Il complesso di esperienze artistiche elaborate tra il secondo e l’ultimo decennio del 16° sec.; nato con particolare riferimento alle arti figurative e all’architettura, il termine è stato poi esteso anche alla produzione letteraria.
Nella storiografia artistica il termine appare per la prima volta nel 18° sec.: L. Lanzi lo usa a indicare la decadenza dell’arte nell’inerte ripetizione di formule operata dai seguaci dei grandi maestri del Rinascimento (Michelangelo e Raffaello) e ne definisce i limiti cronologici dal sacco di Roma (1527) all’avvento dei Carracci. È un giudizio che, schiacciando le variegate espressioni artistiche di tale periodo in una complessiva immagine di decadenza, codifica l’accezione negativa del termine maniera (modo, stile, gusto caratteristico di un artista o di un periodo) come ripetitiva imitazione di moduli formali, quale era emersa già nel 16° sec. con L. Dolce e nel 17° con G.P. Bellori e condizionerà la storiografia artistica del 19° e gran parte di quella del 20° secolo. È soltanto alla fine del 19° sec. che il concetto e il giudizio relativo al m. cominciano a segnare un’inversione di tendenza: lo studio del barocco, in particolare in campo architettonico, porta a rintracciarne le premesse nell’arte del 16° sec., superandone la qualificazione di involuzione dello ‘stile classico’ ed evidenziando in un ‘tardo Rinascimento’ (Michelangelo e gli architetti operanti a Roma nella seconda metà del 16° sec.) fenomeni di radicale trasformazione (C. Gurlitt, 1887).
La storiografia critica tedesca dei primi tre decenni del 20° sec., sollecitata anche dalle contemporanee tendenze espressioniste, prendendo soprattutto in esame la produzione pittorica del periodo (non solo quella italiana, e non solo attraverso l’analisi stilistica ma anche esaminandone i nessi profondi con aspetti culturali, religiosi, politici) porta alla formulazione del m. come stile autonomo, come corrente fondamentalmente ‘anticlassica’ (F. Goldschmidt; M.J. Friedländer; M. Dvořák; L. Fröhlich-Bum; H. Kauffmann; W. Friedländer; N. Pevsner ecc.). Il m. è quindi interpretato come espressione di irrazionali impulsi soggettivi, dell’esaltazione del sentimento al di sopra della ragione (è interessante anche rilevare come nella critica tedesca sia messa in evidenza nel m. una componente gotica riemergente), mentre l’arte del Parmigianino, d’altro verso, ne metterebbe in evidenza l’ideale di ‘grazia’ e di raffinatezza, riscontrabile anche in una vitalissima corrente nel campo della scultura che annovera, tra gli altri, artisti come B. Cellini, B. Ammannati, Giambologna. J. von Schlosser (1924), trattando del m., analizza la fiorente produzione trattatistica del periodo rilevandone la vasta riflessione sull’arte. A partire da E. Michalski (1933) si viene evidenziando come l’architettura manierista sperimenti fino all’estremo limite il linguaggio classico sovvertendone gli equilibri (B. Peruzzi, Giulio Romano, Vignola, A. Palladio, G. Alessi e, fuori d’Italia, A. de Vries, du Cerceau ecc.). Lo studio approfondito delle varie personalità artistiche, anche quelle meno conosciute, del 16° sec. porta infine a un panorama variegato e spesso contraddittorio, tanto da mettere in discussione la compattezza e l’unicità sia dello stesso concetto di Rinascimento, sia di quello di m., inteso come stile unitario.
Dal secondo dopoguerra e soprattutto dagli anni 1960 (G. Briganti; relazioni di C.H. Smyth e di J. Shearman al 20° Congresso di Storia dell’arte, 1961; A. Chastel; A. Pinelli ecc.) si è teso quindi a considerare a parte, denominandola variamente come prima maniera o primo m., ‘primo anticlassicismo’, ‘sperimentalismo anticlassico’, l’esperienza fiorentina di Pontormo e Rosso e del senese D. Beccafumi; si sono messe in evidenza correnti ‘anticlassiche’ eccentriche, lontane dai centri principali della Toscana e di Roma, e, d’altra parte, si è dato risalto alle peculiari caratteristiche dell’arte della Controriforma. Pur riconfermando Roma come luogo privilegiato della gestazione e nascita della cosiddetta ‘grande maniera’, punto d’approdo di impulsi classici e anticlassici che sono rintracciati anche nelle opere di Michelangelo e Raffaello, matrici congiunte della nuova espressione artistica (Perin del Vaga, Polidoro da Caravaggio ecc.), con nuove angolazioni è stata approfondita la diffusione in Italia, dopo il sacco di Roma, di quest’arte che si sviluppa nel corso del 16° sec. e nell’ambiente colto e raffinato delle corti (a Parma con il Parmigianino, a Mantova con Giulio Romano, a Bologna con P. Tibaldi, nella corte medicea con G. Vasari, F. Salviati, Bronzino e ancora B. Cellini, Giambologna ecc., oltre alla particolarissima situazione di Venezia) e di nuovo a Roma con Daniele da Volterra, Salviati, Vasari, P. Tibaldi (cui fecero seguito Taddeo e Federico Zuccari, il Cavalier d’Arpino); e così per il cosiddetto m. al di là delle Alpi, a Fontainebleau con il Rosso, il Primaticcio, N. Dell’Abate e più tardi nel resto d’Europa, a partire dai Romanisti di Anversa fino ai numerosi artisti, spesso di origine fiamminga, che sul finire del secolo passano di corte in corte (a Monaco e soprattutto nella Praga di Rodolfo II).
Se nelle arti figurative la figura serpentinata, il contrapposto, il gigantismo delle figure, gli audaci scorci prospettici, il cangiantismo dei colori sono genericamente considerati motivi ed elementi caratteristici del m., accanto all’artificiosità, alla grazia, alla leggiadria, così come nell’architettura esso si concretizza soprattutto nella sperimentazione linguistico-formale, in senso anticlassico, privilegiando effetti di ambiguità e artificialità e interessando in definitiva gli aspetti decorativi più che quelli strutturali, la definizione di m. riguarda un insieme di realtà complesse e composite, che si intrecciano, verso la fine del secolo, fino alla rinnovata ricerca di una semplificazione e di una chiarezza formale e compositiva. I complessi rapporti tra l’arte figurativa e l’architettura di questo periodo con gli altri linguaggi espressivi, dalla poesia al teatro, alla musica e, parimenti, i diversi contesti sociali, culturali e religiosi, nei quali si manifestano e di cui sono espressione, denunciano infatti come il termine m. mantenga in pieno la natura di vox media derivante dal concetto di maniera, e necessiti, a evitarne un uso generico e poco significante, di una più articolata e differenziata qualificazione e specificazione.
Mutuato dal linguaggio della critica d’arte, il termine m. trova diffusa applicazione anche in letteratura solo a partire dalla metà del 20° secolo. A rigore, il m. letterario (individuato nella sua fenomenologia europea da M. Dvořák, W. Sypher, D. Alonso, e riferito ad autori come M. de Cervantes e W. Shakespeare), in Italia, dove viene studiato da M. Praz, R. Scrivano ed E. Raimondi, corrisponde alla diffusa affermazione, già dopo il 1530, di tendenze antirinascimentali, e precisamente anticlassicistiche. Dapprima espresse, nel momento del massimo splendore del Rinascimento, da scrittori a lungo ritenuti semplicemente degli irregolari (come Ruzzante, P. Aretino, G.B. Gelli, il Lasca, A. Doni), tali tendenze opposero poi una più metodica ed efficace resistenza al classicismo dal suo interno, quando i letterati assunsero l’atteggiamento intellettuale più problematico e la sensibilità più sottile e drammatica che culminarono nell’opera di G. Bruno e di T. Tasso. Il termine indica però spesso, e in questo senso si trova in E.R. Curtius e in G.R. Hocke, anche quella sorta di immancabile complemento o di speculare reazione che, fino a tutto il 20° sec., trasforma ogni classicismo appunto in una maniera, stilizzandone l’imitazione e prendendone le distanze per una più scaltrita raffinatezza formale e per più sofferte complicazioni intellettuali. In questa seconda accezione, ma con particolare riferimento all’affettazione e all’artificiosità di una letteratura di epigoni, il termine si carica anche di una valenza negativa.