Composizione inconsueta, fantasiosa, bizzarra. Sottraendosi all’imitazione naturalistica e a regole compositive canoniche, si configura per la sua contrapposizione alle poetiche del classicismo e del razionalismo illuministico. Anche se il termine ricorre nella letteratura artistica del 16° sec. (con riferimento al gotico e, soprattutto, alle grottesche), si può parlare propriamente di c. solo nel manierismo, nel barocco e nel rococò, sia per decorazioni fitomorfiche e zoomorfiche, sia per la creazione di architetture fantastiche, illusionistiche o costruite (F. Borromini usa per alcune sue opere esplicitamente il termine c. o «bizzarie»), sia per composizioni di fantasia pittoriche e grafiche, legate a un tema reale. Tra queste ultime, che sembrano codificarsi in un vero e proprio genere artistico, rientrano i Capricci di vane figure (1617) di J. Callot o i Diversi capricci (1746) di S. Della Bella (scene campestri, di città, danze ecc.), i c. di S. Rosa, G.B. Tiepolo, F. Guardi (paesaggi o vedute che combinano elementi reali e fantastici), le suggestive Invenzioni capricciose di carceri (1750) di G.B. Piranesi e infine i Caprichos (1799) di F. Goya, che si arricchiscono anche di una valenza di corrosiva critica morale e sociale.
In origine (16° sec.) il c. indicava un brano strumentale di forma varia e libera e di carattere fantasioso, quasi improvvisatorio. I primi c. stampati furono quelli per liuto di F.M. Roncalli (1594) e quelli per strumenti vari di F. Stivori (1599). Nell’Ottocento il termine fu destinato particolarmente a composizioni libere e a carattere vivace.