Termine usato per designare, criticamente e cronologicamente, una produzione artistica e architettonica sviluppatasi in Italia e nel resto d’Europa nel corso del sec. 17°.
Dalla fine del Seicento, l’aggettivo francese baroque, tratto dal portoghese barroco (irregolare, riferito alla forma della perla scaramazza), acquisì il senso generico di «stravagante», «bizzarro». Il termine compare, con questo significato, nella storiografia e nella critica artistica e architettonica dalla fine del 18° sec.: nel Dictionnaire de Trevoux (1771) è così definita la pittura che non segue le tradizionali regole sulle proporzioni ma il capriccio dell’artista; i teorici del neoclassicismo (J.J. Winckelmann, F. Milizia) assumono a proposito dell’arte e dell’architettura di F. Borromini, G.L. Bernini, Pietro da Cortona, lo stesso valore negativo, in opposizione all’arte classica e rinascimentale. Il senso del termine perde la sua connotazione negativa con gli studi di H. Wölfflin (1888), di A. Schmarsow (1897), di A. Riegl (1908), che riconducono la questione all’ambito della storia degli stili, precisando del b. le caratteristiche identificative. A prescindere da una certa tendenza a riproporre un giudizio negativo sullo stile e sul gusto del b. (B. Croce, 1929) o da accezioni particolari del termine, come quella (E. D’Ors, 1945) che vede nel b. una categoria ideale in antitesi costante al classico, che si ritrova in epoche e civiltà diverse (b. alessandrino, gotico, romantico ecc.), sono sottoposte a revisione dalla critica moderna anche quelle interpretazioni che lo identificano come l’arte dei Gesuiti, o della Controriforma, sebbene l’arte del b. ritrovi tra le sue radici importanti istanze teologiche, politiche e religiose. Una visione critica generalizzante include nel concetto di b. la produzione artistica e architettonica di tutto il Seicento e di gran parte del Settecento. Tuttavia, la notevole complessità delle manifestazioni artistiche e culturali che coesistono in questi secoli (tendenze classiciste, decisa attenzione alla realtà naturale, interesse per ricerche tonali e cromatiche) ha proficuamente imposto la necessità, per giungere a una definizione univoca e coerente del b., di circoscriverne la fase iniziale e l’ambito di riferimento proprio intorno a quella generazione di architetti e artisti, individuata dai teorici neoclassici, attivi a Roma dalla fine del terzo decennio del sec. 17°.
I segni caratterizzanti dello stile b., delineati dalla critica, contribuiscono a definire il fenomeno nella sua articolazione e nel suo divenire storico, nella produzione romana e italiana e nei suoi sviluppi europei. In architettura la spazialità interna, nella varietà delle soluzioni ideate, raggiunge risultati sorprendenti e fantasmagorici – soprattutto nelle sue realizzazioni estreme anche fuori dell’Italia – attraverso l’uso concatenato di volumi e di geometrie formalmente eterogenee. Negli esterni emerge la predilezione per forme plastiche sinuose, per l’uso di linee curve, per l’inclusione della luce in rinnovate concezioni spaziali che, nell’alternanza dei pieni e dei vuoti, tendono a modellare le superfici murarie. Secondo un’analoga visione, il coinvolgimento dello spazio e della luce in forme e composizioni aperte e movimentate, l’esaltazione degli ‘affetti’, la resa acutamente realistica e sensibile dell’immagine sono proprie alla scultura e alla pittura, soprattutto nella grande decorazione, dove spettacolari scenografie e complessi illusionismi prospettici si uniscono all’immaginazione e alla retorica della persuasione e della commozione che si rivolge e coinvolge lo spettatore. Il segno dominante della produzione b. è tuttavia l’interazione e la fusione tra tutte le arti, nella definizione di nuove strutture spaziali, in organismi monumentali e in sistemazioni urbane, che contribuirono in primo luogo alla creazione del volto di Roma barocca.
La cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria di Bernini è opera esemplare di tale concezione, che ritorna nelle grandi piazze di cui l’arredo scultoreo monumentale è parte integrante; nelle facciate che tendono a coinvolgere lo spazio circostante (S. Maria della Pace di Pietro da Cortona, S. Andrea al Quirinale di Bernini, S. Carlo alle Quattro Fontane o l’oratorio dei Filippini di Borromini); nelle grandi illusionistiche decorazioni dipinte nelle volte delle chiese o nei soffitti dei palazzi, ideale espansione della spazialità interna, come quelle tipiche della fine del 17° sec. (G.B. Gaulli o A. Pozzo), che hanno precedenti essenziali negli affreschi di Pietro da Cortona (salone di palazzo Barberini) ma anche nell’attività di P.P. Rubens. Nell’ambiente romano il b. si consolida durante tutto il sec. 17° grazie all’attività di alcune importanti personalità e di tanti artisti formatisi nei grandi cantieri pontifici, sviluppandosi nelle sue forme tarde fino ai primi decenni del sec. 18°. Il b. coniuga esperienze diverse nelle sue varietà locali in altre regioni italiane, in particolare a Torino, con la complessa attività architettonica di G. Guarini, seguito nel sec. 18° dalla diversa interpretazione F. Juvarra, o a Genova, centro importante per lo sviluppo della decorazione scenografica degli interni. Legata al linguaggio architettonico rinascimentale e allo stesso tempo fortemente innovativa è l’opera veneziana di B. Longhena, mentre caratteri fortemente eterogenei individuano l’architettura e l’esuberante decorazione plastica del b. leccese e l’articolazione prospettica e spaziale di quello siciliano.
Di carattere spettacolare e fortemente ornamentale in architettura, scenografico e drammatico nella scultura e nella pittura è il b. iberico (i Churriguera, L. Figueroa, G. Fernández ecc.), che diffonde il suo influsso fino all’America Latina (Aleijadinho in Brasile, le chiese dei Gesuiti in Perù, L. Rodriguez in Messico ecc.). Il riferimento a modelli del b. romano e piemontese fu importante, dalla fine del Seicento, in Europa centrale, diffondendosi in Austria e nella Germania meridionale, in Polonia e in particolare in Boemia (con l’opera di personalità come J.L. von Hildebrandt, J.B. Neumann, i Dientzenhofer), fino in Russia, anche grazie all’attività di architetti italiani. Scarsi riscontri, se non una vera opposizione al b., si individuano nel diverso atteggiamento culturale dell’Inghilterra e della Francia, in favore di una più contenuta elaborazione formale di stampo classicista e di una grandiosità monumentale delle soluzioni compositive e spaziali.
Il riuso di partiti figurativi ed elementi architettonici con funzioni accentuatamente decorative propri della produzione del primo Settecento italiano e del tardo Settecento europeo è alla base del cosiddetto tardo-b. e del rococò. Larghissima fu l’influenza del gusto b., particolarmente sulla scenografia teatrale e sugli apparati per feste e funerali, nonché sul mobile, sull’arredamento, sulla suppellettile, sul vestiario.
La letteratura dell’età b. è designata con termine generale concettismo e con altre denominazioni che fanno riferimento alle varie correnti nazionali (marinismo per l’Italia, da G. Marino; gongorismo, da L. de Góngora, o culteranismo per la Spagna; preziosismo, préciosité per la Francia; eufuismo per lo stile messo in voga in Inghilterra dal romanzo Euphues, or the anatomy of wit, 1578, di J. Lyly; poesia metafisica per quella di J. Donne e della sua scuola). Il concettismo è la teoria estetica alla base del modo di poetare proprio degli scrittori del Seicento, secondo la quale il maggior pregio della poesia risiede nella novità e raffinatezza dei concetti. Assai vasta, la trattatistica sul concettismo ha avuto in Italia il primo codificatore nel genovese Matteo Peregrini (Delle acutezze che altrimenti Spiriti, Vivezze e Concetti volgarmente si appellano, 1639, e I fonti dell’ingegno ridotti ad arte, 1650). Il concetto, detto anche vivezza, acutezza, argutezza (sp. agudeza, ingl. wit), è una combinazione d’immagini dissimili, un avvicinare cose tra loro lontane, ma tra cui l’intelletto sottile del poeta scopre inedite, stupefacenti somiglianze e analogie (per es., la luna chiamata «frittata del cielo»); oppure consiste nel restituire a un traslato magari ovvio e abusato il suo significato letterale, lavorando poi intellettualisticamente su questo, così da suscitare nel lettore la meraviglia dell’inaspettato (per es.: i capelli biondi d’una donna sono un mare d’oro; ma un mare vero, in cui ci sono bianche barche – i pettini –, onde in tempesta ecc., e nel quale il poeta naufragherà).
B. Gracián, nel trattato Agudeza y arte de ingenio (1642) afferma che l’argutezza è l’unica fonte del piacere estetico e consiste «in un’armonica correlazione tra due o tre conoscibili estremi espressa con un atto di intelletto». E. Tesauro, teorico della poetica della ‘meraviglia’, attribuisce alla metafora una fondamentale funzione conoscitiva, che pone questa figura retorica (e la scoperta dell’analogia che esprime) al centro dell’esperienza creativa (Cannocchiale aristotelico, 1655): «la Metafora tutti [gli obietti] a stretta li rinzeppa in un vocabulo: e quasi in miraculoso modo gli ti fa travedere l’uno dentro all’altro», formulazione in cui si coglie anche il rapporto tra gusto letterario e gusto artistico, perché la metafora è in letteratura quello che in architettura è una prospettiva illusionistica.
Il Rinascimento aveva apprezzato la metafora e valorizzato soprattutto l’epigramma, avviando quella tendenza epigrammatica, fondata sulla brevitas, riscontrabile in tutte le opere letterarie del Seicento: a dare indirizzo concettistico al gusto secentesco contribuì la divulgazione dell’Antologia greca cominciata allo scorcio del sec. 15°. Accanto all’epigramma, l’emblema, di largo uso nel Rinascimento: due modi diversi e complementari di concepire la stessa argutezza. Confluiscono nel b. filoni di una letteratura che ai motti, alle massime e parti scritte associava figurazioni simbolico-allegoriche, in una cooperazione tra immagine e parola (‘emblemi’ di piante e animali; ‘personificazioni’; ‘imprese eroiche’, diffuse nell’araldica e composte dall’anima, iscrizione, e dal corpo, oggetto materiale raffigurato in stretto rapporto con la scritta: fra i trattatisti, Paolo Giovio, che ne codificò le regole, Gabriello Simeoni, che pubblicò Le Imprese eroiche e morali, 1559). Gli autori dell’età b. non si fermarono quindi all’elaborazione puramente fantastica della metafora, del concetto: vollero estrinsecarli, proiettarli in geroglifici, emblemi, compiacendosi di rincalzare la parola con una rappresentazione plastica aggiunta (poesia visiva). I secentisti vedevano l’universo sotto specie d’argutezza; da tutti i fenomeni naturali e da tutto lo scibile umano traevano spunto per dare esca al loro esercizio intellettuale: scoprivano misteriose arguzie e simboli negli aspetti del cielo e della terra; arguto era il linguaggio degli animali e delle piante, arguto lo stesso linguaggio di Dio. Essendo tutto arguzia, non restava più alcun criterio per distinguere un’opera d’arte da un’opera di abilità tecnica, dal prodotto gratuito di una fantasia stravagante; il seicentismo è apparso perciò ai secoli successivi un’aberrazione del gusto, un vano passatempo.
Tuttavia bisogna considerare che nel Seicento il culto dell’ingegnosità non era prerogativa dei soli letterati, permeava ogni aspetto della cultura (gli stessi predicatori, nel rivolgersi al pubblico dei non letterati, ricorrevano al concetto per stupire) e nasceva non da futili ragioni. All’opposto del Rinascimento, l’età b. scopre nel disegno ordinato della natura, l’anomalia, l’eccezione, una realtà metamorfica, in continua evoluzione. Cadute con la rivoluzione scientifica le certezze assolute, messo in crisi un intero sistema conoscitivo, in un mondo diverso da come una tradizione millenaria l’aveva presentato (la Terra formata da continenti sconosciuti e abitata da popoli mai prima immaginati, decentrata rispetto alla cosmologia tolemaica, in un universo senza confini), il pensiero si volgeva alla ricerca, alla sperimentazione, a forme aperte e libere, in un clima di inquietudine. Come il cielo di Galileo, ogni aspetto è sottoposto all’esame della vista e l’occhio del poeta, come quello dell’artista e dello scienziato, si sofferma sulle ‘evidenze sensibili’, indaga zone del reale non osservate prima, trovando somiglianze e analogie fra settori lontani, in una rete di collegamenti che costituiscono le coordinate di una nuova mappa del mondo e una possibilità di orientamento.
Il b. fu uno stile unitario europeo pur nelle differenze delle singole letterature. Circa la genesi e l’interdipendenza tra i vari aspetti nazionali del gusto secentista, in Francia il preziosismo fu prevalentemente d’importazione straniera, italiana e spagnola: Marino pubblicò l’Adone (1623) a Parigi e contribuì alla divulgazione del concettismo in Spagna. Nel Libro de la erudición poética (1607) e nelle poesie del marinista L. Carrillo y Sotomayor si trova la prima manifestazione del culteranismo (poesia per los cultos, gente colta), che doveva diventare la maniera tipica di Góngora verso il 1609-10. I poeti gesuiti in latino derivarono molto da Marino in componimenti (epigrammi, epistole, inni, emblemi ecc.) che si diffusero nel Nord dell’Europa influendo sui poeti in volgare. A questi, oltre che a Marino, si ispirò R. Crashaw, il più significativo rappresentante del marinismo in Inghilterra; dal gesuita H. Hugo desunse emblemi e concetti un altro divulgatore del concettismo, F. Quarles. Le Prolusiones academicae (1617) del gesuita F. Strada furono imitate largamente in Inghilterra, Olanda e Spagna; la letteratura gesuitica ebbe un ruolo anche nel secentismo tedesco, che ha un notevole esempio nella tragedia Cenodoxus (1609) di J. Bidermann.
Senza connessione col marinismo e gongorismo (al quale è anzi anteriore) è l’eufuismo. Nello stile l’Euphues di Lyly non rappresentò che una ripresa del vecchio cursus e degli schemi retorici medievali, di procedimenti tipici di Boccaccio (specialmente nel Filocolo), Guittone d’Arezzo; d’altra parte la predilezione per strane similitudini desunte dagli antichi naturalisti e dagli Emblemata (1531) di A. Alciati dà alle pagine dell’Euphues un carattere affine al gongorismo. D’immagini b. abbondano i poeti elisabettiani, e non vi è soluzione di continuità tra l’età di Shakespeare e quella dei poeti ‘metafisici’; le immagini di Shakespeare, di G. Chapman, di J. Webster, che possono chiamarsi ‘metafisiche’, sono impostate su una forma mentis che era quella dell’età barocca.
Concetti metafisici compaiono di frequente, in una risoluzione briosa, del secentismo, nella raccolta di fiabe popolari di G. Basile Lo cunto de li cunti. Basile si vale di antiche metafore a fine di gioco, non per fare la satira d’una maniera letteraria, ma per conferire vaghezza d’inedite invenzioni al suo mondo irreale di incantesimi.
Il b. letterario ha avuto in passato un’accezione spregiativa, subendo una lunga vicenda di polemiche. Dallo scorcio del Seicento, poi per tutto il Settecento, l’Arcadia e le varie posizioni del razionalismo illuministico e del classicismo determinarono la negazione di ogni valore alla produzione secentista, associata a cattivo gusto, vacuità e artificiosità, mancanza di dignità morale e formale. La rivalutazione del b. ha coinciso con lo studio di H. Wölfflin e l’apporto critico del simbolismo e dell’impressionismo del sec. 19°.