ed enormemente distante dai possibili mercati di sbocco dei suoi prodotti; infine, la stessa preoccupazione del governo di Pechino di non consentire al T. un contatto agevole con le aree più accessibili (in pratica, gli Stati himalaiani e della regione indiana), per non alimentarne i sentimenti autonomistici o indipendentistici già vivissimi.
Gli abitanti autoctoni del T., a seconda del tipo di esistenza che conducono, possono essere distinti in nomadi e sedentari. I gruppi nomadi (Ciang-pa, Drupa, Hor-pa, Sok-pa) vivono nelle vaste solitudini del centro e del Nord-ovest e praticano la pastorizia (ovini e yak). La loro tenda tradizionale, usata ancor oggi (rebò), a forma poligonale, è fatta di un tessuto di pelo di capra o di yak, di colore nero, sostenuto da bastoni e da corde, ed è circondata da muriccioli che fungono anche da recinto per il bestiame. I sedentari abitano in case quadrangolari, spesso a due piani, dai muri di pietra o di mattoni non cotti, cementati con mota; il tetto è a terrazzo.
I Tibetani sono di regola monogami, occasionalmente poliginici, ma praticano anche una forma classica di poliandria: la giovane che sposa il figlio maggiore di una famiglia è di diritto sposa anche dei fratelli minori del marito.
Difficile precisare i mutamenti prodottisi nella struttura sociale tibetana dopo l’inserimento della regione nella Repubblica Popolare di Cina essendo assai complesso, se non impossibile, condurre ricerche nell’area. Prima dell’annessione la società presentava una stratificazione di classi (nobili, commercianti, contadini, pastori, monaci), tra le quali quella monacale (1/8 della popolazione) esercitava un potere decisamente forte, che conferiva allo Stato tibetano il suo tipico carattere teocratico.
Vari erano i riti funebri: i poveri erano gettati nei corsi d’acqua, le vittime di malattie epidemiche venivano inumate, mentre le salme dei religiosi o dei più abbienti erano cremate oppure abbandonate ai corvi e agli avvoltoi, spesso dopo che ne era stato staccato il cranio, destinato agli usi del culto. I resti del defunto venivano poi collocati in una cappella votiva (mchod rten).
Diviso fra vari staterelli, il T. fu unificato ai primi del 7° sec. dal re Srong btsan sgam po. L’8° sec. vide la penetrazione del buddhismo indiano e una serie di guerre contro la Cina per il possesso del bacino del Tarim. Con l’inizio del 9° sec. la monarchia decadde e nell’841 si dissolse, mentre il buddhismo cedeva il campo alla religione nazionale, il Bon. Dal 10° sec. si ebbe un frazionamento politico di tipo feudale, in assenza di un’autorità centrale; si ebbero inoltre intensi contatti con l’India e il consolidarsi dello studio dei testi buddhisti, fino all’introduzione definitiva del buddhismo indiano nel 11° secolo. Da allora il T. ebbe scarsi rapporti con l’esterno. Nel 13° sec. il T. dovette riconoscere la suzeraineté (➔) dei Mongoli, che affidarono il governo del paese agli abati di Saskya; al declino mongolo (metà del 14° sec.) fece seguito una fase di lotte interne tra i signori feudali in lotta per la supremazia, mentre un rinnovato fervore religioso segnò la nascita dell’ordine dei ‘berretti gialli’ ispirato da Tsong Khapa (➔), che divenne la principale forza spirituale e politica; nel 1642 il capo mongolo Gushri Khan, che aveva conquistato il paese, investì del potere temporale il capo supremo dell’ordine, il 5° Dalai-lama. Una breve conquista zungara (1717-20) portò all’intervento della Cina; l’epoca del protettorato mancese (1720- 1912) vide l’assetto definitivo del governo tibetano, che accettò infine il consolidamento del potere temporale del Dalai-lama sotto la suzeraineté cinese (1751). Nel corso del 19° sec. il controllo cinese sul T. si indebolì, mentre dalla fine del secolo aumentarono le pressioni inglesi per aprire il paese al commercio europeo: all’entrata delle truppe britanniche a Lhasa (1904) fece seguito la firma di un trattato commerciale anglo-tibetano.
L’ingerenza britannica provocò la reazione della Cina che occupò a sua volta il T. nel 1909; tuttavia, dopo la caduta dell’Impero (1912), la guarnigione cinese fu espulsa. Nel 1913-14 si svolse a Simla una conferenza per la definizione dello status internazionale e dei confini del Tibet. L’accordo finale confermò l’appartenenza del paese al territorio cinese, distinguendo una zona interna, sotto il diretto controllo di Pechino, da una zona esterna autonoma. L’accordo fu respinto dalla Cina e nei decenni successivi il T. rimase di fatto indipendente. Nel 1951 la Cina riprese il controllo militare ed economico del T., impegnandosi a rispettare le prerogative del Dalai-lama e delle istituzioni religiose; negli anni seguenti venne lanciato un piano di modernizzazione e di sviluppo che incontrò una forte opposizione: nel marzo 1959 la rivolta popolare di Lhasa e la repressione cinese determinarono la fuga in India del 14° Dalai-lama Tenzin Gyatso, che costituì un governo in esilio a Dharamsala in India, e di gran parte dei membri della nobiltà e dell’alto clero. Pechino promosse una radicale riforma agraria e favorì l’insediamento di cittadini cinesi in T. (dal 1965 dotato di uno statuto di autonomia), sottoponendo il paese a un processo di omologazione culturale particolarmente intenso negli anni della rivoluzione culturale (1966-69).
Nel 1987 il Dalai-lama abbandonò l’opzione indipendentista e si dichiarò disponibile a un compromesso, sviluppando poi un’intensa attività diplomatica a livello internazionale per spingere il governo cinese all’apertura di negoziati, ma la Cina continuò a mantenere il T. in uno stato di totale assoggettamento, da una parte accelerando il processo di modernizzazione per rompere l’isolamento del T. e facilitare la sua omologazione al resto dello Stato, dall’altra ricorrendo alla repressione armata per fiaccare la resistenza interna e indebolire il governo in esilio, con persecuzioni nei confronti dei monaci buddhisti e la distruzione dei loro santuari (2001). Il governo cinese seguitava inoltre a promuovere l’immigrazione di lavoratori cinesi, nel tentativo di intaccare l’identità culturale ed etnica della popolazione tibetana. In tale contesto, i colloqui con le rappresentanze diplomatiche degli Stati europei e degli Stati Uniti intrapresi dal Dalai-lama nel 2002, provocavano aspre proteste della Cina, né ottenevano risultati apprezzabili i tentativi del Dalai-lama di intensificare il dialogo con il governo cinese; di contro, la linea moderata assunta dal leader tibetano incontrava le critiche dell’ala più oltranzista del governo in esilio, ferma sulla richiesta di indipendenza. La rivolta del T., guidata dai monaci buddhisti, è riesplosa nel 2008 ed è stata brutalmente repressa, nonostante la condanna unanime della comunità internazionale.
La lingua tibetana (bod-skad), parlata nel T. e nei distretti confinanti dell’India, appartiene al sottogruppo tibeto-himalaiano della sezione occidentale, o tibeto-birmana, della famiglia linguistica indocinese. Si articola in numerose varietà e molti dialetti: la funzione di lingua colta e comune alle diverse regioni è esercitata dal dialetto del T. centrale. Il tibetano presenta una ricca e antica letteratura di carattere soprattutto religioso (buddhistica), documentata già dai primi decenni del 7° sec. d.C., e redatta in una lingua ‘classica’ più conservativa. La scrittura, introdotta nel 7° sec. e ideata, secondo la tradizione, da T’on mi Saṃbhaṭa, deriva dall’alfabeto indiano tardo-gupta. Caratteristica del tibetano, per la fonetica, è la tendenza a ridurre gli antichi prefissi, che sono spesso rappresentati dalla sola consonante iniziale contratta con le altre consonanti dei temi e spesso anche scompaiono del tutto. Altro carattere tipico è la presenza di forme particolari di ‘linguaggio onorifico’, usate per parlare con persone di rango superiore.
La storia religiosa del T. è fondamentalmente la storia del buddhismo insediato nel paese nella seconda metà dell’8° sec. con il regno di Khri srong lde btsan, cioè quella del lamaismo (dal tib. bla ma «maestro buddhista»; i tibetani peraltro danno alla loro religione il semplice nome di chos, trad. del sanscrito dharma «legge»). Accanto al lamaismo si è conservata nei secoli la religione tibetana autoctona, il Bon. Lamaismo e Bon sono poi vissuti nella religione popolare a livelli primitivi, profondamente permeati di sciamanismo.
Dalla documentazione più antica, dove il termine bon non indica una religione ma un rito, appare il quadro di una religione politeistica in senso largo, provvista di tradizioni cosmogoniche e di una cosmologia tripartita in cielo, terra, inferi. Il cielo è sede degli dei superiori (Phyva, lha); la terra è sede dell’uomo; gli inferi sono abitati da spiriti e divinità acquatiche (Klu) e sotterranee. In questa religione avevano rilievo centrale i miti delle origini e la loro recitazione, affidata a tecnici specialisti, nella quale doveva aver posto lo stato di trance; di fatto a tutt’oggi le recitazioni epiche dei bardi girovaghi si configurano come vere e proprie impersonazioni concrete, senza fictio scenica.
Base dottrinaria comune a tutte le scuole buddhiste è la concezione della realtà come «vuotezza»: il punto d’arrivo della metafisica buddhista nega l’essenza propria a tutti gli elementi dell’esperienza. In questa «vuotezza di essenza propria» (svabhaśūnyatā) cade come illusione anche l’opposizione suprema del buddhismo antico, quella tra saṃsāra e nirvāna, che si identificano nell’assoluta «vuotezza» (śūnyatā, tib. Stong pa nyd). Alla stessa concezione arriva la metafisica degli Yogācāra («coloro che praticano lo yoga»). Nel T. la dottrina dello śūnya viene introdotta nel quadro di un sostanziale accostamento prodottosi in India tra i Mādhyamika e gli Yogācāra (di cui Śāntirakṣita è un autorevole promotore) sulla base della Prajñāpāramitā (tib. Phar phyin), che resta il cardine dogmatico di tutti gli indirizzi del lamaismo. L’integrazione tantrica costituisce il secondo carattere del lamaismo, per intendere il quale si devono tener presenti le caratteristiche essenziali del tantrismo (➔): l’essere una via soterica diretta (gnosi mistica) il cui itinerario mistico comprende l’acquisizione di poteri straordinari (siddhi) e che, per essere geneticamente indipendente dal buddhismo, non è strutturalmente legato alle sue premesse di comportamento soterico, cioè le regole del vinaya (tib. ‘dul ba). Quale via diretta alla liberazione il tantrismo si pone come esperienza mistica nella quale, venendo unificati il «Mezzo» (sanscrito upāya, tib. thabs), cioè, in termini mahāyānici, la karunā «compassione universale» e la «Conoscenza» (sanscrito prajñā, tib. shes rab), si realizza l’Assoluto come śūnyatā; seguendo le istruzioni dei tantra graduati fino agli yogatantra (rnal ‘byor rgyud) l’iniziato è in grado, per es., di esteriorizzare la divinità tutelare (yi dam) e di riassorbirla, sperimentando così in sé stesso l’identità dei due processi e la risoluzione di tutta la realtà nello śūnya.
Accanto alla via dei tantra resta la base mahāyānica del lamaismo, cioè la via graduale verso la liberazione che si intraprende con il voto del Risveglio (byang chub sdom) proprio dell’itinerario del Bodhisattva mahāyānico. Alla liberazione si giunge dopo un numero maggiore o minore di rinascite, a seconda dell’entità dell’accumulo dei meriti (bsod nams kyi tshogs) e di sapienza (ye shes Kyi tshogs).
Nella sistemazione del lamaismo risalente a Tsong Khapa (15° sec.) prende grande rilievo il monachesimo come fatto di vita religiosa comunitaria. Un altro carattere saliente del lamaismo è la differenza d’orientamento concreta tra la vita religiosa dei monaci, siano essi anacoreti o vivano nelle collettività monastiche, e quella dei laici; il comportamento dei monaci è interamente finalizzato al conseguimento della liberazione assoluta, mentre il comportamento dei laici tende all’accumulo dei meriti e della saggezza, che comporta numerose pratiche devozionali: pellegrinaggi nei luoghi santi, circumambulazione di templi, recita di particolari formule e di preghiere, donazioni ai monasteri ecc. Infine va ricordato che per alcune scuole (rNying ma pa, Sa skya pa) anche i laici possono pronunciare il voto del Risveglio o il voto della gnosi tantrica.
La musica tibetana coincide con la musica religiosa. Quella vocale predomina nelle scuole religiose e dei monasteri buddhisti, dove i monaci apprendono il canto sillabico, mantra, e il dbyangs, canto melismatico. Fra gli strumenti in uso vi sono il grande tamburo a 2 membrane, rnga, e i grossi piatti a mammellone, sbug-chal. Gli strumenti a fiato utilizzati per l’accompagnamento sono le trombe dung-dkar e rkang-gling, gli oboi rgya-gling e la coppia di strumenti simbolici formata dal tamburo a clessidra con palline sferzanti, damaru, tenuto nella mano destra, e dalla campanella drilbu.