Il complesso delle attività artistiche, tecniche, industriali che concorrono alla realizzazione di spettacoli cinematografici (film) e anche l’insieme di questi, come opera complessiva, in quanto concreta espressione d’arte nel campo della fantasia o strumento d’informazione, di documentazione scientifica, a fini didattici, informativi, ricreativi.
Non molto dopo l’invenzione del nuovo mezzo si aprì nel mondo della cultura un dibattito teorico, molto vivace negli anni 1920, su come definire il c., su quali dovessero essere i suoi ambiti e le sue prerogative. Si andò consolidando una teoria del c. come espressione artistica, come un nuovo linguaggio destinato a grandi risultati e sviluppi. La tentazione di molti, però, era di applicare al c. le stesse teorie già consolidate per altre arti piuttosto che indagare sulle sue caratteristiche autonome e non mancarono polemiche da parte di quanti, invece, negavano al c. carattere di arte, o lo consideravano una semplice tecnica di riproduzione. A riflessioni di carattere più propriamente estetico si accompagnavano considerazioni sugli ostacoli rappresentati dall’apparato economico, nonché pigre resistenze rispetto alla metafora cinematografica che troppo si discostava dai modi e dalle forme già consolidati per le altre arti. C’era chi sosteneva che i film potevano solo raccontare, rappresentare il concatenarsi di eventi, ma il linguaggio cinematografico si espandeva in campi sconosciuti alla parola, senza alcuna subalternità al teatro, alla letteratura o ad altre forme, con un’autonomia che portò presto alla ricerca delle sue componenti stilistiche caratterizzanti: il movimento, la particolare utilizzazione del tempo, la visività (J. Epstein, L. Delluc), fino a formulare ipotesi di c. ‘puro’, svincolato da ogni rapporto con il reale. Il concetto di montaggio, soprattutto tra gli autori e teorici sovietici e poi anche francesi (per es., L.V. Kulešov, J. Mitry), fu un altro argomento molto discusso, per gli effetti prodotti dall’accostamento delle inquadrature nella fase di costruzione del film, attraverso la manipolazione del materiale girato.
Le origini. - Le origini del c. vanno rintracciate nei numerosi esperimenti sulla visione degli oggetti in movimento che si svilupparono nel corso del 19° sec. a partire dagli studi iniziati (1824) dal fisico inglese P.M. Roget. Una svolta di rilievo si ebbe con l’adozione del rotolo di pellicola trasparente e sensibile (film), messa a punto da G. Eastman (1888), e soprattutto con le invenzioni di T.A. Edison, che, spinto da interessi propriamente industriali, costruì nel 1889 il cinetoscopio, che consentiva la visione, attraverso una fessura protetta da una lente, di un film fotografico (alla velocità di 48 immagini al secondo) e che in breve si diffuse nelle sale di spettacolo delle principali città americane ed europee. Negli anni successivi numerosi furono i tentativi di proiettare su schermo i film del cinetoscopio: soprattutto in America dove C.F. Jenkins effettuò nel 1894 il primo spettacolo di proiezioni animate, seguito nel 1895 da W. Latham e T. Armat, che riportarono però scarso favore di pubblico; in Germania nel frattempo vi furono le proiezioni dei fratelli Anschütz, di M. Skladanowski e di O. Messter.
Un successo assai maggiore riportò il cinematografo di Louis Lumière (coadiuvato dal fratello Auguste), tanto che usualmente si fa cominciare la storia del c. proprio dalla sua prima proiezione di fronte a un pubblico pagante, effettuata il 28 dicembre 1895 nel Salon Indien del Grand Café del Boulevard des Capucines a Parigi, di una serie di film-documentari di 16 o 17 m (della durata di un paio di minuti ciascuno), la cui finalità preminente era quella di cogliere scene movimentate. Il cinematografo, che in breve si diffuse in tutto il mondo (e il cui nome si estese pertanto a significare l’intero campo di attività), era contemporaneamente macchina da presa, proiettore e macchina da stampa, capace di riprendere e proiettare le immagini fissate sul nastro sensibile mediante un sistema ottico-meccanico a movimento intermittente; esso deve gran parte del suo successo alla tecnica assai raffinata di L. Lumière, uno dei fotografi più celebri del suo tempo, e alla sua scelta di soggetti tratti dalla vita quotidiana, che ebbero la capacità di affascinare il pubblico, attratto dall’apparizione sullo schermo di ambienti e facce familiari o ingenuamente impaurito dal progressivo ingrandirsi sullo schermo di una sopraggiungente locomotiva.
A questo tipo di c. d’attualità si contrappose ben presto, in un’antitesi mai definitivamente superata, il c. fantastico di un altro pioniere francese, G. Méliès, volto al contrario a realizzare una sorta di teatro filmato: è a Méliès, soprannominato il ‘Giulio Verne’ della cinematografia, che si deve l’ideazione della maggior parte dei trucchi cinematografici (sostituzione per arresto, sovrimpressioni, dissolvenze, composizioni fotografiche, esposizioni multiple, sdoppiamento dei personaggi, modellini, riprese attraverso un acquario ecc.), e la costruzione nel 1897 del primo teatro di posa, dove girò la quasi totalità dei suoi film e da cui non si staccò più, fino a perdere i contatti con le ulteriori evoluzioni, che si susseguivano peraltro senza sosta, dell’ancor giovanissima settima arte, come fu soprannominato il cinema.
Fattore determinante di tale continua trasformazione dell’arte cinematografica (fenomeno che si protrae ancora ai giorni nostri) è l’aspetto eminentemente industriale del c. (a causa dell’alto costo di un film), che spinge pertanto alla ricerca di tecniche e di risultati sempre nuovi, capaci di conquistare il favore del pubblico; di conseguenza la storia del c. non può prescindere dall’analisi dei suoi aspetti industriali e quindi economici, tecnici, sociali.
- A partire dal 1896 si costituirono le prime grandi case di produzione, dapprima in Francia e negli Stati Uniti (Pathé, Gaumont, Éclair, Lumière, Edison, Biograph, Vitagraph), poi negli altri paesi, favorendo così il sorgere di cinematografie nazionali.
Dopo Méliès, la Francia continuò a distinguersi con le opere dell’abile e prolifico F. Zecca, il regista della Pathé, di L. Feuillade, il regista della Gaumont, con i primi film d’arte, che tentavano di nobilitare il c. avvicinandolo al teatro, e soprattutto con i suoi attori comici: André Deed, noto in Italia con il nome di Cretinetti, e Max Linder, che alle complicate gag di Deed sostituì l’assai più delicata comicità dell’imprevisto e dell’equivoco.
In Inghilterra si ebbero i film di W. Paul e quelli della scuola di Brighton (J. Williamson, G.A. Smith, A. Collins), che, girati per lo più in esterni, mostravano un particolare interesse verso la realtà sociale e adottavano tecniche d’avanguardia, quali l’alternanza tra primi piani e piani generali (nei celebri inseguimenti tra vittime, persecutori e salvatori), che diverranno poi patrimonio del genere western.
Negli Stati Uniti E.S. Porter, riprendendo in gran parte gli insegnamenti della scuola di Brighton, realizzò film a evoluto impianto narrativo, mentre W. McCutcheon e J.S. Blackton girarono numerose opere di tipo realistico.
Il c. danese fu caratterizzato dalla realizzazione di drammi mondani (diretti da A. Blom, U. Gad, H. Madsen), nei quali si impose per la prima volta il divismo su scala internazionale (in particolare con l’attrice Asta Nielsen del film Abisso, 1910).
Il c. svedese fu dominato dalle figure dei due registi-attori V. Sjöstrom e M. Stiller, entrambi volti alla creazione di uno stile nazionale, nel quale grande importanza aveva il paesaggio, e presso i quali si formarono attori che in breve raggiunsero una celebrità internazionale (G. Molander, E. Erastoff, L. Hanson, G. Ekman, G. Garbo); in Svezia si recarono nel 1920 anche i due principali registi danesi, B. Christensen e C.T. Dreyer, che vi realizzò solo un film prima di trasferirsi a Berlino.
In Italia, dove si costituirono diverse case di produzione (Cines, Ambrosio, Itala, Pasquali), si affermarono prevalentemente le realizzazioni di carattere storico, che culminarono nella produzione di G. Pastrone con i primi colossal della storia del c.: La caduta di Troia (1910) e soprattutto Cabiria (1914), in cui la complessità degli accorgimenti tecnici (specie nell’uso della carrellata) e del montaggio anticipano le successive evoluzioni del c. statunitense; maggiore autenticità raggiunse il c. di N. Martoglio, attento prevalentemente ai problemi sociali, nel quale si sperimentò l’efficacia del montaggio a contrasto, mentre in seguito andarono progressivamente prevalendo i drammi mondani (diretti da N. Oxilia, M. Caserini, E. Ghione, C. Gallone, A. Genina), che ben si prestavano a esaltare le capacità spesso un po’ troppo enfatizzate dei divi del tempo: I. Almirante Manzini, L. Borelli, F. Bertini, L. Cavalieri, A. Capozzi, M. Bonnard, E. Ghione, A. Novelli, per ricordare solo alcuni dei più celebri. La rapida fioritura del c. italiano decadde nel dopoguerra.
- Negli Stati Uniti dominava il trust Edison-Biograph (la Motion Picture Patent Company) sotto la guida di Jeremiah Kennedy; è in quest’ambito che si andò formando D.W. Griffith, uno dei padri del c.: dopo circa 400 film girati tra il 1908 e il 1912 come direttore artistico della Biograph (nei quali scoprì e formò attori come M. Sennett, M. Pickford, L. Gish), passò alla Triangle Film insieme a T.H. Ince e M. Sennett, ed è grazie a questi tre nomi che la c. statunitense raggiunse il proprio apogeo. Griffith realizzò Nascita di una nazione (1915), film ispirato a una visione nettamente razzista, che ebbe però il merito di rivoluzionare il quadro del c. statunitense, sia per la complessità della trama narrativa, sia soprattutto per il gigantesco successo commerciale, che diede il via a realizzazioni sfarzose, di costo elevatissimo. Nel film successivo, Intolerance (1916), il suo capolavoro, Griffith perfezionò la tecnica del montaggio alternato, ma riportò un clamoroso insuccesso di pubblico, forse per la tecnica troppo evoluta in rapporto ai tempi. Ince seppe dare dimensione artistica al genere western, sia come regista, sia come supervisore dei suoi collaboratori (in particolare R. Barker, nei cui film si affermò W.S. Hart, uno dei più grandi attori del c. western). Sennett creò un proprio stile comico, tra il grottesco e il nonsense (giovandosi inoltre di una raffinata tecnica di montaggio), e fu un eccezionale scopritore di talenti, tra cui: M. Normand, R. (Fatty) Arbuckle, L. Fazenda, B. Keaton, M. Swain, G. Swanson, H. Lloyd, H. Langdon, B. Crosby e soprattutto un giovane mimo inglese in tournée negli Stati Uniti, C. Chaplin, che, scritturato nel 1914, seppe in breve conquistare, forse come nessun altro, il favore del pubblico. Sin dalle sue prime prove Chaplin, anche per la formazione tipicamente teatrale, privilegiò la funzione dell’attore e della recitazione nei confronti della gag: ciò è visibile già nel ruolo di Charlie Chas (interpretato nel periodo con Sennett), ma appare tanto più evidente con la creazione nel 1915 del personaggio di Charlot, la cui coerenza divenne una delle chiavi di lettura del succedersi degli avvenimenti nell’arco di oltre quarant’anni: alla satira sociale dei primi cortometraggi seguirono opere di maggiore complessità, in cui l’esaltazione dell’intelligenza e dei buoni sentimenti si fondeva con la denuncia dell’ingiustizia sociale in una poetica del sentimento, quasi sempre priva di indulgenti lacrimosità. In coincidenza con il primo conflitto mondiale e la conseguente crisi del c. europeo, la cinematografia statunitense acquistò un’indiscussa supremazia commerciale: le case di produzione si ampliarono e diedero vita a fenomeni di concentrazione, come la Paramount, la Fox, l’Universal, e soprattutto la United Artists formata dai tre maggiori divi del tempo (M. Pickford, D. Fairbanks, C. Chaplin), cui aderì anche Griffith.
Al successo del c. statunitense, che si rifletteva nell’eccezionale sviluppo di Hollywood, una cittadina alle porte di Los Angeles destinata pressoché esclusivamente alla produzione dei film (nel 1920 vi si produssero circa 800 lungometraggi), concorreva sia la superiorità tecnica dei prodotti degli Stati Uniti, sia soprattutto la straordinaria fortuna che conseguì lo star system, per il quale la riuscita dei film era affidata non tanto al valore dei registi, quanto alla celebrità degli attori, che incarnavano ruoli stereotipi: W. Hart e T. Mix erano gli eroici cow-boy, M. Pickford (la ‘fidanzata d’America’) la giovinetta ingenua e sbarazzina, D. Fairbanks lo spadaccino atletico e acrobatico, R. Valentino l’amante fatale, Fatty il grassone un po’ tonto e bonaccione. Tra i giovani registi si affermò in modo particolare C.B. De Mille, che nella sua produzione assai ampia e prevalentemente commerciale seppe far uso del linguaggio cinematografico perfezionato da Griffith.
Il c. espressionista. - In Europa si andava affermando il c. tedesco, anche per effetto del raggruppamento nel 1917 dei maggiori produttori nel cartello dell’UFA (Universum Film Aktiengesellschaft); inoltre l’isolamento causato dalla guerra e il connesso sviluppo tecnico (delle apparecchiature ottiche ed elettriche, della pellicola Agfa ecc.) favorirono la formazione di una produzione nazionale. Si ebbero così da un lato le commedie brillanti e le colossali ricostruzioni storiche di E. Lubitsch, che riprese lo stile teatrale del suo maestro M. Reinhardt e che, passato in seguito negli Stati Uniti (1923), sfornò a getto continuo eleganti commedie cinematografiche, e dall’altro le più valide prove dell’espressionismo e del Kammerspiel cinematografico, il ‘teatro da camera’ incentrato sui moti interiori dell’anima e sulle dinamiche psicologiche: questi due filoni fecero entrambi capo essenzialmente a uno sceneggiatore di notevole valore, C. Mayer, cui si devono le sceneggiature dei principali film tedeschi tra il 1920 e il 1925. Il gabinetto del Dr. Caligari (1919) fu il primo film espressionista: diretto da R. Wiene, in esso ebbero importanza determinante gli scenografi (i tre pittori espressionisti del gruppo Der Sturm: H. Warm, W. Röhrig, W. Reimann); prospettiva, illuminazione, forme, architettura, tutto fu piegato a descrivere l’inquietudine degli stati d’animo, quasi che il film fosse una serie di ‘disegni vivi’, dominati da una fantasia macabra e ossessiva e resi in forme estremamente stilizzate. Caligari ebbe una forte influenza sulla produzione seguente: Il Golem (1920) di P. Wegener, Destino (1921) di F. Lang, Nosferatu (1922) di F.W. Murnau, Ombre ammonitrici (1923) di A. Robison, Il gabinetto delle figure di cera (1924) di P. Leni. Il Kammerspiel, pur conservando il simbolismo e la stilizzazione propri dell’espressionismo, si definì programmaticamente come un ritorno al realismo, nel rispetto rigoroso delle tre unità della tragedia classica; esso si fondava sulla semplicità della vicenda (ed era pertanto pressoché privo di didascalie), suoi temi ricorrenti erano l’inesorabilità della sorte umana e il crimine. Tra le opere più rappresentative: La rotaia (1921) e La notte di S. Silvestro (1923) del regista di origine romena L. Pick, La scala di servizio (1921) di Jessner e Leni, e in particolare L’ultima risata (1924) di Murnau, sul tema dell’inscindibile rapporto tra l’uomo e la sua ‘divisa’, che segnò l’apogeo e la conclusione del Kammerspiel. Murnau nel 1927 si trasferì negli Stati Uniti, dove realizzò Aurora (1927) e Tabu (1931, in collaborazione con il documentarista R. Flaherty), mentre in Germania proseguiva (fino all’avvento del nazismo) l’opera di F. Lang, volta soprattutto ad analizzare criticamente l’ingiustizia sociale.
Impressionismo e nuove avanguardie. - Negli stessi anni in Francia si andò formando una scuola di giovani registi intorno al romanziere, critico e regista L. Delluc, comunemente nota come impressionismo o prima avanguardia: loro intento preminente era quello di sviluppare l’aspetto tecnico-linguistico della cinematografia, oltre a calare la vita nel c. e far penetrare più profondamente il c. nella realtà sociale (furono tra l’altro i primi fondatori di cineclub); tra di essi si ricordano: A. Gance, sperimentatore di tecniche assai ardite e sofisticate; M. L’Herbier, caratterizzato da uno stile assai raffinato e dall’uso cospicuo di trucchi cinematografici; J. Epstein, in seguito autore di film improntati a un estremo sperimentalismo; G. Dulac, nota soprattutto per La souriante Madame Beudet (1922). Alla prima seguì presto la seconda avanguardia, intimamente legata alle correnti d’avanguardia delle arti figurative (in particolar modo al dadaismo): si ebbero così parallelamente ad analoghe esperienze di V. Eggeling in Svezia e di H. Richter in Germania, i film del pittore-fotografo dadaista Man Ray, del pittore cubista F. Léger, e il celebre Intermezzo di R. Clair (1924, su sceneggiatura del dadaista F. Picabia e musiche di E. Satie). È nell’ambito dell’avanguardia francese che prende le mosse la produzione di tre registi di particolare interesse: J. Cocteau, lo spagnolo L. Buñuel e l’olandese J. Ivens. Cocteau, che era anche poeta, pittore, paroliere, attore, realizzò una serie di film estremamente personali, che ben rispecchiavano gli aspetti più tipici della cultura francese, anche se talora appaiono appesantiti da un eccessivo estetismo. Buñuel realizzò i due più importanti film surrealisti (Un chien andalou, 1928, in collaborazione con il pittore S. Dalí; L’âge d’or, 1930). Ivens, al contrario, dall’avanguardia approdò al documentario di impegno sociale, affrontando la realtà di molti paesi, dall’URSS alla Spagna, dagli Stati Uniti a Cuba, al Cile, al Vietnam. Altro esponente di rilievo del documentario fu l’americano di origine irlandese R. Flaherty, soprannominato il ‘J.-J. Rousseau’ del cinema.
Importanza decisiva nella storia del c. ebbe la produzione sovietica all’indomani della rivoluzione del 1917. Lenin nel 1919 aveva nazionalizzato l’industria cinematografica e aveva affermato la priorità del c. rispetto alle altre arti, favorendo così il formarsi su vasta scala di sperimentazioni e di avanguardie. È in quest’ambito che si perfeziona il sistema del taglio del montaggio, per cui l’oggetto acquista vita solo quando è messo in relazione con altri oggetti, presentato come parte di una sintesi d’immagini separate. A differenza del primo grande padre del cinema, Griffith, che basava il proprio linguaggio in gran parte sui luoghi comuni dell’America del tempo e utilizzava il montaggio essenzialmente per legare insieme una storia (spesso a effetto), il messaggio dei sovietici fu fortemente innovatore e il loro montaggio assunse un valore ideologico. Tra le numerose esperienze alcune conservano un valore paradigmatico: il kinoglaz (cine-occhio) di D. Vertov non era una presa diretta della realtà, ma diventava «possibilità di rendere visibile l’invisibile, di rendere chiaro ciò che è oscuro»; S.M. Ejzenštejn firmò capolavori quali Sciopero (1924), La corazzata Potëmkin (1925), Ottobre (1928) e in seguito film incentrati sul tema dei rapporti tra il potere e le masse, fra la tirannide e la democrazia, caratterizzati da grande accuratezza formale (giovandosi anche della musica di Prokof′ev, in quella che fu detta la ‘sintesi audio-visiva’); i film di V.I. Pudovkin trattano essenzialmente il tema della progressiva acquisizione della coscienza di classe da parte di personaggi accuratamente delineati nella loro psicologia; la lirica oggettività dell’ucraino A.P. Dovženko, ben rispecchiava le sue affermazioni teoriche, secondo cui «la possibilità di realizzare film autentici è data quando il film cessa di essere il frutto di una precisa ideologia».
Negli ultimi anni del c. muto continuò la supremazia dell’industria cinematografica hollywoodiana, finanziata dal potere economico in ragione della celebre formula di W. Hays, presidente della MPPDA (Motion Pictures Producers and Distributors of America), secondo cui «la merce segue il film; ovunque penetra il film americano noi vendiamo una maggior quantità di prodotti americani». Accanto a una produzione tipicamente di cassetta (che ebbe il principale esponente in C.B. De Mille), maggior valore artistico raggiunsero le opere di alcuni registi europei trasferitisi negli Stati Uniti, come E. von Stroheim e J. von Sternberg, che con L’angelo azzurro (girato in Germania nel 1930) aveva creato il mito di M. Dietrich (una delle due grandi dive di questi anni, insieme a G. Garbo). Continuò inoltre il suo sviluppo la scuola comica americana, dove, a fianco della produzione chapliniana, si andarono affermando le figure di H. Lloyd, ottimista e sentimentale, H. Langdon, il goofer (diretto nei suoi film migliori dal giovane F. Capra), e soprattutto Buster Keaton, l’uomo che non ride mai, impassibile di fronte alle bizzarre e complesse situazioni in cui si caccia.
L’avvento del sonoro. - Fu segnato, nell’autunno del 1927, dal film americano Il cantante di jazz, diretto da un regista di scarsa notorietà, A. Crosland, e affidato soprattutto al virtuosismo di un celebre cantante di music-hall, Al Jolson; l’enorme successo di questo film favorì la diffusione del sonoro e già nel 1928 fu prodotto il primo film interamente parlato, Lights of New York di B. Foy. Il sonoro, che nei primi anni fu duramente avversato da gran parte del pubblico e dei cineasti, provocò profondi mutamenti all’interno del c., aprendo le porte al repertorio e allo stile teatrale (e del melodramma) e favorendo lo sviluppo e il sorgere di nuovi generi cinematografici. Nuovo impulso infatti ricevette il genere gangster (si pensi, per es., a Scarface, 1932, di H. Hawks, in seguito autore di altri ottimi film), come del pari si sviluppò la sophisticated comedy, nella quale, a fianco dei successi che continuava a produrre Lubitsch, si mise in luce un giovane regista siciliano, F. Capra, che con il suo ottimismo fiducioso seppe ben interpretare il clima del New Deal rooseveltiano; si affermò inoltre un tipo di comicità dell’assurdo, in cui la parola aveva un ruolo di rilievo, con S. Laurel e O. Hardy (Stanlio e Ollio) e soprattutto con i Fratelli Marx. Il sonoro favorì inoltre la ripresa del c. nazionale europeo, facendo diminuire la capacità di Hollywood di conquistare i mercati stranieri non essendo stata ancora messa a punto la tecnica del doppiaggio.
Il c. di propaganda e nuove tendenze. - In Germania, oltre a F. Lang, si segnalavano G.W. Pabst con Westfront 1918 (1930), sugli orrori della guerra, e L’opera da tre soldi (1931), dall’omonima opera di B. Brecht, L. Sagan con Ragazze in uniforme (1931) e S. Dudow con Kuhle Wampe (1932), sulla disoccupazione giovanile, che fu vietato dalla censura; in seguito la politica culturale del nazismo troncò del tutto l’evoluzione del c. tedesco, ridotto a mera funzione di propaganda. In Francia si andò formando la scuola detta del realismo poetico: ne fecero parte R. Clair, J. Feyder, J. Vigo e J. Renoir, già distintosi nell’epoca del muto. Soprattutto le opere di Renoir hanno influenzato in modo determinante il successivo sviluppo del c. francese e in parte anche di quello italiano. Nell’ambito del realismo poetico si formarono inoltre M. Carné e J. Becker. In Italia, negli anni 1930, a fianco dei film di più o meno esplicita propaganda del regime (diretti da C. Gallone, A. Genina, A. Palermi, G. Alessandrini), le sole opere di un certo valore furono quelle di A. Blasetti e di M. Camerini, specializzatosi nella commedia leggera. Caratteristico lo stile dei telefoni bianchi (1936-43), così chiamato perché spesso nell’arredo di scena compariva un telefono bianco, status symbol del benessere sociale. In Inghilterra vi furono gli interessanti esordi di A. Asquith e di A. Hitchcock e si andò inoltre affermando la scuola documentaristica di J. Grierson, nella quale si formarono numerosi registi (P. Rotha, H. Jennings) e cui aderirono anche R. Flaherty e A. Cavalcanti.
Nel frattempo negli Stati Uniti si misero in evidenza tre registi particolarmente interessanti: l’irlandese J. Ford, che nella sua vastissima produzione (circa 130 film) si è distinto in particolare nel genere western, con film privi di retorica e capaci di mediare buona parte dei valori della società americana del tempo; l’alsaziano W. Wyler, che diresse per lo più film di derivazione letteraria o teatrale, con una grande attenzione formale, compiendo nello stesso tempo una rigorosa analisi della società borghese; l’attore-regista O. Welles, che si impose giovanissimo negli Stati Uniti con film assai validi anche per l’originalità delle soluzioni formali (il campo lungo, flashback, deformazioni fotografiche, inquadrature oblique), e che proseguì in Europa la sua attività, incentrata sulla contrapposizione tra il potere e l’egoismo da un lato e la libertà e l’autenticità dell’esistenza dall’altro.
Notevole sviluppo raggiunse inoltre il c. d’animazione, soprattutto con W. Disney, che nel 1938 realizzò il primo dei suoi numerosi lungometraggi (Biancaneve e i sette nani). Questo genere avrebbe avuto un percorso molto articolato trovando grandi espressioni tra gli anni 1990 e il nuovo millennio. Grande considerazione merita l’opera di C.T. Dreyer, maestro della cinematografia, per l’isolamento in cui condusse la sua rigorosa ricerca di uno stile che fosse strumento di interpretazione della natura umana, caratterizzato dai primi piani dei volti e dall’estrema precisione dei particolari.
Il neorealismo. - Se nel corso della Seconda guerra mondiale la c. dei paesi belligeranti ebbe prevalentemente finalità propagandistiche, a partire dal 1942 si andò formando in Italia una scuola, il neorealismo cinematografico, destinata a esercitare una profonda influenza nella storia del cinema. Neorealismo in quanto propugnava la creazione di un c. ‘vero’, popolare e nazionale. Nel 1943 L. Visconti realizzò Ossessione, dove faceva la sua prima comparsa la vita quotidiana delle classi popolari, narrata in uno stile che aveva saputo far propria la lezione del realismo poetico (Visconti era stato a lungo assistente di Renoir); nello stesso anno venivano realizzati (entrambi su sceneggiatura di C. Zavattini) I bambini ci guardano di V. De Sica, che criticava l’ipocrisia della famiglia italiana, e Quattro passi fra le nuvole di A. Blasetti, che, pur nell’ambito della commedia brillante, denotava l’assunzione di uno stile più popolare e realistico. Di fondamentale importanza nella storia del neorealismo fu Roma città aperta (1945) di R. Rossellini, girato subito dopo la liberazione di Roma sui luoghi stessi dell’azione, che si impose proprio per la sua attualità e autenticità; a esso Rossellini fece seguire Paisà (1946), che descriveva sei episodi della guerra in Italia dal 1943 al 1945, per poi prendere strade diverse, caratterizzate però sempre da un estremo rigore formale. De Sica e Zavattini davano vita a un efficace quadro dell’Italia del dopoguerra con film nei quali l’autenticità della descrizione e l’incisività della denuncia sociale venivano talora soppiantate da un facile sentimentalismo e da un generico umanitarismo, mentre si affermava un’abbondante produzione di argomento resistenziale, dai toni epici e spettacolari (Il sole sorge ancora, 1946, di A. Vergano; Il bandito, 1946, di A. Lattuada; Caccia tragica, 1947, di G. De Santis). Nel 1948 Visconti realizzò uno dei migliori film del neorealismo con La terra trema (1948), caratterizzato da un estremo realismo e nello stesso tempo da una potente capacità plastica, cui fece seguire numerosi film, tutti di ottimo livello (per lo più trasposizioni di testi letterari), incentrati sul tema dei rapporti tra il mondo degli affetti e dei legami familiari e la struttura sociale.
Nell’ambito del c. neorealista si formarono i due autori che, insieme a Visconti e Rossellini, rappresentano le maggiori personalità del c. del dopoguerra: F. Fellini, che iniziò a fianco di Rossellini ma rivelò immediatamente (da Lo sceicco bianco, 1952, a Le notti di Cabiria, 1957) un immaginario personale, una notevole capacità di integrare onirismo e realismo, e M. Antonioni, che nello stesso periodo (da Cronaca di un amore, 1950, a Il grido, 1956), aprì il c. italiano ai temi esistenziali della cultura europea e della società industriale creando uno stile affatto personale. In quegli stessi anni la spinta al rinnovamento emersa nell’immediato dopoguerra degradò nella commedia di costume, nel bozzetto regionale e satirico (di cui Totò, creatore di un patrimonio comico di eccezionali doti mimiche, fu il notevole protagonista), mentre crescevano nuovi generi popolari, come il mitologico e il melodramma. Si ebbe al contempo un grande sviluppo del mercato cinematografico che vide l’affermarsi anche all’estero di uno star system nazionale (S. Loren, G. Lollobrigida, A. Magnani).
- Nel frattempo negli Stati Uniti proseguiva l’opera dell’inglese A. Hitchcock, che perfezionò il genere dei film a suspense secondo moduli di eleganza narrativa, anche se prevalentemente commerciali, mentre si andava affermando una generazione di giovani registi, che propugnavano un c. maggiormente aderente al reale e la cui attività fu pertanto in un primo tempo duramente ostacolata dalla Commissione per le attività anti-americane: J. Dassin, E. Kazan, J. Huston, J. Losey, F. Zinnemann, N. Ray, R. Brooks, R. Aldrich, B. Wilder. Verso la metà degli anni 1950, per fronteggiare una grave crisi del c. statunitense, dovuta sia allo scadente livello medio della produzione sia alla sempre crescente concorrenza della televisione, furono introdotte nuove tecniche (3 D o cinema tridimensionale, cinerama, cinemascope, rilievo, triplo schermo, schermi panoramici ecc.), che favorirono la realizzazione di kolossal (Vera Cruz, 1955; I dieci comandamenti, 1956; Ben Hur, 1959; Lawrence d’Arabia, 1962; Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo, 1963; My fair lady, 1964; Dottor Zivago, 1965).
In Francia, mentre proseguiva l’attività del realismo poetico, si affermavano R. Bresson e J. Tati. Il primo, nelle sue realizzazioni caratterizzate da un estremo rigore stilistico (è sua la definizione che il cinema «non è uno spettacolo, ma una scrittura»), affronta essenzialmente la tematica dei rapporti tra la realtà e i valori individuali e religiosi; J. Tati è il creatore dello stravagante Monsieur Hulot, la cui delicata sensibilità viene messa a contrasto con una società rozza e superficiale. Notevole successo riscossero inoltre i film a suspense di H.-G. Clouzot. Gli anni 1950 videro anche l’affermazione internazionale del Giappone con il cinema (anch’esso detto neorealistico) di K. Mizoguchi, H. Gosho, A. Kurosawa e S. Yamamoto.
Nuove tendenze. - Gli anni 1960 videro l’affermazione, un po’ dappertutto, di quei movimenti, comunemente definiti nuovo c., che si contrapponevano in modo programmatico al c. tradizionale; loro caratteristiche principali sono il rifiuto dei tradizionali canoni del racconto cinematografico, la sperimentazione di tecniche nuove (per es., il piano-sequenza al posto del montaggio a stacchi brevi), un maggiore impegno sociale e la ricerca di un sistema di diffusione alternativo, indipendente dai condizionamenti commerciali.
In Francia si formò (attorno al critico A. Bazin e alla rivista Cahiers du Cinéma) il movimento della nouvelle vague. Comprendeva autori piuttosto diversi tra loro e che assai presto presero strade divergenti, accomunati però dalla ricerca di uno stile più cinematografico e meno letterario (rifacendosi pertanto a Renoir, Rossellini, Bresson, Hitchcock); tra questi: C. Chabrol, F. Truffaut, A. Resnais, J.-L. Godard, J. Rivette, L. Malle, E. Rohmer.
Contemporaneo alla nouvelle vague francese è il movimento del free c. inglese (parallelo a quello degli ‘arrabbiati’ in letteratura), costituito da giovani registi che, continuando (e in parte criticando) la scuola documentaristica di Grierson, realizzarono dapprima documentari sulla vita delle classi popolari inglesi e quindi film più o meno duramente polemici nei confronti del sistema; tra questi: il critico e regista L. Anderson, K. Reisz, T. Richardson, J. Schlesinger. Risultati di maggior valore conseguirono due registi americani trasferitisi a Londra: J. Losey, che analizza con uno stile rigoroso e personale i rapporti umani all’interno di una società profondamente divisa in classi, e S. Kubrick, egualmente impegnato in un’opera di riflessione sulla società moderna.
In Svezia, I. Bergman nella sua produzione, in cui spaziò da temi metafisici ai problemi della coppia, a riflessioni sull’arte, a temi schiettamente lirici, seppe dar vita a un raffinato stile personale. Accanto a lui fermenti di novità comparvero nell’attività di registi maggiormente politicizzati, quali B. Widerberg, V. Sjöman, J. Troell.
In Germania, lo slogan «libertà dalle esperienze convenzionali, dalle coercizioni dell’industria, dalle influenze di gruppi esterni» fu alla base dello Junger deutscher Film di cui A. Kluge, J.-M. Straub, V. Schlöndorff, P. Fleischmann appaiono le personalità più interessanti.
Impegno, revisione di storiografie e valori ufficiali, coraggiosa sperimentazione di intrecci e linguaggi contraddistinsero in Cecoslovacchia la nová vlna con V. Chytilova, J. Němec, J. Jrěs, J. Menzel, E. Schorm, I. Passer, S. Uher e, soprattutto, M. Forman (in seguito trasferitosi negli Stati Uniti).
Sulla liberazione da ogni forma di colonialismo, la denuncia sociale, un profondo legame con le tradizioni nazionali si fondò, in Brasile, il cinema nôvo di N. Pereira, G. Rocha (il maggiore teorico e autore), L. Hirszman, R. Guerra, P.C. Saraceni, C. Diegues.
Verso il c. d’autore. - Tutti questi movimenti furono fenomeni d’avanguardia, che si integrarono più o meno rapidamente nella logica del mercato. Globalmente rappresentano l’ultima significativa esplosione di ricerca formale, produttiva, ideale e anche l’ultima grande reazione del mondo del c. in un sistema di comunicazioni di massa segnato dall’egemonia televisiva. Le acquisizioni, tuttavia, ebbero profonda eco: per es. nell’influsso di una messa in scena basata sull’unicità dell’inquadratura senza montaggio (il piano-sequenza), che trovò nel cinema dell’ungherese M. Jancsó e del greco T. Angelòpulos un’applicazione ossessiva e rituale; nella continua sperimentazione percettiva e nella ricerca documentaria del new american cinema e dell’underground di J. Mekas, R. Kramer, S. Brakhage, A. Warhol, K. Anger; e soprattutto nella pratica di un c. d’autore, capace di comunicare conoscenze, emozioni e idee prima di annullarsi nella ricerca dell’intrattenimento. Tutto ciò crea le condizioni di crescita o sviluppo di registi come i polacchi A. Wajda, R. Polański, J. Skolimovski, K. Zanussi, gli ungheresi A. Kovács e I. Szabó, i giapponesi N. Shima, S. Imamura, S. Terayama, Y. Yoshida, gli svizzeri A. Tanner e C. Goretta, gli spagnoli C. Saura e L. Berlanga, il portoghese M. de Oliveira, lo iugoslavo D. Makavejev, il canadese M. Snow, i cileni M. Littin e R. Ruiz, il boliviano J. Sanjinés, il messicano A. Ripstein, il filippino L. Brocka, gli iraniani D. Mehrjui e S. Shadid-Saless e, infine, per il c. sovietico S. Pardzanov, T. Abuladze, V.M. Šukšin, M. Chuciev, L. Šepitko, O. Ioseliani, E. e G. Šengelaja, A. Končalovskij e, in particolar modo, A. Tarkovskij.
Dalla commedia di costume al giallo. - In Italia, dove tali tendenze erano rappresentate da E. Olmi, M. Ferreri, P. P. Pasolini, M. Bellocchio, B. Bertolucci, i fratelli P. e V. Taviani, si perfezionò intanto la commedia di costume, ricco caleidoscopio grottesco e satirico in cui si rispecchiavano (grazie ad autori-attori come A. Sordi, N. Manfredi, U. Tognazzi, V. Gassman) le rapide trasformazioni di una società che da contadina diventava industriale. Tra i più versatili registi della commedia figurano M. Monicelli, D. Risi, L. Comencini, oltre a P. Germi e A. Pietrangeli, in cui non mancano venature di scetticismo; sul tracciato di un cinema di denuncia e indagine politica e sociale lavoravano invece G. Pontecorvo, F. Rosi, E. Petri. Va inoltre ricordato il cinema di V. Zurlini ed E. Scola, F. Maselli e M. Bolognini, V. De Seta e N. Loy; nell’ambito del cosiddetto western all’italiana, S. Leone, del genere giallo, D. Argento.
Gli anni 1960 furono caratterizzati anche da un autentico interesse per l’emergere di nuove cinematografie, da quella indiana (che vantava autori come S. Ray e M. Sen), a quella cubana (con registi come T.G. Alea e J.G. Espinosa), a quella cinese (dal vastissimo mercato sin dagli anni 1930 e 1940), mentre novità interessanti venivano dall’Africa, dove il c. sta compiendo i passi iniziali (il primo lungometraggio è del 1955 e del 1963 è Borom Saret del senegalese U. Sembene). Tra i paesi arabi si segnalò soprattutto l’Egitto con registi come Y. Chahine, S. Abu Seif, T. Salah, mentre in Turchia, dove il c. era presente sin da prima della guerra, emerse A. Yilmaz.
Negli anni 1970 il c. degli USA conobbe un profondo rinnovamento grazie alle produzioni indipendenti e ad autori come J. Cassavetes, D. Hopper, R. Altman, W. Allen, P. Bogdanovich, F.F. Coppola, B. De Palma, S. Peckinpah, A. Penn, A.J. Pakula, W. Friedkin, S. Pollack, B. Rafelson, M. Scorsese, P. Kaufman, M. Cimino. Questi registi ricodificarono i modelli della finzione cinematografica (ripensando e rielaborando inesauribilmente il c. classico) e misero a punto complesse rappresentazioni della realtà contemporanea che risentono dell’influenza europea, istituendo inoltre un nuovo star system (Al Pacino, R. De Niro, D. Hoffman, J. Fonda, R. Redford) che integrò con abilità i maggiori attori delle generazioni precedenti (M. Brando, P. Newman, R. Mitchum).
In campo internazionale continuò l’opera di maestri delle generazioni passate come Hitchcock (Frenzy, 1972), Buñuel (Il fascino discreto della borghesia, 1972), Bergman (Scene da un matrimonio, 1974), Kurosawa (Dersu Uzala, 1975). In Germania si faceva intanto largo una generazione di registi (R.W. Fassbinder, W. Herzog, W. Wenders, M. von Trotta) che, nel solco dello Junger deutscher Film, si impose sul mercato internazionale con film dallo stile raffinato e metaforico e dal contenuto spesso duramente polemico nei confronti del sistema sociale tedesco. Un gruppo di registi di solida professionalità (P. Noyce, B. Beresford, F. Schepisi e P. Weir) si mise in luce in Australia.
In Italia gli anni 1970 videro i grandi autori del dopoguerra dare ancora salda testimonianza della propria presenza: da V. De Sica (Il giardino dei Finzi Contini, 1971) a R. Rossellini che iniziò a sperimentare programmi storico-didattici per la televisione; da L. Visconti (Morte a Venezia, 1971) a F. Fellini (Amarcord, 1973), ad Antonioni (Professione: reporter, 1975), mentre giungevano a maturità espressiva, sulla scia delle utopie liberatorie del decennio precedente, registi come B. Bertolucci (Ultimo tango a Parigi, 1972) e M. Ferreri (La grande abbuffata, 1973). Nella seconda metà del decennio esordì una nuova generazione di registi quali P. Avati, N. Moretti, P. Del Monte, G. Amelio, S. Piscicelli, e all’inizio del decennio successivo un gruppo di autori-attori per lo più provenienti dal cabaret e dalla televisione, come R. Benigni, C. Verdone, M. Troisi, F. Nuti.
Caratteristica comune di questo nuovo c. italiano fu il trovarsi a operare in una realtà profondamente condizionata dalla proliferazione incontrollata dell’emittenza televisiva liberalizzata nel 1976, alla quale si dovettero sia la brusca contrazione del mercato, sia la notevole difficoltà degli spazi di sperimentazione. Anche negli Stati Uniti, dove nel corso degli anni 1970 si fissarono strategie produttive che stabilivano su un piano di reciproca autonomia i rapporti tra c. e televisione, la fine del decennio coincise con il prevalere di un interesse prettamente commerciale diretto in particolare al mondo dei preadolescenti, la fascia di pubblico ormai più consistente. I grandi successi che ne seguirono (basati su effetti speciali e un’abile sintesi di fiaba, avventura e fantascienza: da Guerre stellari di G. Lucas, 1977, a E.T. l’extraterrestre di S. Spielberg, 1982) dimostrano come il grande schermo tendesse ad amplificare oltre misura le proprie risorse spettacolari, semplificando al contempo i richiami narrativi.
Il c. d’autore riusciva altrove a farsi portavoce di significative trasformazioni socio-culturali (come nel caso del c. sovietico – A. German, G. Panfilov, K. Muratova, E. Klimov, A. Sokurov – legato al nuovo corso politico di Gorbačëv) o testimone di dolorose realtà (come nel caso di S. Cissé del Mali e del turco Y. Güney).
Al compiersi dei primi 100 anni di vita del c., si delineavano dunque segnali contraddittori: da un lato la crisi della grande sala appariva un fenomeno irreversibile (il rituale collettivo sostituito dal consumo individuale della televisione), dall’altro l’affermazione di un c. di dimensioni internazionali, capace di produrre spettacoli come L’ultimo imperatore di B. Bertolucci (1987, 9 premi Oscar) e Balla coi lupi di K. Costner (1990), cui faceva da contraltare l’affermazione di opere specchio di ambienti peculiari come Il tempo dei gitani di E. Kusturica (1988), Lanterne rosse di Z. Yimou (1991), Il ladro di bambini di G. Amelio (1992), a volte premiate da Oscar come Nuovo cinema Paradiso di G. Tornatore (1987) e Mediterraneo di G. Salvatores (1991). Accanto ai sempre più rari capolavori di stile e attualità epocale, come Il cielo sopra Berlino di W. Wenders (1987) e Il decalogo di K. Kieślovski (1989), si segnalavano, fra gli altri, i nuovi mondi di finzione del cinema di D. Lynch, il cinema militante di K. Loach, l’illustrazione raffinata dell’universo britannico di J. Ivory.
Nello stesso periodo in Spagna si è affermato l’estro creativo di P. Almodóvar, ideale continuatore del cinema di L. Buñuel. Fautrice di un cinema al femminile, centrato su personaggi di donne forti è la neozelandese J. Campion. Figura del tutto singolare è anche quella del canadese D. Cronenberg, autore di film sperimentali nello stile e audaci nei contenuti, ricchi di implicazioni filosofiche e psicanalitiche. Sempre dal Canada proviene J. Cameron, l’artefice di Titanic (1997), opera colossale, maggiore incasso della storia del cinema, che ha stimolato la rinascita di forme di divismo apparentemente sopite. Già da alcuni anni negli Stati Uniti una casa di produzione indipendente, la Miramax, gestita dai fratelli B. e H. Weinstein, aveva cominciato a proporre opere di grande interesse e a lanciare una nuova generazione di autori, destinati a ‘colonizzare’ in breve tempo Hollywood: Q. Tarantino, K. Smith, A. Minghella, S. Soderbergh, T. Haynes e L. Hallström. Il cinema afroamericano invece si è sviluppato intorno alla personalità del suo rappresentante più significativo, Spike Lee; accanto a lui, a parte i casi isolati di due autori come Mario Van Peebles e J. Singleton, sono stati alcuni attori ad aver reso sempre più preminente la comunità afroamericana all’interno di Hollywood; tra loro si segnalano D. Washington, S.L. Jackson, W. Smith, J. Foxx e H. Berry.
Quella di Hong Kong e quella coreana sono state le altre due cinematografie più vivaci del continente asiatico: riuscita revisione in chiave postmoderna dei generi tradizionali, straordinaria perizia tecnica e notevole sensibilità artistica sono stati gli elementi che hanno consentito a registi come John Woo, Tsui Hark, Stanley Kwan, Wong Kar-Wai di rendere celebre la cinematografia di Hong Kong e di raccogliere consensi in tutto il mondo. In Corea, invece, autori come Kim Ki Duk, Im Kwon-Taek, Lee Chang Dong e Park Chan-wook hanno imposto il loro sguardo sapendo proporre un cinema in cui tradizione, sperimentalismo, crudezza dei temi si fondono in una sintesi al tempo stesso poetica e affascinante.
Il c. si mostra oggi in una grande varietà di aspetti, non solo tecnici ma anche ideologici, con molteplici implicazioni sociali, politiche, di costume e di cultura, in una situazione fruitiva che accomuna il film d’autore e quello di consumo, i film prodotti in Europa e negli Stati Uniti e quelli provenienti da altre cinematografie, dando allo spettatore la facoltà di scegliere, senza dover subire l’antico condizionamento spettacolare.
Le forme di consumo dei film, un tempo unicamente legate alle sale cinematografiche, che erano i luoghi deputati alla loro proiezione e alla ricezione da parte del pubblico, sono oggi molti più articolate e differenziate. Mentre nelle città esistono ancora le tradizionali sale, alle quali si sono aggiunte le multisale e i multiplex, che offrono una vasta gamma di possibilità di fruizione del prodotto, tali sale tendono a scomparire nei centri minori. In compenso è aumentato considerevolmente l’uso della televisione come strumento per la diffusione del c. e, più recentemente, l’uso delle videocassette e dei DVD, che consentono una visione casalinga e individuale dei film.
In questo nuovo quadro di riferimento tecnico e formale, le nuove tecnologie hanno assunto un rilievo considerevole, modificando in molti casi non soltanto la forma ma anche la sostanza dello spettacolo. Da un lato i cosiddetti effetti speciali, cioè le tecniche che consentono di superare e stravolgere la semplice riproduzione della realtà in movimento (che era la base stessa del cinema dei Lumière), hanno modificato il tradizionale rapporto fra lo schermo e il pubblico, il quale è oggi molto più accorto, meno condizionato dall’immagine semovente e dalla sua relazione con la realtà fenomenica. D’altro lato, gli stessi effetti speciali hanno sovente spostato l’interesse dello spettatore dalla storia narrata alla sua rappresentazione filmica, dai fatti alle situazioni spettacolari, con il risultato che parte del pubblico viene attratto più dalla forma e dall’effetto che dalla vicenda in sé. Infine, l’avvento della tecnica digitale e, di conseguenza, l’abolizione della pellicola e l’uso di una tecnologia più leggera e molto meno costosa hanno consentito di realizzare film con scarsi vincoli produttivi, accentuando la libertà creativa del regista e moltiplicando le reali possibilità di accedere al cinema come mezzo di espressione o di documentazione.
In Italia, al c. è riconosciuto un rilevante interesse generale soprattutto in considerazione della sua importanza economica e industriale. L’intervento pubblico nel c., iniziato già durante il ventennio fascista, fu sviluppato nel secondo dopoguerra, al fine di sostenere il settore, che versava allora in uno stato di crisi. Il primo intervento legislativo organico si ebbe con la l. 1213/4 novembre 1965, avente gli obiettivi di favorire il consolidarsi dell’industria cinematografica nazionale, promuovere la struttura industriale, incoraggiare e aiutare le iniziative volte a valorizzare il cinema nazionale, assicurare la conservazione del patrimonio filmico a fini culturali ed educativi e la sua diffusione in Italia e all’estero, curare la formazione di personale specializzato e promuovere studi e ricerche nel settore, il tutto attraverso un adeguato sostegno economico. In seguito sono state varate numerose leggi di regolamentazione del settore, fra cui la l. 153/1994, che ha concentrato l’attenzione sulle attività di produzione e distribuzione del prodotto cinematografico e sulla qualità dei film. Il d. legisl. 28/22 settembre 2004 (riforma della disciplina in materia di attività cinematografica) ha disciplinato in maniera coerente l’intero settore, unificando in un testo unico le varie disposizioni e innovando il meccanismo di finanziamento pubblico del c., al fine di aumentarne l’efficienza. Il finanziamento è vincolato alla distribuzione del prodotto nelle sale (contributo automatico con obbligo di reinvestimento) ed è concesso in base a una serie di requisiti (qualità dei film precedentemente realizzati; stabilità dell’attività cinematografica e solidità dell’impresa).