scena Parte del teatro dove gli attori recitano. Per metonimia, l’azione scenica, l’attività teatrale e la professione d’attore, e, per traslato, altre forme di attività.
La s. è costituita da una piattaforma sopraelevata rispetto al piano della sala, delimitata verso quest’ultima dalla ribalta, corrispondente al boccascena, e chiusa sugli altri lati dalle strutture che costituiscono la scenografia particolare di ciascuna azione drammatica. La s. comunica con la parte retrostante del palcoscenico sia attraverso i passaggi laterali che si aprono fra le quinte, sia mediante aperture nella parete mobile di fondo (fondale). Regolatore di s. Apparecchio installato nei teatri per graduare l’intensità luminosa e per inserire e cambiare gli schermi colorati di tutte le luci da palcoscenico. Scenario è l’insieme dei vari elementi (quinte, fondali, luci ecc.) che costituiscono l’ambiente scenico; in particolare, la superficie piana sulla quale sono rappresentati, mediante effetti prospettici appositamente studiati, gli aspetti illusori di una realtà spaziale inesistente. Scenografia è l’arte e tecnica di creare le s. per una rappresentazione teatrale, cinematografica o televisiva. Più concretamente, è l’insieme degli elementi dipinti che costituiscono una s.; per estensione il termine è usato anche per indicare gli elementi costruiti (praticabili, costruzioni) o ottenuti mediante proiezioni (effetti). Scenotecnica è tutto ciò che contribuisce alla realizzazione di uno spettacolo, in particolare la parte scenografica e macchinistica di un’operazione scenica.
Le origini della scenografia risalgono alla nascita del teatro. Aristotele (Poetica VI e XXVI) considera l’apparato scenico come uno dei sei elementi costitutivi della tragedia. La s. (skenè), edificio rettangolare a corridoio che chiudeva trasversalmente l’orchestra ed era adibito a spogliatoio degli attori, fu mascherata dal siracusano Formide con pelli e teli colorati, ma fu Sofocle, verso il 465 a.C., ad avere l’idea dello scenario dipinto. Con Eschilo, grazie alla collaborazione con il pittore Agatarco da Samo, lo scenario si arricchì di effetti prospettici. La tecnica prospettica si perfezionò per opera della scuola ateniese, raffinandosi ulteriormente con la scenografia alessandrina. Nel teatro antico le s. erano di tre generi: tragica, comica, satirica. Vitruvio nel De architectura (V, 8) fornisce una tipologia attendibile dei tre ambienti scenici: «Le tragiche si formano con colonne, fastigi, e tutti gli altri attributi della regalità. Le comiche hanno l’apparenza di edifici privati o di mura di città... Le satiriche sono ornate con alberi, spelonche, monti e tutti gli altri motivi delle cose agresti». I pannelli dipinti con le s. mutavano a vista, girando su un perno, o scivolavano su binari; l’apparato scenico era poi completato dalle macchine (mechanai) che servivano quali argani o gru al sollevamento dei personaggi, ai voli e all’apparizione del deus ex machina.
La s. romana, derivata dalla greca ellenistica, raggiunse forme raffinate, soprattutto in funzione ornamentale. Come primo teatro stabile in Roma è indicato quello di Pompeo (55 a.C.). Le s. fisse erano ancora quelle della tradizione greca, dipinte su pannelli separati, versiles o ductiles. Per la costruzione ci si avvaleva di pittori, falegnami e macchinisti; le apparizioni di dei, apoteosi e voli avvenivano a vista, le macchine e i dispositivi per effetti naturali (tuoni, lampi) erano situati nel sottopalco o nelle due costruzioni avanzanti ad ali che fiancheggiavano il proscenio.
Nel 4° sec. d.C. scomparve ogni forma di spettacolo organizzato. Lineamenti autonomi e riconoscibili furono riacquistati intorno al 9° sec. nella dimensione sacrale del dramma liturgico, nato all’interno di una funzione religiosa con interpolazioni dialogate e cantate. Il monopolio della rappresentazione era detenuto dal clero, che escludeva qualsiasi elemento profano. La componente scenografica era già preesistente al rito dal momento che la chiesa possedeva i luoghi necessari all’azione. Nel 14° sec. il ludus era già perfezionato drammaticamente, con inserimenti di elementi profani (lingua volgare, maschere, parrucche, vesti e accessori). Lo spettacolo, pur nella sua religiosità, divenne incompatibile con il rito ed escluso dalla funzione passò alle cure delle confraternite e corporazioni laiche o laico-religiose, che presero a gestire direttamente gli spettacoli elaborati in volgare, con trame che attingevano ora alla tradizione sacra ora a s. realistiche della vita quotidiana. Gli apparati scenici erano provvisori, con presenza simultanea di luoghi multipli, dissociati, o intercambiabili, detti anche luoghi deputati, cioè stazioni emblematiche o generiche, tipiche delle Sacre rappresentazioni: quindi Paradiso a cieli concentrici, Inferno con mostri, reggia, capanna della natività, prigione, mare, luogo desertico, Tempio, Monte degli Ulivi, Calvario. Palcoscenici e s. furono provvisori per quasi tutto il Cinquecento e venivano smontati dopo la rappresentazione. Le s. erano dipinte su telari, la loro disposizione fissa e simmetrica, con quinte (telari laterali o case) e fondale (prospetto). I macchinisti (servi di s.) erano addetti ai carri, ai lumi di cera, al montaggio e smontaggio delle strutture.
Soltanto alla fine del secolo, con la riscoperta umanistica e la rivalutazione della commedia classica di Plauto e Terenzio, si sentì la necessità di un luogo appropriato, di modello classico, con s. prospettica ‘all’italiana’, dove trovarono opportuna sede i testi di L. Ariosto, N. Machiavelli e P. Aretino. Documento e ritratto ne diede nel 1545 S. Serlio nel Secondo libro di prospettiva, che riassume le precedenti esperienze del senese B. Peruzzi, di G. Genga e di A. e B. da Sangallo. Permanendo i concetti di unità di tempo, di luogo e di azione, Serlio ripropone l’esperienza prospettica dei palcoscenici cinquecenteschi italiani, con una funzionale prospettiva urbana (strada con palazzi, piazza) nella quale si potevano ambientare sia tragedie sia commedie. Il teatro rustico (i Rozzi) adottò la s. satirica, con una campagna, contrada (o incrocio di strade) e ‘selva’, dove comparivano insieme case, chiese, campanili e giardini, prima dipinti in un unico fondale piano, poi con una prospettiva scomposta in piani successivi. La s., nel fondo, era dipinta, ma in primo piano le case erano a misura umana e praticabili. La tecnica prospettica progredì con B. da Sangallo, G. Vasari, B. Lancia, B. Buontalenti, consapevoli della necessità di soddisfare un pubblico sempre più esigente e smaliziato. Generi spettacolari di altro tipo, anche circense o festivo, sul finire del 16° sec. diedero al teatro nuove dimensioni evasive e fantastiche: le s. mutavano a vista scorrendo su impianti girevoli, carrelli e guide, mentre calavano dal soffitto macchine con reggie celesti e spuntavano nuvole e fiamme infernali.
La s. all’italiana, pur complicata e dispendiosa, ma espressione di un teatro privilegiato e mecenatesco, si diffuse verso la metà del Seicento in Europa, attirando autori ed esecutori. Con l’aumento del numero delle sale teatrali permanenti, di corte, gentilizie, e poi pubbliche, i palcoscenici richiesero migliori attrezzature e si accrebbe l’impiego di elementi costruiti, agevoli e mobili, montati su carrelli. Il palcoscenico fu organizzato su tre piani: sottopalco, scena o palcoscenico, soffitta. Si reclutavano specialisti nel campo delle arti meccaniche e pittori, che, già utilizzati presso le principali dimore principesche italiane, ritroviamo nelle corti europee: tra questi, i rappresentanti marchigiani della s. barocca G. Burnacini (1600 ca.-1655) e G. Torelli (1608-1678). L’organizzazione estemporanea e sperimentale della s. secentesca si andò via via perfezionando, si allargò il retropalco e il sottopalco acquistò più piani. Si adottarono praticabili o elementi costruiti componibili, con pedane, piattaforme, scale, ponti, ballatoi. Anche la terminologia scenografica andò modificandosi e al posto di telaro si disse quinta, prospetto fu sostituito da fondale. Alla s. unica e fissa di antica tradizione subentrò una varietà di mutazioni che andavano dal ‘luogo magnifico’ al ‘carcere’, alla ‘boschereccia’.
I collegi gesuitici o di altre comunità religiose, con i loro teatrini ben dotati di s. e macchine, ebbero una parte importante nell’ammodernamento dello spettacolo. Un laboratorio familiare di grande prestigio, attivo dal 1680 alla metà del Settecento, costruttore di teatri e di scenografie, è quello di Ferdinando Bibiena (1651-1743) con il fratello Francesco (1659-1739) e con ben tre generazioni di scenografi. I Bibiena riassumono l’ideale storico dell’età barocca, e cioè ampliare fino all’inverosimile con prospettive concatenate gli spazi reali del palcoscenico, illudere sull’esistenza di altri ambienti e ideali lontananze oltre i limiti della s., e dominare l’attenzione dello spettatore con la meraviglia.
Con il successo dilagante dei Bibiena, accolti presso le maggiori corti europee, la fase della prospettiva barocca raggiunse il suo culmine. Tuttavia, mentre nei grandi teatri europei si concludeva la tradizione della s. prospettico-illusionistica, in Francia e in Germania autori e teorici preparavano la reazione: Diderot, Voltaire, P.-A. Caron de Beaumarchais e il giovane Goethe richiedono al teatro una maggiore ‘verità’; tali esperienze, divenute sempre più consapevoli e coerenti, con F.-J. Talma e J.-L. David approdarono al neoclassicismo. In Italia è importante il contributo teorico di F. Milizia e della grande scuola scaligera. Il neoclassicismo, da essi rappresentato, aveva per caratteristiche fedeltà storica e realtà di fronte ai dati naturali. Erano confermate come regole comuni unità di luogo, tempo e azione, ma erano indispensabili naturalezza e varietà, ‘verità’ nel senso di fedeltà agli stili storici e del rispetto delle proporzioni architettoniche negli interni.
Al neoclassicismo succede il Romanticismo, che trasportò la riforma, iniziata in nome della razionalità e della verità storica, sul piano della verità soggettiva e individuale. Ne nacque una scenografia tutta pittorica, incline alla grandiosità e all’enfasi, con imponenti architetture neogotiche, esterni lussureggianti, foreste incolte, paesaggi esotici, ariosi ambienti rustici, spelonche suggestive, con effetti di luce e ombra risolti pittoricamente. In questo periodo la scuola francese (con P.-L.-Cicéri, C.-A. Dambon, e gli altri ‘associati’ dell’Opéra) prese il sopravvento, mentre in Gran Bretagna si imponevano J. Henderson, W. Grieve e W. Roxby, in Italia A. Sanquirico, in Germania e Austria i Quaglio, A. De Pian, Brioschi. Alla metà del 19° sec. si registrò una reazione naturalistica che, iniziata in Germania e Gran Bretagna, culminò nel verismo. Si pretendeva fedeltà storica, precisione naturalistica, documentazione degli stili e dei costumi, anche esagerando con il rigore descrittivo. La migliore funzionalità e la più alta qualità furono raggiunte dal Théâtre Libre di A. Antoine (Parigi, 1887-96). Per contrasto, il ritorno a un teatro di poesia riportò a una scenografia formalista e decorativa: si affermarono nuovi professionisti, tra i quali A. Rovescalli – che disegnò s. per E. Duse e per il Teatro alla Scala –, C. Ferrario e Caramba (Luigi Sapelli). La riforma antiverista ebbe per protagonisti A. Appia, fautore di una struttura scenica plastico-tridimensionale enfatizzata da effetti illuminotecnici, e G. Craig, creatore di s. altamente stilizzate e simboliche. Nello stesso periodo, S.P. Djagilev, con il fenomeno dei Ballets Russes, rinnovò le stesse concezioni di principio: riconoscimento del potere del regista, che coordinava tutti gli elementi dello spettacolo, compresa la scenografia; rivalutazione dell’attore quale unità di misura della scenografia; rifiuto della s. naturalistica, che doveva essere invece funzionale ed essenziale.
La storia della scenografia del Novecento si apre con le istanze portate avanti dalle avanguardie che reclamavano un rinnovamento totale nello spettacolo e, forti anche delle nuove esperienze pittoriche, dichiaravano definitivamente sconfitto il naturalismo. Si voleva reinventare la convenzione teatrale a scapito del convenzionalismo documentaristico e, come era già nelle intenzioni di Appia e Craig, eliminare gli elementi descrittivi o pittorici. Ma la riforma pittorica prese altre strade, e allora, eliminato il conformismo naturalistico, si chiese alla pittura stessa un supporto psicologico. Pertanto la pittura continuò a svolgere un ruolo dominante nell’avanguardia teatrale del Novecento, sia come strumento di emotività cromatica diretta, sia come mezzo d’illustrazione figurativa.
Il futurismo rivolse speciale interesse al teatro e alle scenografie. È del 1915 il Manifesto della scenografia di E. Prampolini, che cerca soluzioni astratte in assoluto, materializzate per mezzo di proiezioni cromatico-luminose, che avrebbero dovuto determinare le superfici e delimitare gli spazi. Posizioni avanguardiste s’imposero in Russia con i ‘raggisti’, M.F. Larionov e N.S. Gončarova (assertori delle linee di forza futuriste), il suprematista K.S. Malevič (come «supremazia del puro pensiero plastico»), il costruttivista V.E. Tatlin, mentre V.E. Mejerchol´d a San Pietroburgo e A. Tairov a Mosca ospitarono gli scenografi costruttivisti più rappresentativi (A. Exter, G.B. Jakulov, A. Vesnin, A.M. Rodčenko ecc.). In Germania l’espressionismo era stato proiezione esteriore di visioni introspettive nelle scene di O. Kokoschka, L. Seiwert, C. Klein, e molti altri, con denunce irrazionali, parossismo e deformazione di gesti, suoni e immagini.
Un ritorno alla realtà si registra con la Neue Sachlichkeit (1919-25), poi con l’affermazione dell’officina teatrale del Bauhaus (1918-33), e infine con il teatro politico di E. Piscator e B. Brecht. La nuova pittura si fece ideatrice fra poesia e scenografia: a Parigi P. Bonnard e Gauguin lavorarono con P. Fort al Théâtre des Arts; Toulouse-Lautrec e E. Vuillard con Lugné-Poe al Théâtre de l’Oeuvre, così come a Berlino E. Munch e K. Walser sperimentarono la scena accanto a M. Reinhardt e a San Pietroburgo s’impose il vivace gruppo del Mir Iskusstva. L’avanguardia italiana ebbe personalità di spicco in A. Acciardi, creatore del Teatro del Colore (cui collaborò anche Prampolini), e A.G. Bragaglia, che creò con la collaborazione del futurista V. Marchi il Teatro degli Indipendenti, ospitando scenografi quali A. Valente, I. Pannaggi, V. Paladini. Nella scenotecnica, oltre a Valente e Marchi, autori di significativi scritti teorici, un posto di rilievo ebbe lo spagnolo M. Fortuny y Madrazo, inventore di una ‘cupola’ per simulare con perfetta illusione ottica la volta celeste. Il quinquennio dada coinvolse a Parigi le iniziative di T. Tzara e M. Janco, mentre il gruppo di A. Breton, L. Aragon, P. Eluard e G. Ribemont-Dessaignes predicava la frantumazione di ogni linguaggio tradizionale (parola, immagine, suono) per raggiungere una condizione di creatività primigenia. Al dada succede nel 1924 il surrealismo, con il manifesto di A. Breton e le sperimentazioni di A. Artaud al Théâtre Jarry (1926-29). Negli USA, dove aveva solida radice l’eredità di un caposcuola come R.E. Jones, maestro nell’arte di semplificazione, J. Mielziner e M. Gorelik, con il cosiddetto essenzialismo, trovarono soluzioni meno spericolate e più funzionali. Piscator contenne il suo teatro politico tra espressionismo e costruttivismo, valendosi di L. Moholy-Nagy, O. Reigbert, G. Grosz, e di trovate scenotecniche nuove (con proiezioni cinematografiche, s. multiple e palcoscenici girevoli, trasparenti, dispositivi illuminotecnici). Brecht rimise in discussione tutte le posizioni della messinscena tra Ottocento e Novecento e, attingendo alla vita conflittuale dell’uomo, alla società e alla storia, impresse al suo teatro un impegno ideologico, in un concorso di teatro epico e teatro didascalico. La s. è antifunzionale, in modo da far consapevole il pubblico dello sforzo e delle intenzioni del regista e dello scenografo; per raggiungere questo scopo vengono utilizzati cartelli, proiezioni di immagini, maschere, interruzioni esplicative con canti, commenti parlati e scritte lapidarie.
Nel teatro italiano del secondo dopoguerra, l’ansia di rinnovamento attinse a modelli americani (New Stagecraft), costruttivisti, ed espressionisti. L’opera dello scenografo si legò a quella del regista, come è il caso di L. Visconti, che si valse della collaborazione per le scene di M. Chiari, F. Zeffirelli, P. Tosi, M. Garbuglia, o di G. Strehler che stabilì rapporti di collaborazione con G. Coltellacci, G. Ratto, L. Damiani, E. Frigerio, G. Polidori, mentre L. Ronconi ha avuto spesso per scenografo M. Ceroli. Nei decenni seguenti hanno acquistato rilievo gli esperimenti di vari gruppi operanti sul piano internazionale, in veri e propri teatri-laboratorio, al di fuori delle strutture ufficiali (i polacchi J. Grotowsky e T. Kantor, il Living Theatre di J. Beck e J. Malina, il Bread and Puppet Theatre, R. Wilson). Al festival di Persepolis – che fu per alcuni anni una vetrina mondiale del teatro d’avanguardia – P. Brook presentò nel 1968 Orghast (con una singolare utilizzazione degli eventi solari: tramonto, alba) e J. Xemìnnakius Persepolis (protagoniste le montagne e le schiere, in uno scenario sterminato), lavori che testimoniano della tendenza del teatro contemporaneo a ricercare spazi aperti e ambientazioni naturali, dove la s. viene a perdere il suo carattere di ‘costruzione’.
Seguendo una linea di ricerca complementare, la scenografia odierna si trova inoltre a sperimentare nuovi linguaggi, in un fecondo dialogo con il mondo del cinema, della videoarte, della tecnologia digitale. Lo sviluppo tecnologico ha avuto notevoli riflessi tanto sulla scelta dei materiali (polistiroli, resine sintetiche ecc.) quanto sulle vere e proprie tecniche di costruzione e impiego. Di particolare rilievo è stata la trasformazione della luministica: sostituzione della cabina per i giochi d’organo con la consolle di controllo a microprocessore, adozione di nuovi tipi di apparecchi illuminanti e tecniche di illuminazione, introduzione di spazi scenografici creati dalle proiezioni cinematografiche e impiego di macchine, schermi e congegni vari.
Se in teatro la scenografia costituisce lo sfondo davanti al quale si svolge l’azione drammatica, nel cinema tutto si complica, non tanto perché rispetto a uno sfondo naturale, per es., il termine appaia meno congruo, quanto per il fatto che a ogni inquadratura corrisponde inevitabilmente un aspetto diverso della scenografia-madre (così si può denominare l’ambiente scenico nel suo complesso) e dunque si potrebbe a ragione sostenere che a ogni inquadratura corrisponde una scenografia diversa. Così la scenografia, una soltanto sul set, può diventare, nel film, molte scenografie, non solo in rapporto al taglio dell’inquadratura, ma anche ai cambi d’illuminazione, alle variazioni della profondità di campo, ai tipi di obiettivo, nonché ad altri elementi. L’unità della scenografia, nel cinema, si trasmette tale e quale dal set al film soltanto ove si privilegi il ricorso all’inquadratura fissa (nelle pratiche del cinema cosiddetto primitivo, o teatrale, oppure nel cinema d’autore più rigoroso). In tutti gli altri casi è il montaggio, essenza stessa del cinema, a moltiplicare nel film gli aspetti della scenografia, le sue rifrazioni e metamorfosi apparenti. Anche qualora non sia previsto l’uso di piani-sequenza, la scenografia del set è sempre maggiormente vissuta, o almeno ‘percorsa’ (quindi frazionata) rispetto a quella teatrale (che è invece più vista, contemplata dall’esterno nel suo insieme). La scenografia cinematografica, si può dire, configura una sequenza spazio-temporale percorsa da un occhio ravvicinato, ubiquo e in movimento: ne risultano, pertanto, valorizzati gli aspetti di ‘profondità’ rispetto a quelli frontali o bidimensionali.
Il termine s. designa talvolta una composizione autonoma formata da recitativo e aria; più frequentemente una parte di un’opera lirica, in cui si alternano recitativi, ariosi, vere e proprie arie o episodi cantabili. Nel 19° sec. si trova spesso l’indicazione s. e aria (o anche s. e duetto) per la combinazione di recitativo e aria. Musica di s. La musica che si inserisce in alcune parti di uno spettacolo teatrale, o in intermezzi, come accadeva in Italia nel Medioevo e nel Rinascimento, prima della nascita del melodramma. La musica di s. trovò inoltre vasta applicazione nel masque elisabettiano e nelle comédies ballets francesi. Una produzione particolarmente pregevole si ebbe in epoca classico-romantica con le musiche di W.A. Mozart (Thamos), L. van Beethoven (per Egmont di J.W. Goethe), F. Mendelssohn (Sogno d’una notte di mezza estate), R. Schumann (per Manfred di G. Byron), E. Grieg (per Peer Gynt di H. Ibsen) ecc. Tra gli esempi più notevoli del 20° sec. le musiche di s. scritte da C. Debussy per Le martyre de S. Sébastien di G. D’Annunzio e la collaborazione tra B. Brecht e K. Weill per Die Dreigroschenoper.
In psicanalisi si parla di s. primitiva per designare l’esperienza del bambino piccolo che ha assistito ai rapporti sessuali dei genitori o di altri adulti; tale esperienza è traumatica e, sebbene rimossa, tende a riapparire, più o meno deformata o simboleggiata, in sogni, sintomi e fantasie. ■TAV.