Cinema
Alle origini del cinema non si trova alcun progetto relativo all'universo dell'intrattenimento o dello spettacolo né, tanto meno, alcuna istanza estetica.
Il cinema nasce in un clima culturale fortemente connotato da più o meno rozze ideologie positivistiche, attive nell'ambito del pensiero e in quello della ricerca scientifica, e nasce come il prodotto perfezionato di una scala di invenzioni tecniche, tutte finalizzate alla riproduzione visiva del movimento. La spinta verso l'osservazione analitica esercitata dai progressi delle scienze naturali si concretizza anche, da una parte, nel ricorso alla fotografia e alle sue possibilità di liberare l'oggetto analizzato dalla dimensione del tempo; dall'altra, nel tentativo di restituire all'occhio umano le componenti fondamentali di un fenomeno sul quale da sempre si sono accaniti filosofi, matematici e fisici: quello dello spostamento dei corpi nello spazio e del rapporto conseguente fra spazio e tempo. Dall'incrocio fra la fotografia e gli esercizi di restituzione illusoria del movimento nasce appunto il cinema, desiderato e voluto come strumento di indagine scientifica e quindi, secondo gli ingenui parametri culturali della fine del secolo scorso, come strumento di riproduzione speculare della realtà o, almeno, delle sue manifestazioni esteriori, disponibili al controllo dei sensi umani.
La fotografia aveva immediatamente colpito la fantasia più che la ragione dei suoi utenti, proprio perché i suoi segni congelavano la realtà, la liberavano dal suo divenire nel tempo e la trasformavano in qualcosa di diverso rispetto all'oggetto fotografato: qualcosa che acquistava nella stampa una sua autonomia, una sua indipendenza di significazione e di espressione rispetto allo stesso oggetto. La sintesi fra fotografia e movimento ridusse invece il potere fantastico e liberatorio dell'immagine, limitandola al ruolo di uno strumento di conoscenza sensoriale nei confronti della realtà materiale nella quale siamo immersi: o, almeno, questo era il vero fine istituzionalmente attribuito al cinema e per il quale si erano venute legittimando tutte le ricerche che finirono per produrlo. La fotografia era subito stata vissuta come un luogo di ricreazione e di reinvenzione del mondo, come la traccia poetica di un divenire che si era già consumato prima del momento della fruizione; il cinema era invece nato come uno strumento di ripetizione indefinita di questo divenire, addirittura di dilatazione o di costrizione temporale del suo fluire registrato sulla pellicola.
Alla fotografia la sua natura e il suo uso attribuirono spontaneamente una funzione poetica o, comunque, di astrazione fantastica dai suoi referenti; al cinema fu imposto come fine la produzione di un 'effetto di realtà', che ne marcherà per sempre la storia artistica e industriale. Strumento di riproduzione perfetta, il cinema, e quindi strumento da laboratorio, strumento di analisi, strumento al servizio di una visione critica, di un'osservazione immune da impressionismi o dalle possibili lacune dell'oblio. Quando i fratelli Auguste e Louis Lumière cominciarono a far roteare le manovelle delle cineprese davanti all'uscita delle loro officine o nella stazione di La Ciotat non sospettavano di aprire una pagina nuova nel libro dell'espressione umana, ma erano molto probabilmente convinti di inserirsi in una carovana di invenzioni omogenee, destinate prima a decostruire e poi a riprodurre sulla pellicola il movimento: tutt'al più, pensavano di estendere il campo d'azione di questo tipo di apparecchiature dall'universo dello sperimentalismo scientifico a quello dell'informazione, della comunicazione di dati visivi derivati da qualunque tipo di realtà.
Ma queste intenzioni rigorosamente riproduttive furono presto smentite o, almeno, contraddette dai fatti. Si costatò che le 'neutrali' riproduzioni di frammenti dinamici della realtà finivano spesso per trasformarsi in raccontini piacevoli, in affascinanti narrazioni che coinvolgevano le reazioni emotive degli spettatori molto di più della loro attenzione conoscitiva. Il cinematografo consentiva di riprodurre il movimento, ma anche di rallentarlo o di accelerarlo; consentiva addirittura di realizzare l'impossibile e per tanti secoli vagheggiata inversione degli accadimenti e delle azioni umane: tutto poteva essere rivisto (e rivisitato-rivissuto) dalla fine all'inizio, tutto poteva concedersi ad attualizzazioni diverse, visti i poteri di cancellazione temporale e di riabilitazione esistenziale rivelati dalla macchina-cinema.
La dimensione del fantastico e del magico cominciò a interferire con l'istanza realistica, che qualificava comunque la natura del mezzo, e alle possibilità di alterazione temporale si aggiunsero anche quelle derivate dal progresso tecnico e relative ai trucchi di sparizione, riapparizione, ubiquità, sdoppiamento, sovrapposizione onirica. Il laboratorio dello scienziato si trasformava un poco alla volta, per colpa della stessa invenzione, nell'antro del mago. Nello stesso tempo la presentazione di un'immagine della realtà filtrata attraverso un punto di vista fisico e concreto come quello dell'obiettivo spingeva gli spettatori (e poi gli 'autori') a collocare la loro esperienza visiva nell'ambito del racconto e, quindi, a rinforzarne i parametri fantastici.
Il narratore, infatti, qualunque sia il mezzo al quale ricorre, si colloca in un luogo prospettico, osserva le cose da un punto di vista, si impegna in uno sguardo che valorizza alcune cose per emarginarne altre, uno sguardo che lo fa uscire dall'universo del racconto e gli attribuisce un ruolo di distacco, di controllo a distanza. Si può pensare, allora, che il cinema abbia fatto subito riferimento alla dimensione narrativa, perché nel suo esercizio il punto di vista agisce meccanicamente: ogni immagine è il frutto di uno sguardo la cui origine è simbolicamente riferibile al soggetto che enuncia (e che narra e che, soprattutto, 'vede'), ma concretamente all'obiettivo della macchina da presa.
Il cinema delle origini, nonostante i suoi impegni e le sue illusioni scientificamente riproduttive, dimostrava già strutturali tendenze a costituirsi in un luogo di storie 'forti', di racconti emozionanti, di personaggi romanzeschi. E anche quando il racconto non interveniva esplicitamente nell'organizzazione del materiale visivo, anche quando il cinema si riduceva a un'effettiva trasposizione delle immagini di una certa realtà sullo schermo, la semplice successione nel tempo di segni dinamici (o messi in movimento dalla stessa successione) induceva nello spettatore un tipo di fruizione che poteva trasformare l'istanza riproduttiva di base, arricchendone o comunque deviandone i significati. L'invenzione del montaggio accelerò questo processo di autonomia espressiva dell'immagine rispetto al suo oggetto referente: nella misura in cui si allineavano più elementi, più azioni e più inquadrature in una successione cronologica, si finiva per stabilire fra di essi un concatenamento causale e per costituire il soggetto delle diverse riprese in azione, come le classiche esperienze di Kulešov e quelle più recenti di Michotte hanno sufficientemente confermato. I fratelli Lumière furono indotti dalla loro stessa invenzione a girare piccole storie, racconti brevi, quasi sempre con un taglio comico: si spinsero ai limiti della provocazione fantastica, pur rispettando sempre i fondamenti realistici del mezzo, la verosimiglianza figurativa delle sue immagini.
Georges Méliès, che iniziò la sua attività nel 1896, quasi un anno dopo la prima proiezione pubblica dei Lumière, trasportò decisamente il cinema nella dimensione del magico, dell'inverosimile, del trucco sconvolgente e convincente; le sue invenzioni fecero sì che il cinema abbandonasse qualunque tipo di rapporto con le motivazioni scientifiche della sua storia tecnica e si trasformasse in una grande fucina di sogni e di bizzarrie.
Da sempre il cinema viene considerato come orientato secondo due vie: quella realistica (e informativa, documentaristica, scientifica, riproduttiva) dei Lumière e quella fantastica e magica di Méliès. Ma questa differenziazione non è ben marcata e si carica spesso, come abbiamo visto, di ambiguità: perché la fedeltà riproduttiva sconfina spesso nei territori della ricreazione fantastica e la non-referenzialità immaginifica può aiutare a cogliere aspetti della realtà molto più veri e profondi di qualunque descrizione che si limiti alla superficie delle cose. Un uomo di cinema originale e intelligente come Jean-Luc Godard capovolse infatti l'interpretazione tradizionale del rapporto fra i Lumière e Méliès, affermando che proprio ai primi si ispira il filone fantastico del cinema, un cinema che troverebbe invece nel lavoro del 'mago' le radici del suo 'fare' scientifico, del suo muoversi come riflesso naturalistico della realtà. Al di là di queste distinzioni e di queste inversioni di tendenza, che spesso sfiorano le più inutili sofisticazioni, resta comunque il fatto che il cinema è nato come uno strumento di indagine scientifica e che si è immediatamente trasformato in una delle più grandi fabbriche dell'immaginario di tutti i tempi, pur rispettando anche e frequentemente le motivazioni della sua origine.
Dai laboratori si è presto riversato nei circuiti della distribuzione e dell'esercizio; agli occhi del ricercatore ha preferito sostituire quelli dello spettatore. Come l'astronomo può subire l'incanto poetico dell'oggetto del suo sguardo, le immagini in movimento hanno presto incantato milioni di occhi. Il mondo si è fatto spettacolo sugli schermi di tutto il mondo. Spettacolo: mostra di oggetti e di azioni. Il cinema è entrato subito nell'ordine della messa in scena, della finzione e, quindi, del discorso. Nonostante la natura iconica dei suoi segni spingesse verso un uso 'diretto' dell'immagine in movimento, verso la rinuncia a ogni tipo di mediazione linguistica, tanto dalla parte dei produttori di senso quanto da quella degli spettatori, il cinema cominciò presto a 'parlare', a persuadere non solo in virtù dell'eloquenza e dell''evidenza' dei suoi materiali, a raccontare.
Il cronofotografo a pellicola o a lastra e il fucile fotografico di Marey, fisiologo francese; gli studi sui movimenti del cavallo e degli atleti del tedesco Auschütz; quelli sul movimento geotropico delle piante del botanico Pfeffer; il lavoro 'cinematografico' di molti chirurghi, che registravano le loro operazioni negli ultimi anni del secolo scorso (v. Tosi, 1984; tr. it., pp. 17-26): questi elementi, fra gli altri, caratterizzarono il contesto dell'invenzione del cinema. Nessuno di questi e degli altri scienziati coinvolti inconsapevolmente nell'avventura si immaginava che cosa avrebbero potuto produrre le loro ricerche, una volta che i risultati avessero scavalcato le pareti dei loro laboratori. Paradossalmente, la scienza apriva le porte alla magia dell'industria culturale.
Perché il cinema, nato come strumento di indagine scientifica, ebbe successo come fabbrica dell'intrattenimento e come fucina delle emozioni spettacolari? Si potrebbero dare molte risposte di pertinenza diversa a questo interrogativo, ma preferiamo scegliere la via di un'attenzione alla natura del processo simbolico che l'immagine in movimento mette in atto.
Il cinema ha quasi sempre prodotto testi nei quali, apparentemente, è assente il soggetto dell'enunciazione, colui che 'parla', colui che ha organizzato i materiali filmici in un discorso. I film, lo si diceva già nel cap. 1, si sono quasi sempre manifestati come 'mostre' di oggetti e di azioni e hanno spesso mascherato le loro strategie comunicative, le fasi argomentative del loro procedere. Eppure, ogni film è retto da un soggetto simbolico, da un'origine del suo discorso, che si costituisce come 'io' nello scambio comunicativo instaurato fra lo schermo e lo spettatore. Questo 'io' immanente al film, che 'parla' nel film, costruisce anche il 'tu' del destinatario: progetta cioè, nel film, il modo dell'impatto fra lo spettatore e il testo.
Fino a questo punto, nulla di nuovo: si tratta di operazioni simboliche che si producono in qualunque tipologia di testi e di comunicazione. La novità del cinema, derivata dalla combinazione fra la 'fedeltà' dell'immagine fotografica e la riproduzione del movimento, è consistita proprio nel fatto che l''io' immanente al film solitamente si annulla e fa sì che il suo simulacro vuoto sia riempito dallo stesso spettatore, convinto di occupare a sua volta il ruolo di soggetto, di origine del discorso o, almeno, dello sguardo.Il soggetto dell'enunciazione si ritrae, apparentemente, dai materiali del film, rinuncia a ogni tipo di presenza e lascia, apparentemente, il suo posto allo spettatore. Questi si trova di fronte a un universo di cose e di azioni, che sono già state 'viste' e strutturate espressivamente da un 'assente': quanto l'immagine mostra è un complesso di elementi significanti, ma significanti proprio perché visti in un certo modo e perché indicano anche l'assenza del soggetto che li ha guardati.
Lo spettatore è spinto a sostituire il soggetto dell'enunciazione, e quindi a identificarsi con lui, a sentirsi lui stesso soggetto, a convincersi che il suo sguardo sulle cose del film è primitivo e originale. Il suo sguardo è già costruito e guidato, perché qualcuno ha già visto per lui e gli fa credere di essere il soggetto della visione, lo colloca nell'ordine di un discorso in cui tutti i ruoli, tutte le articolazioni, tutte le progressioni e, soprattutto, tutte le modalità sono programmate. Quanto più il soggetto enunciatore si nasconde e, quindi, quanto più il film si manifesta come universo autonomo e autosufficiente, tanto più lo spettatore è convinto di produrre il suo ruolo, senza accorgersi di trovarselo già precostituito. Uno dei fondamenti della fascinazione cinematografica consiste proprio nell'apparente soggettivizzazione dello spettatore, che è spinto a sentirsi l'origine di un'enunciazione senza essere consapevole della sua predeterminazione: è spinto a sentirsi soggetto a pieno titolo.
Lo spettatore cerca di stabilire in qualche modo un rapporto sostitutivo di quello fisico, che gli è negato, con il mondo visivo o audiovisivo dello schermo. Ricorre quindi al proprio sistema simbolico e dà corso a una messa in scena: mette in scena il rapporto fra se stesso e l'universo significante del film, la sua soddisfazione e la sua insoddisfazione. Lo spettatore si riproduce simbolicamente in un simulacro che tende a essere omogeneo a quello costruito e lasciato nel film dal soggetto enunciatore. Questi ha prodotto materialità illusorie per mezzo di uno 'sguardo' che le ha collocate nello spazio simbolico di un discorso e lo spettatore trasforma a sua volta la propria fisicità, il proprio corpo, in una forma simbolica e immateriale (omogenea alle tracce lasciate dal soggetto assente) per entrare in rapporto con quel mondo di fantasmi: si può dire che il corpo dello spettatore 'allunghi' la sua azione costruendosi un 'altro' di natura simbolica, costruendosi cioè una vera 'protesi' simbolica (v. Bettetini, 1984, pp. 25-29).
La protesi è, infatti, un apparato che sostituisce un organo mancante o asportato; ma, in senso più largo, è anche un apparato che estende il raggio d'azione di un organo, come un megafono, una lente, un periscopio (v. Eco, 1985). Lo spettatore cinematografico non ha bisogno di protesi visive o auricolari, ma l'universo costruito dalle immagini, per quanto verosimile e credibile, non agisce su tutti i suoi organi di senso: mancano gli odori, le sensazioni del tatto e quelle del gusto. Le immagini dello schermo si propongono come un mondo interagente con il corpo dello spettatore, ma questo corpo, a causa della frustrazione subita da alcuni sensi, non sente se stesso come attore di quel mondo. E allora finisce per sentirsene autore: supplisce alla sua impotenza sensoriale con un apparato simbolico che sostituisce l'azione dei sensi non stimolati; appunto, con una protesi simbolica.
Questa protesi non sostituisce organi mancanti e non estende il raggio d'azione di qualche organo, ma 'finge' il funzionamento recettivo di organi presenti e non stimolati direttamente. Si potrebbe dire che tutto il corpo dello spettatore si protende in una protesi simbolica, che è spinta dal film a ricalcare il simulacro del soggetto enunciatore assente: gli occhi di questi, le sue orecchie, la sua cinestesia diventano gli organi di senso del corpo simbolico prodotto dallo spettatore, il quale può interagire con il testo e può anche non lasciarsi plagiare dal progetto che è immanente allo stesso testo.
Il cinema ha sempre prodotto, fin dalle sue origini, effetti di realtà e di verità: l'iconicità dei suoi segni dà un'impressione di ambiguità, di polivalenza semantica e, nello stesso tempo, di credibilità. La credibilità degli avvenimenti e degli oggetti mostrati dalle immagini è stata inoltre rinforzata dall''ideologia presenzialistica' (dal fingere, cioè, che le cose siano davvero lì, al posto delle loro immagini sullo schermo) che ha quasi sempre dominato la produzione di senso nei film.
Ma il film riduce il campo di possibilità del reale e ne propone una versione 'verosimile': è proprio la verosimiglianza una delle istanze fondamentali della messa in scena cinematografica, in quanto è una categoria culturale che si manifesta come il frutto delle opinioni, delle credenze e delle stesse abitudini discorsive della società che la produce. Essa è il fine di una retorica, che intende indurre nello spettatore un comportamento percettivo e conoscitivo apparentemente analogo a quello svolto nelle pratiche abituali di apprendimento e di giudizio. Solo che l'evidenza della cosa è sostituita, nel cinema, dagli effetti di realtà prodotti da segni formalmente simili alle cose, mentre la costruzione del giudizio è spesso nascosta nella stessa falsa evidenza dell'oggetto-immagine.
Ed è proprio questa forzatura verso l'evidenza a gratificare e a soddisfare lo spettatore più ingenuo, a indurre in lui il tipo più completo di assenso: quello della certezza. Normalmente la certezza consiste in un assenso complesso, dato dopo una riflessione o sollecitato dalla palese evidenza dell'oggetto: ma nella tradizione industriale e commerciale del cinema non è quasi mai prevista la possibilità riflessiva dello spettatore (tutto tende ad apparire semplice, immediato, inconfutabile) e l'evidenza è costruita sui principî della verosimiglianza e della pubblica opinione. I sistemi retorici che hanno dominato la produzione industriale, e che molto probabilmente saranno attivi con determinazione anche nel futuro, favorendo il successo popolare dei suoi prodotti, sono quelli sinteticamente descritti poco sopra, e tutti iscrivibili nella nozione sovrana di 'verosimiglianza'.
Anche il ricorso al racconto e alle strutture narrative, di cui abbiamo parlato nel cap. 1, può essere interpretato nella stessa prospettiva di verosimiglianza: il racconto è un modello culturale di comunicazione nel quale assumono un valore rilevante, infatti, le funzioni dell'opinione e della credenza. In esso l'argomentazione astratta è sostituita dall'evidenza dei fatti, senza che vengano di norma rivelati i progetti interpretativi e persuasivi che si accompagnano alla sua costruzione. La cronologia del racconto produce, insomma, un effetto di verosimiglianza deterministica che, incrociato con quello prodotto dalle immagini in movimento, esaspera il fascino suadente e acriticamente gratificante dell'istituzione cinematografica.
Spettacolo (mostra fotodinamica) e racconto sono dunque i due grandi modelli che dominano la produzione di senso nelle finzioni del cinema, così come in quelle della televisione e del teatro, assumendo configurazioni diverse di reciproca gerarchizzazione. In genere, il cinema tende a far prevalere l'istanza narrativa su quella spettacolare, nonostante sia sempre stato celebrato come il luogo di esercizio privilegiato del visivo; la televisione tende a un equilibrio fra i due modelli e il teatro tende a privilegiare lo spettacolo, la mostra-per-la-visione, rispetto al racconto.
Le motivazioni scientifiche che hanno favorito l'avvento del cinema e le ricerche tecniche che gli hanno consentito di realizzarsi come strumento adatto alla riproduzione visiva del movimento ne hanno continuamente caratterizzato l'evoluzione, fino ai nostri giorni. Nonostante si sia distaccato ben presto, al livello industriale-narrativo, da quelle premesse, gli sviluppi tecnici del mezzo sono sempre stati indirizzati verso l'accentuazione delle sue facoltà illusorie e riproduttive. Le sue invenzioni sono state tutte motivate e poste in gestazione dal desiderio di pervenire al possesso di una macchina mostruosa, capace di duplicare il mondo.
La tecnologia visiva del cinema riguarda ovviamente, nei suoi aspetti produttivi, la pellicola, il sistema ottico, le predisposizioni del materiale destinato a essere inquadrato (il cosiddetto 'profilmico'). Tutte le cure chimiche dedicate alla pellicola e finalizzate, fondamentalmente, ad aumentarne il grado di sensibilità alla luce, si iscrivono in una prospettiva di speculare e passiva riproduzione della realtà traguardata attraverso l'obiettivo. Quanto più una pellicola è sensibile, tanto meno è necessario il ricorso a interventi esterni (illuminazione, spostamenti di corpi, di oggetti o della stessa cinepresa), che potrebbero rischiosamente deformare la traccia 'spontanea' lasciata dal profilmico sulla superficie del film sottoposto all'azione della luce.
Ma anche le invenzioni meccaniche, relative allo scorrimento della pellicola e alla sua velocità, hanno sempre mirato a incrementare l'illusione riproduttiva dell'immagine cinematografica: un poco alla volta, si è arrivati infatti a quella velocità di 24 fotogrammi al minuto secondo, che si è rivelata come la più adatta per consentire all'occhio dell'uomo di immergersi in un'acritica e consolatoria illusione percettiva (solo la televisione altera, come è noto, questo paradigma, utilizzando un pennello elettronico che 'legge' lo schermo 25 volte in un secondo).
Per quanto riguarda il sistema ottico, gli obiettivi di una cinepresa sono andati attestandosi nel tempo in modo da poter esser suddivisi in tre grandi categorie: i normali, che consentono una riproduzione della realtà apparentemente non deformata e simile all'appercezione dell'occhio umano; i lungofocali, che avvicinano per ingrandimento la realtà e che, nello stesso tempo, ne deformano l'immagine per compressione-riduzione della profondità; i grandangolari, che allontanano la realtà e la deformano per dilatazione-estensione della stessa profondità. Orbene, la stragrande maggioranza delle inquadrature girate in tutta la storia del cinema ha fatto ricorso a obiettivi 'normali' proprio al fine di evitare deformazioni evidenti nella costruzione dell'immagine: quelle deformazioni che hanno consentito l'affermazione dei pochi episodi di ricerca linguistica ed espressiva (pochi rispetto alla quantità dell'intera produzione) destinati a nobilitare la routine 'speculare' del cinema industriale-narrativo. Anche gli specchi, infatti, si consentono a volte licenze deformanti, soprattutto nei baracconi delle fiere; e il cinema ha avuto molto a che fare, alle sue origini, con questi luoghi dello spettacolo popolare.
Per quanto riguarda, infine, gli interventi sul profilmico, è opportuno ricordare che tutte le ricerche tecniche nel campo, per esempio, dell'illuminazione sono state finalizzate al conseguimento di una luce qualitativamente vicina a quella naturale e che quindi non incidesse, in virtù delle sue componenti cromatiche, sulle gradazioni tonali dell'immagine in bianco e nero, rispettando il modello di una fruizione diretta dell'oggetto rappresentato; con l'avvento del colore queste attenzioni si sono ovviamente accentuate e la neutralità cromatica della lampada illuminante si è trasformata nella meta di una scalata sofferta in una dimensione di rigoroso perfezionismo.
Anche l'invenzione del colore, fra l'altro, può essere valutata in una prospettiva analoga a quella che struttura queste note: il colore non fu introdotto per consentire al mezzo sofisticate audacie nel campo della sperimentazione espressiva o spericolate ricerche attorno ai nuclei pittorici della sua sostanza, del suo 'dover' essere. Il colore, per quanto a volte usato con finalità artistiche e di autonomia espressiva rispetto alle cromie della realtà, fu 'inventato' per conseguire immagini più vicine ai prodotti dello sguardo umano, quando non è mediato da meccanismi secondari: fu inventato perché il cinema fosse ancora di più specchio del mondo. E poco importa che il colore del film non possa mai essere del tutto fedele a quello del profilmico, nemmeno ricorrendo alle più recenti e sofisticate tavolozze offerte dai progressi della chimica (o da quelli dell'elettronica, per quanto riguarda la televisione): le innovazioni tecnologiche si sono sempre indirizzate verso il mito del perfetto raddoppiamento.Lo stesso mito è stato protagonista a proposito dell'avvento del sonoro, quando l'immagine cercò di strappare alla realtà i suoi suoni, i suoi rumori, le sue voci.
La sonorizzazione in diretta dell'immagine era così finalizzata alla produzione di un segno più 'completo' di quello visivo nei confronti del suo referente, da indurre un immediato decadimento di qualità nella produzione filmica: il cinema sonoro perse infatti in pochissimo tempo i valori espressivi guadagnati un poco alla volta nell'ambito del muto e proprio in virtù dello scarto semantico fra l'immagine dello schermo e il risultato di un'appercezione diretta della realtà. Il cinema sonoro si appiattì in un gesto di opaca riproduzione del profilmico, sollevando le ire e suscitando indirettamente i progetti creativi dei tre registi russi (Eisenstein, Pudovkin e Aleksandrov) che teorizzarono il cosiddetto 'asincronismo' (lo scarto semantico, la mancanza di motivazione reciproca) fra immagine visiva e immagine sonora per ridare spessore poetico al film (questa teoria 'contrappuntistica' fu esplicitata in un manifesto firmato il 20 luglio 1928).
Ma anche l'asincronismo rimase un'ipotesi verificabile solo nell'ambito della ricerca e dell'avanguardia, mentre la produzione 'normale' continuò ad assestarsi lungo le linee di forza dell'illusione di realtà e della conseguente carica di credibilità del segno filmico. Perfino la possibilità di lavorare separatamente sulla banda visiva e su quella sonora del film e la conseguente invenzione del doppiaggio (la possibilità, insomma, di un'edizione sonora a posteriori dopo che si è definito il montaggio delle inquadrature) non hanno determinato alcun sensibile spostamento della produzione media dalla strada maestra della più attendibile verosimiglianza.
La ricerca tecnologica si è poi spinta nei territori della tridimensionalità, visiva e sonora: nei territori, cioè, di una spazializzazione dei segnali, che si rifacesse ancora una volta alle istanze del rapporto diretto con la realtà. La luce polarizzata (con i relativi occhiali) ha consentito di illudere ancora di più lo spettatore circa la profondità del campo dell'immagine, nonostante sia stato accertato che questa illusione di profondità è già garantita dai movimenti interni all'immagine che si svolgono nelle direzioni perpendicolari al piano dello schermo. Da parte sua, la distribuzione fittizia di più segnali acustici fra sorgenti dislocate in diversi punti della sala di proiezione immerge lo spettatore in un rapporto illusorio con lo spazio acustico a tre dimensioni, entro il quale vive le sue quotidiane esperienze di ascoltatore. Questo processo di alchimia riproduttiva non ha potuto trascurare le dimensioni e i rapporti fra i lati dello schermo: se lo si può definire come una finestra, se ne possono anche mettere in crisi la funzione e, soprattutto, la configurazione.
Lo schermo rettangolare, costruito in modo da occupare tutto l'angolo visivo dell'occhio umano, è stato a un certo punto allungato (cinemascope) e poi addirittura decomposto in tre immagini collocate in una successione di coincidenze lungo un lato verticale (cinerama), proprio per consentire all'occhio dello spettatore di muoversi lungo la sua lunghezza e di avere la sensazione (l'illusione) di potersi scegliere liberamente la 'sua' parte di immagine. Questo esercizio apparentemente liberatorio non si è esaurito, ovviamente, a questi livelli e ha voluto conseguire la totalità della visione 'reale', a 360 gradi, con l'esperimento del circorama, vero modello di riproduzione del mondo e del comportamento visivo, delle sue possibilità.Con la serie qui considerata di invenzioni, di trasformazioni e di innovazioni (e con altre qui taciute) il cinema si è preoccupato di favorire l'illusione realistica della vista e dell'udito, i due sensi dell'uomo coinvolti nell'impatto con i suoi segni.
Recentemente ha voluto inopinatamente interessarsi anche dell'olfatto, sperimentando film odorosi o, nei casi della ricerca più sofisticata, addirittura profumati. Ma le sensazioni dell'olfatto e, soprattutto, le fonti delle sue sollecitazioni non possono mutarsi repentinamente l'una nell'altra, come quelle della vista o dell'udito: il montaggio richiesto dalla maggior parte dei film narrativi, con i suoi bruschi passaggi di situazione e di ambiente, non favorisce l'avvento di un cinema destinato a sollecitare la parte di sensibilità dell'uomo concentrata nel naso.Al di là di ogni errore o di ogni eccesso progettuale, l'evoluzione tecnica del cinema ha sempre comunque rispettato le motivazioni scientifico-riproduttive delle sue origini, fino a esasperarle nell'intreccio con le innovazioni elettroniche che si sono verificate in questi ultimi anni e di cui parleremo nel cap. 6.
Tutto il cinema può collocarsi nel cuore di un'opposizione fondamentale, che è recuperabile tanto nel lavoro dei teorici e degli studiosi dei suoi linguaggi, quanto nei risultati delle diverse attività produttive: quella fra cinema della realtà e cinema dell'immagine, che abbiamo già visto presente alle origini del fenomeno, fra il lavoro dei Lumière e quello di Méliès. La prima prospettiva lo considera al livello di uno strumento riproduttivo o, al più, mediatore di un discorso già presente nelle cose 'filmate'; la seconda lo interpreta invece come linguaggio autonomo, che utilizza la materialità del reale per conseguire forme discorsive addirittura indipendenti.
Questa bipolarità si concretizza soprattutto negli scritti di due teorici: André Bazin (v., 1958) e Rudolf Arnheim (v., 1932). Il primo parla, a proposito del cinema, di un realismo ontologico e della conseguente, costante necessità di un realismo linguistico: il ruolo della tecnica è da Bazin ridotto a un intervento collaterale, ausiliario alla costruzione dell'immagine. Arnheim, nonostante sia come Bazin alla ricerca di uno spazio di autonomia espressiva ed estetica del cinema, afferma il ruolo fondamentale della tecnica, perché è proprio in virtù dell'irrealismo conseguito dall'immagine tecnicamente formata che, secondo il teorico tedesco, il cinema può essere considerato come un'arte. Dalla parte di Bazin si possono collocare anche le formulazioni teoriche di Siegfried Kracauer (v., 1960), i saggi semiologici del 1965 e 1966 di Pier Paolo Pasolini (v., 1972) e, prima ancora, il riduzionismo 'fotografico' del formalista russo Osip Brik (v., 1927), così come tutta la speculazione dei semiotici convinti che l'immagine cinematografica non sia altro che una neutrale mediazione della realtà.
Con Arnheim si allineano invece i teorici-autori dell'avanguardia storica (Delluc, Dulac, Epstein, L'Herbier) con le loro ricerche di un cinema puro, orientato attorno ai valori della fotogenia e del ritmo; gli scritti teorici di Sergej M. Eisenstein, con le proposte di un linguaggio-scrittura autonomo soprattutto nelle versioni del montaggio intellettuale; Astruc, con l'ipotesi della caméra-stylo; i semiotici portati a considerare l'iconicità dell'immagine come il risultato di una produzione di senso (e, quindi, come la manifestazione di un'attività linguistica), anziché come il dato di un'imprescindibile situazione di passività riproduttiva. Al di là, comunque, delle differenti scelte di campo dei teorici, tutta la storia del cinema può essere interpretata come l'incrocio fra usi trascrittivi, meccanicamente passivi, dell'immagine e usi linguistici del suo potenziale segnico: come l'alternanza fra una disponibilità all'irruzione del mondo sullo schermo e uno sfruttamento della materialità dello stesso mondo per produrre i segni di una pratica discorsiva retta da una propria normativa (appunto, fra un cinema della realtà e un cinema dell'immagine). Questa costatazione non è in contrasto con quanto si è detto finora, a proposito delle motivazioni e delle sollecitazioni riproduttive che hanno da sempre animato il cinema e il suo contesto: l'istanza riproduttiva e l'opzione di verosimiglianza nella quale si iscrive sono state e sono tuttora attivamente vive nelle vicende del cinema; ma questa scelta di fondo può manifestarsi secondo vie diverse, che vanno appunto da un'apparente e dichiarata specularità a una altrettanto manifestata autonomia linguistica dell'immagine.
Sia quando il cinema finge di non esserci, di trasferire sullo schermo qualcosa che il mondo gli offre già nella sua completezza, sia quando finge di esserci come principio edificatore di un mondo nuovo, indipendente dal profilmico, il suo discorso si muove sempre nei luoghi dell'illusione di realtà e si fonda sempre sulla forza convincente e persuasiva della verosimiglianza. La sua evoluzione espressiva si è manifestata come un'oscillazione continua fra questi due poli della finzione, senza che si possa attribuire all'uno o all'altro, genericamente, una qualificazione differenziativa, nel bene o nel male. I giudizi si possono esprimere sulle opere, sulle correnti o sulle scuole, sugli autori o sulle poetiche; ma è impossibile valutare la scelta di una modalità d'uso delle possibilità espressive di uno strumento complesso come il cinema.
L'oscillazione del cinema fra la valorizzazione della realtà-referente e quella dell'immagine, sulla quale ci siamo soffermati nel paragrafo precedente, si è comunque collocata nel cuore di un'altra opposizione, attiva in tutta la storia della sua produzione di senso: quella fra la categoria mostra-spettacolo e la pregnanza del modello narrativo, di cui si è già parlato nel cap. 2.
Il cinema comunica per mezzo di segni che indicano allo spettatore le immagini di oggetti, di corpi e di azioni; questi segni non hanno in sé, apparentemente, componenti astrattive, come le parole dei linguaggi naturali, ma imitano il mondo o, meglio, mettono in atto sguardi sul mondo. Il cinema agisce mostrando allo spettatore un universo che è articolato in un discorso, ma che lo spettatore, soprattutto se ingenuo o poco competente, vive come il risultato di un suo sguardo 'diretto' sulle cose che lo schermo gli rivela. Il film parla allo spettatore, in prima istanza, proprio in virtù del suo mostrargli qualcosa: il cinema può essere considerato come una mostra fotodinamica di oggetti in movimento (v. Bettetini, 1979) e questa sua caratteristica strutturale ne fa tendere qualunque produzione e qualunque testo verso la dimensione dello spettacolo, verso un tipo di trasferimento del sapere che ha soprattutto a che fare con la vista e con gli occhi.
La categoria della mostra-spettacolo è così dominante nell'ambito del discorso cinematografico, che finisce per inficiare sostanzialmente anche gli ambiti del film-saggio, del film scientifico, del film di documentazione, del film-inchiesta. Il predominio delle immagini fotografiche in movimento finisce per spostare l'asse della fruizione e, spesso, anche quello dell'ideazione e della produzione verso le dimensioni del gioco, della gradevolezza, della facilità nell'approccio sensoriale, dell'intrattenimento e del divertimento. Nello stesso tempo, come si è già osservato nel cap. 1, le azioni e le vicende mostrate dai film si sono quasi sempre strutturate secondo modelli narrativi, rigorosamente e rigidamente disposti per attribuire un senso al materiale delle immagini. La mostra e lo spettacolo finiscono per indurre nello spettatore un'apparente casualità di impatto con i segni del film, l'illusoria consapevolezza di agire con la stessa libertà di scelta che esercita nella sua attività di osservatore e di soggetto dello sguardo nel mondo della sua realtà quotidiana.
La scansione temporale del racconto, al contrario, determina il suo comportamento appercettivo e lo costringe a indirizzare il senso del testo verso una direzione ben definita, immanente allo stesso testo. Siamo di fronte a una parvenza di libertà, di disponibilità ai diversi casi possibili della ricezione e, nello stesso tempo, a una predeterminazione di senso debolmente mascherata dalla verosimiglianza che le abitudini narrative hanno saputo indurre nel contesto sociale. In realtà, anche l'organizzazione spaziale e figurativa dell'immagine, tutto quanto in essa si dispone allo sguardo dello spettatore, è già subordinata a un indirizzo di senso, a una significazione-prodotto di tutti gli elementi compositivi del film.
È proprio in questa dialettica fra l'apparente polisemanticità dello spazio figurativo (che equivale a una disponibilità nei confronti dello spettatore) e la costrizione semantica indotta dalla struttura temporale del film, soprattutto nei casi di una cronologia narrativa, che il mondo si fa spettacolo e che il cinema conquista tutte le sue possibilità di espressione e, al limite, di valore poetico, artistico. Sia manifestandosi come specchio soggettivo nei confronti della realtà, sia esibendosi come un linguaggio autonomo; sia volendo celebrare la poeticità delle cose, sia volendo fare poesia al livello di un laboratorio linguistico; sia mascherandosi dietro la verosimiglianza, sia compromettendosi esplicitamente nell'esercizio discorsivo: in tutti questi casi oppositivi è comunque costretto ad agire per mezzo di una mostra (di uno spettacolo) e a strutturare nel tempo i propri segni. E il film nasce così, all'incrocio fra poetiche e punti di vista diversi nei confronti non solo del mondo, ma anche del fare espressivo: poetiche e punti di vista di cui spesso non sono consapevoli nemmeno gli autori e gli operatori culturali del settore.
Le antiche polemiche sulle possibilità artistiche del cinema, alla luce di tutto quanto si è fin qui detto, rivelano la loro inutilità se non addirittura la loro pretestuosità: il cinema, nonostante il ricorso alla riproduzione fotografica e nonostante il suo immediato inserimento nei canoni dell'industria culturale e del consumo di massa, può conseguire anche elevati livelli di valore estetico, come ha talvolta ampiamente dimostrato nel corso della sua tormentata storia. È vero che le storie del cinema sono spesso storie di eccezioni; ma è proprio in queste eccezioni che il cinema conforta l'utopia progettuale di molti che gli si sono accostati e che gli si avvicineranno con limpide intenzioni d'autore. Il mezzo e i suoi apparati, in sé, non sono contrari al respiro dell'arte, anche se le motivazioni originarie del cinema e i suoi destini sembrano quasi sempre intonarsi ai criteri della comunicazione di massa.
Due elementi caratterizzanti da sempre, fra gli altri, lo stato della questione-cinema ebbero un ruolo determinante nell'indirizzarlo, fin dalle sue origini, verso un'organizzazione produttiva e distributiva di tipo industriale: la velocità del consumo e la necessità di immettere nel circuito molte copie dello stesso film. Un film viene quasi sempre visto, infatti, una volta sola e la durata dell'impatto con i suoi segni coincide con la durata del testo, predeterminata una volta per tutte. A differenza del libro, il film non viene di solito abbandonato, ripreso, rivisitato: lo si vede e, quasi sempre, lo spettatore ha la convinzione di aver esaurito ogni tipo di esperienza diretta nei confronti di quel testo dopo la prima e unica visione. Questo significa che il mercato dei titoli, una volta che il cinema si è affermato come diffuso e potente mezzo di intrattenimento sociale, ha dovuto sempre rinnovarsi con rapidità, inducendo atteggiamenti e progettazioni a carattere industriale nell'ambito della produzione.
Nello stesso tempo, la 'riproducibilità' dell'originale in un numero elevato di copie ha favorito un'estensione ampia e complessa dei circuiti e ha rinforzato ancora di più la tipologia operativa del sistema.A favore della scelta industriale hanno giocato anche la complessità e la differenziazione delle varie mansioni professionali che concorrono, di norma, alla produzione di un film. Il cinema, come quasi tutti i mezzi delle comunicazioni di massa, implica un lavoro collettivo in qualunque fase delle operazioni che gli consentono di fabbricare e di distribuire i suoi prodotti, e l'organizzazione di un lavoro collettivo si focalizza quasi sempre attorno a modelli industriali (o, almeno, favorisce l'attenzione di gruppi industriali, già costituiti o sulla via di costituirsi).
Queste necessità strutturali del sistema hanno fatto sì che, da una parte, il cinema si inserisse subito di diritto e di fatto nell'ambito dell'industria culturale e, addirittura, ne costituisse per decenni la spina dorsale, la linea di forza più evidente; dall'altra, che il cinema fosse immotivatamente giudicato come uno strumento di degradazione e di appiattimento intellettuale da parte di una cultura critica e ispirata ai fondamenti di estetiche idealistiche. È possibile che l'industria e i parametri di profitto ai quali fa riferimento la sua attività comportino concreti rischi di degradazione e di svilimento della qualità degli scambi comunicativi che il cinema mette in atto; è anche vero che spesso il cinema si è rivelato e si rivela come espressione di una cultura generale vuota, insulsa e, quindi, per dirla con Nietzsche, di un 'rimbecillimento in atto'; ma è altrettanto vero che non tutto il cinema può essere così definito e che, soprattutto, non lo si può considerare, ontologicamente, solo in questa prospettiva. I processi di produzione implicano apporti professionali di genere molto diverso, ma questa situazione non può essere ritenuta come l'unica causa di una strisciante e, purtroppo, sempre più dilagante dequalificazione culturale.
La collocazione del cinema nell'ambito dell'industria ha fatto sì che i giudizi nei suoi confronti da parte degli studiosi delle scienze umane e sociali si orientassero secondo aggregazioni diverse e spesso contraddittorie, tipiche di tutti gli ambiti disciplinari interessati alle comunicazioni di massa. E così, accanto ad attenzioni semplicemente 'amministrative', preoccupate con apparente neutralità culturale degli sviluppi del fenomeno e focalizzate sui dati quantitativi della produzione e del consumo, si sono manifestate anche osservazioni a carattere radicalmente critico o a carattere culturologico e, nello stesso tempo, analisi e valutazioni derivate da indagini applicate oggettivamente agli stessi film (v. Wolf, 1985, pp. 79-136).
Sono di marca amministrativa quasi tutte le esperienze di ricerca elaborate nell'area anglosassone e, più specificamente, statunitense, fino agli anni sessanta; si rifanno invece, prevalentemente, ai dettami della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer e, poi, Marcuse, Habermas) le esperienze di atteggiamento critico, che trovano anche forti motivazioni nell'area del pensiero cattolico (v. Gilson, 1967), con sfumature di minor pessimismo; gli atteggiamenti culturologici sono soprattutto riferibili al lavoro di Edgar Morin, alle sue intuizioni circa il sincretismo della cultura di massa e circa la contaminazione fra reale e immaginario della fiction cinematografica (v. Morin, 1956 e 1962); le indagini testuali, infine, si iscrivono nelle metodologie dell'analisi del contenuto (content analysis), che vengono applicate da molte scienze umane fino all'avvento delle prospettive semiotiche (anni sessanta), capaci di coinvolgere giustificate attenzioni anche nei confronti dei linguaggi e delle forme espositive.
La maggior parte delle ricerche ha comunque focalizzato la propria attenzione sugli effetti del consumo cinematografico, trascurando gli aspetti produttivi del fenomeno. Solo recentemente, in virtù di una tendenza comune a quasi tutte le scienze umane verso interessi di natura pragmatica, le osservazioni sul consumo sono state intrecciate con considerazioni relative ai linguaggi e gli studi sull'espressione hanno anche tenuto conto della chiusura del circuito comunicativo che si stabilisce nel concreto, effettivo rapporto fra lo spettatore empirico e il film.
La prospettiva pragmatica porta, infatti, ad atteggiamenti di prudenza nei confronti di modelli teorici e di costruzioni mentali, pur rispettandone il valore e apprezzandone l'utilità; ma lo schema e l'astrazione debbono confrontarsi con il reale, con la concretezza dei fenomeni: nel caso del cinema, con l'uso personale e sociale dei segni audiovisivi dello schermo, messo in atto dagli spettatori.
L'industrializzazione del cinema ha determinato, naturalmente, la ricerca di un forte processo di razionalizzazione nelle sue metodologie produttive e distributive. La creatività e lo spontaneismo dell'artista si scontrano strutturalmente con le esigenze di semplificazione, di ripetitività, di economia temporale e di organizzazione del lavoro di équipe e in serie, per cui l'istanza della produzione di senso finisce per burocratizzarsi e per dar vita a nuovi tipi di creatività o di invenzione, più attenti al successo popolare o, meglio, di massa, che non a ispirazioni poetiche, a progettazioni esteticamente convincenti (v. König, 1958; tr. it., pp. 54-55). Il cinema ha così prodotto, fin dai suoi primi anni di vita, un rapporto molto stretto fra la struttura degli apparati che ne contraddistinguevano l'area operativa e la sua scrittura, i modelli di stile e di organizzazione formale dei suoi testi.
Nonostante l'apparato produttivo abbia sempre cercato di nascondersi, di mimetizzarsi e di cancellare tutte le sue eventuali tracce, come abbiamo già visto nei precedenti capitoli, nonostante l'industria cinematografica abbia sempre desiderato scomparire nei suoi prodotti e presentarli come casuali rispecchiamenti della realtà, il cinema ha intrecciato in uno strettissimo rapporto di reciprocità i modelli della sua produzione materiale e i modelli dei suoi linguaggi, le strutture di superficie o di profondità dei suoi film.In questa prospettiva di mutuo condizionamento fra i significanti filmici e le procedure cinematografiche assumono una particolare rilevanza la nozione di genere e l'uso che ne è stato messo in atto: quella del genere, fra l'altro, è una categoria attiva in tutti gli ambiti delle comunicazioni di massa, che ha ottenuto, però, una particolare attenzione e una rigorosa applicazione proprio in quello del cinema.
Il genere può essere definito come un modello di organizzazione che interessa tanto l'ambito della forma, quanto quello dei contenuti; come un modo di aggregazione della materia espressiva e, nello stesso tempo, del senso veicolato, soprattutto dell'universo dei valori che presiede alla costituzione del mondo possibile che il testo mette in scena. Ma il genere costituisce anche un punto di contatto 'caldo' fra l'emittente (l'apparato produttore) e lo spettatore, perché ne predetermina il comportamento ricettivo, facilitando lo sviluppo di certe attese e demotivandone altre. Quando un genere è veramente tale, quando cioè ha una sua pregnanza socio-estetica ed è legittimato, oltre che, ovviamente, riconosciuto, esso costituisce una specie di contratto fra i due poli della comunicazione di massa. È il genere che consente, di norma, un facile passaggio dei contenuti ed è il genere che induce atteggiamenti di fiducia reciproca fra chi trasmette e chi riceve (v. Metz, 1971, tr. it., pp. 91-120; v. Bettetini, 1984, pp. 163-165).
Le comunicazioni di massa hanno fondato tutta la loro politica culturale e la loro strategia di contatto sulla nozione di genere e il cinema se ne è impadronito e vi ha fatto riferimento con un atteggiamento di ossequio e di sudditanza difficilmente reperibile in altri territori, fatta forse eccezione per quello 'omologo' della televisione. La finzione cinematografica ha elaborato moltissimi generi, a volte sovrapponendo la sua attività espressiva a quella di altri esercizi della comunicazione, come la letteratura o il teatro, a volte inventandosi i suoi modelli. Nozioni come quelle di western, di thrilling, di sophisticated comedy, di cinema nero, di poliziesco, di commedia, di commedia rosa, di giallo, di comico, di science fiction, di horror, di catastrofico, di storico, di neorealista (e molte altre con esse) costituiscono parti fondamentali della storia del cinema, modalità essenziali nella composizione delle forme e dei contenuti delle sue pellicole. Nello stesso tempo, hanno costituito anche i paradigmi di riferimento dell'organizzazione del lavoro che ha prodotto quei film.
Proprio perché il genere stabilisce una forte e durevole interrelazione, un solido ponte di collegamento fra la produzione di senso e le attese, le presupposizioni, le predisposizioni del recettore, l'industria cinematografica si è quasi sempre strutturata in funzione delle caratteristiche di genere che ne avrebbero marcato i prodotti. Quanto più il cinema ha inteso essere un fenomeno centralizzato, programmato, tanto più la sua operatività si è organizzata nel rispetto dei generi: l'industria hollywoodiana non prevedeva, ad esempio, alcuna possibile confusione fra le linee produttive di un genere e quelle di un altro; ogni genere si trovava assegnati in esclusiva, nella pianificazione di ogni azienda, i professionisti esperti nel suo ambito e le procedure operative necessarie, senza interferenze e senza possibilità di incroci.
La celebrazione e il rigoroso rispetto del genere sono stati gli elementi qualificanti di un cinema che si imponeva come fucina centrale dello spettacolo e della spettacolarizzazione di ogni evento, di ogni situazione, di ogni sentimento: un cinema che si imponeva come il più importante fra i mass media e come il più popolare apparato di elaborazione fantastica e di evasione. In questo cinema la produzione di genere si è sempre manifestata come un'attività organica a un sistema industriale autonomo e monolitico, che esercitava la funzione di una buona madre culturale, disposta a prevedere, rappresentare e risolvere tutti i problemi più complessi della società.
Oggi, la crisi del cinema ha anche spezzato l'incanto dei suoi generi: come si vedrà meglio nel cap. 6, la pratica audiovisiva si è frantumata in una ridondante esplosione di canali elettronici e sta perdendo alcune delle sue connotazioni legate alla fenomenologia della cultura di massa. Ma si verificano comunque reazioni inverse da parte degli apparati produttori e distributori, talvolta spinti ad accentuare la dominanza di alcuni generi, a concentrarsi produttivamente con l'intento di omogeneizzare generi e stereotipi, a riportare il cinema a quel ruolo di esemplarità carismatica che solo il modello del genere era riuscito ad attribuirgli.
Un altro elemento qualificante la dimensione industriale della produzione cinematografica è individuabile nel cosiddetto star system, nel fenomeno del divismo, curato con estrema attenzione, ad esempio, dall'industria statunitense. Il cinema del divismo si è sempre fondato sulla sovrapposizione fra il personaggio interpretato dall'attore nella finzione e l'attore-personaggio della vita reale, fra la figura agente nel mondo possibile dello schermo e la persona agente nel mondo reale della sua quotidianità: una sovrapposizione, in fondo, fra gli abitanti di due mondi possibili, perché anche quello della vita del divo è costruito discorsivamente o è il frutto di una messa in scena, destinata a produrre lo stato di sapere necessario per un uso corretto (secondo la prospettiva del produttore) dei segni del film: anche la presenza del divo, come quella del genere, rivela l'istanza di un contratto fra chi trasmette e chi riceve.
L'immagine del divo si trova investita di un sapere esterno al film, a volte così determinante da indurre gli apparati a riprodurre per lo stesso divo la stessa figura attorale, lo stesso ruolo, in situazioni testuali narrative (o addirittura di genere) diverse. È il caso di Greta Garbo, di Marlene Dietrich, di Gary Cooper, di Humphrey Bogart, di John Wayne, di Cary Grant e di molti altri nomi dell'empireo hollywoodiano. A volte, è sembrato che la sola presenza dello stesso divo in film diversi abbia potuto costituirli in genere. Il cinema del divismo ha modellato quasi tutta la produzione mondiale di finzione fino all'inizio degli anni sessanta, proponendo simulacri sovrannazionali e ingenerando fenomeni di culto nazionale; la crisi ideologica e produttiva degli anni sessanta ha finito per scalzare il riferimento al sistema divistico e il successivo recupero dei tradizionali modelli narrativi (anni settanta) ha risentito di quello scarto, per cui si è passati dal divo-attore all'attore-maschera, al professionista che difende e nasconde la sua vita privata, giudicandola ininteressante o comunque non interferente con le sue prestazioni sceniche. La maschera può appiattirsi, prestarsi a una significazione superficiale e iterativa, codificata da stereotipi banali: è il caso della pura e semplice apparenza della 'macchietta'; oppure, la maschera può crescere di spessore, fino a coincidere con un 'personaggio'.
L'attore può allora interpretare un ruolo che si identifica così radicalmente con il suo corpo, da spingere gli apparati a ripeterne lo stereotipo in situazioni filmiche diverse, nel caso di successo. L'attore può cioè trasformarsi ancora in un divo, ma senza interferenze con il suo privato: è divo in quanto personaggio, non in quanto attore. In questa prospettiva l'esempio più marcato è rappresentato dall'attore-autore, che offre la sua immagine alla circolazione del sapere che intende comunicare: Woody Allen è il 'personaggio' per eccellenza di questa nuova dimensione divistica, che in Italia si riconosce nel lavoro di Moretti, di Nichetti, di Troisi (v. Bettetini, 1984, pp. 43-47).
In un modo o nell'altro, comunque, il divismo ha sempre costituito un punto di riferimento dell'esercizio cinematografico a carattere industriale, favorendo la manifestazione di un altro elemento qualificante tutti gli ambiti delle comunicazioni di massa: quello che in termini non del tutto appropriati viene comunemente definito come mecenatismo (v. König, 1958; tr. it., pp. 49-58). Si possono individuare, nella storia della produzione cinematografica, un mecenatismo privato (individuale o collettivo) e un mecenatismo pubblico: nel primo caso siamo di fronte a episodi che possono iscriversi nel tentativo di demassificazione dei prodotti (valorizzazione di autori, di scuole o di tendenze indipendentemente dalle considerazioni di mercato), ma anche di soddisfacimento di interessi personali e lontani da qualunque tipo di attenzione nei confronti dei valori della comunicazione; nel secondo caso ci imbattiamo in episodi di organici e fecondi rapporti fra potere pubblico e attività espressiva del cinema (v. alcuni esempi della Francia, della Repubblica Federale Tedesca, perfino dell'Italia, con la mediazione della RAI), ma anche in occasioni di favoritismi e di coercizioni ideologico-politiche.
Il mecenatismo, soprattutto nella versione privata, può scontrarsi con la burocratizzazione (ibid., p. 54) che contraddistingue di norma l'attività produttiva del cinema: in realtà, il rapporto fra il mecenate e l'industria è sempre stato piuttosto tormentato e si è consumato in tempi piuttosto brevi. Oggi, sull'esempio di quanto sta accadendo in tutti gli ambiti delle comunicazioni di massa e, più specificamente, in quello della televisione, il mecenatismo sta trasformandosi nella cosiddetta sponsorizzazione, ossia nell'esplicita alleanza fra l'industria culturale e altre attività industriali con il fine di conseguire una produzione cinematografica che, da una parte, possa sfruttare la libertà economica garantita dallo sponsor per qualificarsi senza problemi di commercializzazione e, dall'altra, rinforzi l'immagine pubblica dell'impresa sponsorizzatrice proprio in virtù dei suoi valori e del coinvolgimento della stessa impresa.
L'industria culturale distribuisce sul mercato prodotti comunicativi di tipologie diverse e collabora così in modo determinante e protagonistico alla costruzione di quanto viene comunemente definito come immaginario collettivo, inteso come riserva di modelli, di sistemi di valori, di immagini e di simboli, come universo del desiderabile, dell'appetibile e dell'augurabile, a disposizione di grandi masse e spesso dotato di caratteristiche sovrannazionali proprio in virtù della penetrazione internazionale verso la quale tende il mercato dei mass media. A questa riserva finiscono per accedere le motivazioni acritiche e le scelte esistenziali di milioni di individui, per i quali il rapporto con i media costituisce l'unica o, per lo meno, una delle più importanti fonti di apprendimento e di autoformazione.Alla costituzione di questo immaginario il cinema ha dato sempre l'apporto principale e continua a darlo, nonostante la micidiale concorrenza della televisione e nonostante la crisi della produzione e del consumo che sembra caratterizzarne le attività in quasi tutto il mondo: i discorsi sulla morte del cinema o, magari, sulla sua perdita di esemplarità e di persuasività assomigliano molto a quelli sulla morte dell'arte e, in fondo, si riducono tutti a un rituale di partecipata e fortificante conservazione.
Magari indirettamente, attraverso i passaggi televisivi dei suoi film o attraverso l'assorbimento dei suoi modelli da parte della produzione di fiction televisiva, il cinema rappresenta ancora il punto di riferimento fondamentale di tutta la riserva sociale alla quale ricorre, nel bene o nel male, l'immaginazione dell'individuo contemporaneo, vittima di un rapporto consumistico con i linguaggi delle comunicazioni di massa. Come vedremo meglio nel cap. 6, questo immaginario corre oggi a sua volta il rischio di essere spostato e sostituito da una memoria collettiva, frutto di un immagazzinamento totalizzante degli scambi di informazione e capace di coinvolgere un atteggiamento ancor meno partecipativo, responsabile e selettivo della sua utenza.
Al di là delle probabili crisi del futuro, l'immaginario collettivo costruito dal cinema resta però uno degli elementi qualificanti le culture e le società contemporanee: così importante, che si comprende bene come si sia spesso parlato di controllo sociale a proposito del cinema e come il rapporto fra cinema e società sia stato spesso al centro di ricerche, di dibattiti e di scontri nei diversi ambiti del legislativo, dell'esecutivo, della magistratura e, in genere, delle organizzazioni culturali. Così come si comprendono bene l'interesse degli Stati e dei governi totalitari nei confronti del cinema (le dichiarazioni di Lenin e di Mussolini al proposito sono quasi coincidenti), le difficoltà di uno Stato e di un governo democratico a risolvere correttamente l'intrico dei problemi messi in atto dalla diffusione dei prodotti cinematografici e, infine, lo stesso prudente atteggiamento della Chiesa cattolica, attenta alle fenomenologie della comunicazione audiovisiva con molti documenti e con specifiche strutture di studio e di gestione (v. Canals, 1961, pp. 21-38 e 53-65).
Fino agli anni settanta il cinema ha rispettato le forme del modello che abbiamo cercato di definire nei precedenti capitoli: governato da un sistema industriale accorto e monolitico, è stato un fenomeno centralizzato, programmato, verticistico, paternalistico, capace di disperdere la qualità di alcuni episodi 'd'autore' o di alcuni movimenti, di alcune scuole, di alcune tendenze nella quantità ossessiva della tradizione commerciale. Poi, all'inizio degli anni ottanta, è andata in crisi questa immagine e sono nate nuove forme di rapporto fra il discorso per immagini e il pubblico, favorite dal dominio dell'esercizio televisivo, dall'innovazione tecnologica e da nuove ritualità nell'accesso ai prodotti.Il dato più rilevante di questa trasformazione, derivata dallo scontro fra tecnologie e linguaggio, consiste in una tendenziale polverizzazione degli apparati di produzione e di distribuzione e, quindi, in uno sbriciolamento dell'antico, originario sistema. L'apparato industriale centralizzato continua a esistere e a condizionare pesantemente il comportamento del pubblico, il rapporto fra società e comunicazione audiovisiva, ma non ha più l'esclusività della quale ha goduto fino a pochi anni fa.
Non si può più parlare di cinema tacendo delle esperienze alternative e di quelle elettroniche, tacendo del fatto, per esempio, che esiste anche un cinema liberato dalle caratteristiche della massificazione e costruito in funzione di pubblici definiti, dalla domanda nota e non mediata da istanze produttivistiche o sociologistiche: talvolta, l'immagine è costruita dai suoi stessi utenti o in virtù di una loro effettiva partecipazione. I sintomi più rilevanti del rinnovamento nel rapporto fra discorso audiovisivo e pubblico si stanno verificando, ovviamente, in quelle manifestazioni che stanno al di fuori del cinema industrialenarrativo con attori e che, nello stesso tempo, non riducono la portata del loro intervento a piccoli ambiti di esercizio, spesso caratterizzati da fumisterie intellettualistiche (alcuni episodi delle avanguardie classiche o della ricerca moderna) o da atteggiamenti ai limiti della paranoia. Si tratta di episodi produttivi che vanno oltre lo schermo e il film-opera per coinvolgere i canali di distribuzione, la configurazione del pubblico e gli stessi processi di fabbricazione delle pellicole o dei nastri magnetici.
Il cinema, più o meno consapevolmente e volontariamente, si è ampliato, si è allargato al livello della partecipazione, penetrando più profondamente nello spazio del quotidiano: è qui che si manifesta la novità più rivoluzionaria della sua trasformazione, che non può essere più considerata come marginale o secondaria. Il cinema e gli audiovisivi delle scuole, della ricerca scientifica, della formazione professionale, dell'intervento politico-sociale, della progettazione ambientale, dell'archivio e della memoria, dell'interazione psicologica; il documentario e il cinema giornalistico, quello didattico e quello 'saggistico', quello scientifico e quello pubblicitario: sono tutti esempi che si manifestano con modalità operative e con funzioni sociali diverse rispetto a quelle che hanno dominato nelle forme tradizionali della produzione.
Da una parte, si caratterizzano per una rinuncia al 'narrativo' o per un suo superamento o per un suo recupero attraverso nuove modalità dell'esposizione; dall'altra, confermano la perdita dell'aspetto 'cultuale' del cinema (il cinema come luogo di una nuova festività sociale) e l'acquisizione di forme più discorsive, più argomentative, perché subordinate a finalità concrete e presenti nel contesto sociale che le utilizza. Questo 'nuovo' cinema, che si sviluppa accanto a quello tradizionale, realizza, fra l'altro, la maggior parte degli investimenti a livello internazionale, producendo valori e disvalori sociali dalle evoluzioni imprevedibili e creando nuove domande, nuove consapevolezze nella comunicazione (v. Bettetini, 1981).
Nello stesso tempo l'egemonia televisiva ha contagiato anche il cinema, determinando una sensibile inversione di tendenza nel rapporto fra i due mezzi. La televisione ha abbandonato il suo modo di vivere il cinema, soprattutto in Europa e più specificamente ancora in Italia, come un mito, al livello della professione e a quello dell'immagine culturale. Dapprima, infatti, la televisione si è atteggiata come parente povera nei suoi confronti e gli stessi professionisti la consideravano come un gradino di accesso al cinema o come un incidente o un riempitivo occasionale, mentre il cinema, da parte sua, continuava a perseguire questa connotazione mitica nei suoi prodotti e nel contesto che vi ruotava attorno.
Oggi, con le innovazioni tecnologiche, con la proliferazione dispersiva delle emittenti, con le conseguenti nuove caratteristiche del consumo audiovisivo, con l'uso del cinema stesso messo in atto dalla programmazione televisiva, questa dimensione mitica si è molto ridotta e sta quasi del tutto scomparendo l'eccezionalità 'festiva' del mondo e dei prodotti cinematografici. Questo intreccio di modalità tecnico-industriali ha messo in crisi le forme tradizionali del racconto audiovisivo e ha riciclato, nell'impatto fra televisione e cinema, la tradizionale nozione di 'spettacolo', mettendo in ombra la dimensione dell''opera', del 'testo' chiuso (del 'film' con la sua apertura e la sua chiusura) e attribuendo al rapporto con i prodotti la caratteristica di un contatto continuo con proposte diverse, di una sequenza di 'prelievi' nella quale è quasi sempre difficile individuare una logica che la strutturi, intenzionalmente o meno.
Il cinema, di fronte all'aggressività della televisione e allo stravolgimento della sua immagine tradizionale messo in atto dallo schermo elettronico, ha dapprima trasformato i suoi film in eventi mediologici, in operazioni straordinariamente efficaci nel loro potere di fascinazione: ha alzato la posta in gioco, per continuare a essere al centro dell'attenzione sociale. Contro le abitudini, la piattezza e la ripetitività della messa in onda televisiva ha fatto esplodere il repertorio degli effetti speciali e delle messe in scena apparentemente negate alla fluorescenza elettronica: in un primo tempo il cinema sembra dunque aver assunto un comportamento analogo a quello del feudatario, che riproduceva con grande spiegamento di mezzi le stesse tattiche aggressive dei suoi inquieti vassalli. Ma si tratta di una strategia difensiva, che mostra già i suoi limiti, tecnici e culturali, e che non può durare a lungo senza trasformarsi in una scelta suicida o in un rito museale.
Il cinema non può più qualificarsi come il grande circo dell'effetto speciale, ma deve atteggiarsi a luogo di una ridefinizione del suo ruolo sociale e della sua funzione comunicativa. Ormai l'impero è diviso e il cinema deve ripensare a una sua autonomia 'trasversale', che non si concentri cioè in un settore specifico, ma tocchi tutte le aree di esercizio dell'audiovisivo. Questa ridefinizione del cinema dovrebbe passare anche attraverso una nuova cultura del consumo e dello spettatore, una nuova nozione di 'pubblico', che tenga conto della crisi della massificazione tradizionale e del recupero di un'attività soggettivamente creativa anche da parte dell'utente.
Qualcosa di significativo per l'immediato futuro è già individuabile in alcune manifestazioni della produzione e della distribuzione: soprattutto là dove il lavoro si ispira ai criteri del basso costo, delle formule cooperative, della collaborazione fra enti televisivi e strutture cinematografiche, delle sedi di esercizio dotate di più sale differenziate e di una finalizzazione esplicita del prodotto a un'utenza ben definita e ben conosciuta nelle sue domande. Il cinema dei prossimi anni dovrebbe avere sicuramente minor 'aura' di quello classico, ma anche una intenzionalità più marcata e più diretta; minor magia e maggior utilità sociale; minor consenso, forse, ma più senso; dovrebbe produrre un immaginario quantitativamente meno diffuso di quello tradizionale, ma qualitativamente più vicino alle necessità culturali dei suoi spettatori.
Il grande problema di questi anni non è tanto la sopravvivenza dell'immaginario collettivo o la sua assegnazione preferenziale a un medium piuttosto che a un altro: è, come si diceva già nel cap. 5, l'accumulo progressivo e costante di una memoria collettiva, che convive con la nostra quotidianità e che in parte la determina. Le nuove tecnologie consentono una tale produzione di immagini, visive e sonore, che ormai ogni uomo deve imparare a convivere con il proprio doppio, spesso più volte riprodotto. Il mondo si frantuma in immagini e le immagini divengono mondo. I confini fra l'immaginario e la memoria si fanno impalpabili, umbratili. L'uno dissolve e si sovrappone all'altra.
Il cinema, dopo essersi imparentato con la cultura tipografica e con le sue istanze di prospettiva e di narratività, si trova alle prese con i labirinti segnici, difficilmente praticabili e contraddittori, della televisione e della radio; si trova in una condizione di lotta intestina, perché viene combattuto con le sue stesse armi, con le stesse forme che gli hanno consentito di affermarsi e di primeggiare sulla scena della comunicazione iconica. Nonostante le apparenze, però, il cinema non si manifesta ancora nella parte dello sconfitto e continua a conservarsi ampi spazi di predominio e di esemplarità culturali. Come ha sempre fatto, e proprio in virtù della sua capacità di creare l'illusione del movimento, il cinema tende a costruirsi un riferimento a una realtà d'origine del suo discorso. Il tempo dell'azione e quello dell'enunciazione filmica fanno crescere la domanda (e, quindi, anche l'offerta) di verosimiglianza, di rappresentatività realistica, di riferimento a realtà concrete, in qualche modo trasportate sullo schermo.
La fiction del cinema ha sempre dovuto venire a patti con le regole di una retorica della verosimiglianza (v. capp. 2 e 4) e l'industria cinematografica sta ancora una volta recuperando e rinforzando le strutture di procedimenti dell'enunciazione superficialmente verosimili ai livelli della mimica, della gestualità, degli effetti sonori, dell'ambientazione, ecc. E non importa che queste istanze siano spesso concentrate sui prodotti della science fiction, aperta verso il futuro o verso il passato: anche i film fantascientifici sono - debbono essere - verosimili in tutti i loro componenti.
L'immagine elettronica della televisione, al di là delle sue forme e della sua intenzionalità, è l'immagine dell'accumulo di dati, della memoria-serbatoio spersonalizzata: è, in fondo, un luogo di perdita di senso (di desemantizzazione) del reale. Nella nuova economia dei mass media si attribuisce alla televisione il compito della costruzione del quotidiano, del tran-tran di un universo di immagini che sappia mimare e sostituire la concretezza dell'esistenza. Anche al cinema sembra venga assegnato un incarico, in questa società di segni vuoti, di simulacri: l'incarico di compiere interventi di verificazione, di controllare cioè la credibilità e la verosimiglianza degli universi fantastici della science fiction o di qualunque altro discorso iconico che istituzionalmente metta le sue radici nell'immaginario anziché nell'esperienza quotidiana.
La televisione trasforma il mondo e la realtà in spettacolo; il cinema sembra riportare lo spettacolo a dimensioni mondane. La televisione produce effetti di illusione e di finzione; il cinema effetti di realtà, come è sempre stato costretto a fare. Le immagini della televisione, caricandosi di finzione, diventano il modello delle cose e delle loro apparenze, mentre il cinema è sempre più costretto a caricarsi di verosimiglianza, a riportare cioè le invenzioni dei linguaggi televisivi alle dimensioni della credibilità quotidiana (anche se questa credibilità finisce per fondarsi nell'universo di quelle invenzioni). I simulacri della televisione interferiscono con i fantasmi del quotidiano; quelli del cinema con la 'realtà' dell'immaginario.
Il cinema, come si è già in parte visto nel cap. 5, costituisce uno dei tanti oggetti privilegiati dalle scienze sociali proprio in virtù delle sue caratteristiche comunicative e industriali. Si sono appropriate della sua struttura anche le teorie funzionaliste, tese a stabilire il ruolo delle comunicazioni di massa nel sistema sociale e impegnate a individuare le capacità di resistenza dei singoli media in un gioco di reciproche regolazioni, e proprio questo approccio teorico ha messo in evidenza, fra l'altro, lo scarso potere e la scarsa incidenza della critica culturologica e di quella estetica nell'ambito generico delle comunicazioni di massa e, quindi, anche in quello specifico del cinema (v. De Fleur, 1960).Un altro atteggiamento teorico si è preoccupato, quasi anticipando gli interessi pragmatici, di studiare l'uso dei media e del cinema, considerando il consumatore-spettatore come un partner attivo e tenendo quindi conto dei bisogni del destinatario, utilizzati come una variabile indipendente nello studio degli effetti (v. McQuail, 1975).
Dal punto di vista della psicologia sperimentale, gli studi italiani più interessanti si debbono all'attività dell'Istituto A. Gemelli e, più in particolare, di Dario F. Romano (v., 1965), che prende le mosse dallo stimolo cinematografico per arrivare alla considerazione del carattere di realtà e dell'ambivalenza della situazione cinematografica. Significativi sono anche gli studi in area francofona di A. Michotte (v., 1946, 1948 e 1961), soprattutto per quanto riguarda il rapporto fra successione temporale e vincolo causale nel coordinamento delle diverse immagini.La sociologia in senso stretto si è occupata del cinema in prospettive diverse. Sono di natura economica gli approcci critici di Henri Mercillon (v., 1953), tesi all'individuazione del valore e della funzione dei monopoli e degli oligopoli nell'industria cinematografica, così come si collocano nella stessa prospettiva gli studi di Libero Solaroli (v., 1958) e di Peter Bächlin (v., 1945).
Si tratta di indagini che cercano di scoprire i condizionamenti fra i flussi di capitali messi in moto dal sistema-cinema, l'organizzazione industriale che li utilizza e l'esito espressivo che ne deriva. Non si può però dire che si sia sviluppata una vera teoria economica del cinema, anche perché questi studi furono inspiegabilmente abbandonati e sostituiti da interessi ideologico-politici o da ricerche linguistico-estetiche. Oggi, di fronte all'emergere della prospettiva mercantile e all'importanza che i condizionamenti economici vanno assumendo in forma sempre più determinata nell'incrocio operativo fra cinema e televisione (v. cap. 6), si assiste a un rilancio di questa prospettiva, per quanto dispersa in saggi diversi non facilmente agglomerabili in scuole o tendenze.
Grande attenzione è stata invece sviluppata nei confronti delle modalità di neutralizzazione o di accentuazione dei conflitti ideologici all'interno dell'intera cultura di massa e di quella cinematografica in particolare, tanto in società omogenee ideologicamente, quanto in società con elevato dissenso politico. Francesco Alberoni, per esempio, analizza le differenze fra cultura di massa neutrale e cultura politica impegnata (v. Alberoni, 1963).In generale, si può dire che gli studi sociologici statunitensi si sono mossi in una prospettiva empirista, cercando soprattutto di affermare il potere di persuasione dei messaggi; gli studi dell'area europea, al contrario, hanno scelto prospettive ideologiche o culturologiche, che possono essere fatte risalire, rispettivamente, alla già citata Scuola di Francoforte e allo studio di Kracauer (v., 1947) sul cinema tedesco durante la Repubblica di Weimar.
Una particolare attenzione è stata anche riservata, da parte degli approcci di natura sociologica, al fenomeno del divismo. È interessante osservare che la motivazione di questo fenomeno sta nell'esemplarità sociale e simbolica dei personaggi che popolano l'immaginario collettivo creato dal cinema. I divi sono stati visti come elementi sostitutivi di antiche ritualità collettive, come conseguenze di una desacralizzazione dell'universo culturale nel quale vive l'uomo-massa; si è osservato che essi sono soggetti a un'attenzione ammirativa, pur non occupando posizioni di potere (v. Bozza, 1976). Essi non sarebbero altro che generatori di evasioni regressive, capaci di facilitare l'integrazione del soggetto nella società e di mascherare così le contraddizioni del sistema politico.All'area marxista della sociologia appartiene buona parte delle speculazioni sociologiche relative alla considerazione tecnico-industriale del fenomeno cinema: con una certa rozzezza e con un determinismo elementare si mette in relazione diretta il prodotto-film con le caratteristiche economiche del mondo occidentale, avendo soprattutto di mira le espansioni a carattere imperialistico-nazionale (v., soprattutto, il già citato Bächlin, 1945).Si può comunque dire che, per quanto riguarda il cinema, le scienze sociali non si sono mai impegnate con forza e con continuità, di oggetto o di metodo.
Esse hanno soprattutto privilegiato, nelle loro ricerche, la radio e poi la televisione e il giornalismo; quei mezzi, cioè, che agiscono in virtù di un quotidiano operare più che di singole opere; in virtù di una routine distributiva quasi senza sosta, più che di una fruizione a segmenti e a eventi come quella del cinema. Questa scelta di campo ha caratterizzato soprattutto la sociologia e la psicologia sperimentale, mentre ne sono rimaste in buona parte escluse l'antropologia (di cui parleremo nel cap. 8) e la semiotica. Quest'ultima, anzi, ha fatto del cinema un suo oggetto privilegiato di riferimento, approfittando della crisi delle cosiddette 'teoriche' del cinema e accentuando la sua presa di possesso soprattutto dopo la già citata svolta pragmatica.
È stata proprio l'apertura allo spettatore e, soprattutto, alla sua immagine costruita dentro il testo filmico a salvare, da una parte, le scienze semiotiche da un arido riferimento a un prodotto decontestualizzato e a focalizzare ancora di più, dall'altra, il loro rapporto di analisi con la testualità filmica, intrecciandola con le esperienze espressive della televisione e, addirittura, del teatro. L'apertura alla pragmatica ha consentito infatti alle diverse semiotiche (soprattutto a quelle 'della rappresentazione') di comprendere nelle loro indagini il dinamico e gli elementi temporali e di uscire così, per quanto riguarda il cinema, dai limiti del genere e della ripetitività, che le avevano caratterizzate nelle loro precedenti esperienze applicative. Si è così verificato che non esistono, nel cinema, strutture totalmente esemplari, senza nulla di creativo, e, nello stesso tempo, strutture assolutamente singolari: il testo non è soltanto il frutto della ripetizione di un modello strutturale, così come non è mai il prodotto di un'invenzione totale, distaccata da qualunque riferimento a codici o a sistemi di codici preesistenti.
Il testo filmico fu considerato nei suoi elementi progettati in funzione delle sue avventure comunicative: quegli elementi che ne costituiscono le condizioni di accettabilità. Oggi le scienze semiotiche, nel campo della rappresentazione e soprattutto in quello del cinema, si applicano al progetto comunicativo che è immanente ai singoli film; si applicano, insomma, alla comunicabilità di un testo, alla sua configurazione di griglia distributiva di un sapere, che si diffonde nei suoi percorsi di senso e si colloca negli scambi di 'conversazione' da esso predisposti.
È comunque interessante osservare come la semiotica, nell'ambito del cinema, abbia sostituito non solo gli approcci tradizionali di natura teorica, ma anche la cosiddetta filmologia, intesa come una contemporanea e articolata applicazione all'oggetto-cinema delle tecniche di analisi proprie della psicologia sperimentale, della sociologia, dell'estetica e della saggistica letteraria o figurativa: a questa disciplina, che ebbe il suo assertore più convinto in Gilbert Cohen-Séat, ispiratore in Italia dell'Istituto Filmologico (che poi si trasformò nell'Istituto A. Gemelli), si rimproverava la graduale riduzione delle sue ricerche alla più rigorosa sperimentalità e, soprattutto, il fatto di concepire la sua pratica scientifica come un discorso sul cinema, inteso come uno dei tanti, possibili oggetti ai quali applicare metodi e principî di altre discipline: le si rimproverava, insomma, il suo ruolo centrifugo rispetto all'autonomia che il cinema avrebbe potuto e dovuto manifestare.
Le scienze semiotiche ebbero proprio il merito, fra l'altro, di ricercare una interdisciplinarità più corretta, tesa a concepire il cinema come il luogo di afflusso centripeto di pertinenze scientifiche diverse, capace di utilizzarle in una nuova, tipica specificità (v. Metz, 1971; v. Bettetini, 1985). D'altra parte, la filmologia si era a sua volta contrapposta alla cinefilia, intesa come consumo intensivo dell'opera cinematografica nella sua totalità di autori, di scuole, di indirizzi estetici o ideologici: si rimproverava filmologicamente (e poi semioticamente) al cinefilo la sua mancanza di metodo, la sua subordinazione passiva alle vicende del flusso produttivo, la sua costante disponibilità all'accumulo mnemonico e alle oscillazioni di un gusto criticamente non controllato: in poche parole, il suo empirismo.Siamo allora nella condizione di poter affermare e confermare, tenendo conto anche di quello che si dirà nel cap. 8, che le scienze sociali non hanno avuto una presa organica, tendenzialmente completa e onnicomprensiva, continuativa, sul fenomeno del cinema. Se ne sono occupate, in media, marginalmente e nella prospettiva di emergenze problematiche o di una casistica esemplare per aspetti diversi.
Ci si potrebbe, allora, interrogare sulle motivazioni di questo comportamento, sulle cause che non hanno consentito all'oggetto-cinema di essere un protagonista della ricerca sociale. Con un'elevata probabilità di successo, si può dire che il cinema ha dato luogo solo a sporadici e scoordinati incontri con questo universo scientifico in virtù della già proclamata e sostenuta ambiguità della sua essenza, del suo modo di essere e, quindi, di comportarsi. Il cinema, lo si è visto, si colloca a metà strada fra i valori della produzione industriale e quelli dell'esperienza artistica o, almeno, espressiva; il cinema è standard e creatività nello stesso tempo; il cinema è un luogo di ripetizione e di invenzione, di modelli e di improvvisazione, di tempi produttivi e di ritmi poetici, di preventivi economici e di effetti dirompenti dal punto di vista estetico. Per tutti questi motivi si può pensare a una reciproca incompatibilità o, meglio, a una serie di appuntamenti eccezionali, privi di qualunque riferimento a formule ritualmente iterative, fra il cinema e le scienze sociali.
Quando, infatti, si affermerà con forza la televisione sul palcoscenico della comunicazione audiovisiva, quella televisione che tenderà sempre di più a eliminare la componente estetica dal suo fare e a valorizzare i riferimenti ai modelli delle ripetizioni, delle formule, della continuità omogenea e omologante, le scienze sociali riverseranno con dovizia di impegno le loro attenzioni sul mezzo dell'immagine elettronica. Si troveranno a loro agio nei confronti di un flusso di segnali progettato e vissuto più per informare e per comunicare denotativamente, che non per esprimere intenzionalmente; lo individueranno come loro oggetto privilegiato di indagine e se ne approprieranno in estensione e in profondità. Le scienze sociali troveranno insomma nella televisione il perfezionamento di quel processo di industrializzazione dell'immagine in movimento che il cinema aveva già intrapreso, sviluppato e portato a un certo punto di significatività economica e culturale.
Il cinema può interessare l'ambito degli studi sociologici secondo tre prospettive: i valori di analisi sociale implicati nei contenuti dei suoi film; l'uso del cinema stesso come strumento di indagine sociologica; il valore che l'istituzione-cinema riesce a guadagnarsi nel contesto sociale. Di quest'ultimo punto ci siamo già occupati nei capitoli precedenti, ricorrendo anche all'aiuto della prospettiva psicologica, di quella semiologica e di quella massmediologica; affronteremo qui le prime due argomentazioni.
Al di là delle intenzioni dei suoi autori e dei suoi produttori, il cinema è stato spesso considerato come uno strumento rivelatore degli aspetti qualificanti una certa società. La sua tendenziale spinta verso il successo dovrebbe infatti portare a cogliere gli umori, gli interessi e i valori più diffusi, mentre l'effettivo conseguimento del successo da parte di alcuni suoi film dovrebbe caratterizzarli nel ruolo di sintomi esemplari di situazioni sociali. Le cose, in realtà, non sono così semplici e spesso intervengono fattori di disturbo e di variazione nei confronti di queste ipotesi: per esempio, scelte di potere e di regime, forzature ideologiche, mode culturali vissute senza un'effettiva partecipazione.
Ma, in ogni caso, un film ha un rapporto organico con il contesto sociale entro il quale nasce: sempre, anche nei casi nei quali è meno evidente la compromissione di massa del prodotto o vi è più evidente la forzatura, la 'violenza' di gruppi o di individui nei confronti del corpo sociale. Sono così complesse, divise, costose e faticose le operazioni necessarie alla produzione e alla distribuzione cinematografiche, che ogni film risente in qualche modo dei procedimenti sociali attraverso i quali è dovuto passare e finisce anche per rappresentarli o per rappresentarne il contesto. Queste caratteristiche di specularità o, almeno, di messa in scena rappresentativa nei confronti del sociale hanno consentito ad alcuni studiosi di utilizzare pellicole cinematografiche come oggetti di analisi sociologica: in Germania, Kracauer (v., 1947) si è applicato in questo senso al cinema della Repubblica di Weimar; in Italia, Galli e Rositi hanno analizzato la cultura cinematografica tedesca e statunitense durante la crisi del 1929 (v. Galli e Rositi, 1967), per cogliervi aspetti e motivazioni della situazione politica, culturale ed economica nelle due nazioni. Naturalmente, esistono film, autori o, addirittura, scuole di cinematografia che più facilmente di altre si predispongono a questo tipo di ricerca e di rilevazione: i film o i progetti culturali che si inseriscono nei diversi filoni della rappresentazione realistica - dal verismo al naturalismo, dal descrittivismo alla denuncia sociale esplicita - con lo scopo dichiarato di riprodurre in modo poeticamente fedele gli aspetti e i fatti della società sulla quale fanno convergere le loro cineprese e le loro attrezzature tecniche.
In questa prospettiva il realismo poetico francese degli anni trenta, il neorealismo italiano dell'ultimo dopoguerra, la nouvelle vague francese e il free-cinema inglese degli anni cinquanta, il giovane cinema tedesco degli anni settanta costituiscono facili esempi di spaccati sociologici, così come il cinema newyorkese (per distinguerlo da quello hollywoodiano) degli anni sessanta-settanta e, molto tempo prima, la scuola documentaristica inglese.
Il cinema-documentario ha spesso avuto un'impronta sociologica fin dalla sua primitiva progettazione e si è spesso proposto come ricerca nel corpo di un certo consorzio umano: sia nelle versioni rudi, caratterizzate talvolta da scarse attenzioni linguistiche ed estetiche del cinéma-vérité, sia nei preziosismi e nello spessore poetico delle opere di Flaherty o di quelle di Vertov o di quelle di Ivens, il documentario ha avuto quasi sempre al centro della sua attenzione problemi di natura sociale e si è quasi sempre impegnato nella ricerca di metodologie adeguate per trasferirli sullo schermo.
Il cinema può essere quindi utilizzato come uno strumento efficace di rivelazione del sociale, oltre che come eloquente specchio di situazioni interessanti nella prospettiva psicologica e in quella antropologica. Il fatto che, fino a oggi, le discipline sociologiche si siano poco applicate ai suoi prodotti (le ricerche al proposito non sono molte) è forse imputabile, da una parte, alle difficoltà dell'analisi e alla pigrizia degli studiosi e, dall'altra, all'esistenza di scarse interrelazioni fra l'universo della sociologia e quello della semiologia e della filmologia, che potrebbe garantire al primo letture e analisi dei testi molto più ricche, pertinenti ed euristiche di quelle consentite da altre metodologie analitiche.
Nel paragrafo precedente si è parlato di un uso indiretto del cinema da parte degli studi di sociologia, di un ricorso ai film considerati nel ruolo di significanti sociali. Ma il cinema può anche essere utilizzato come uno strumento di indagine sociologica in sé, finalizzato a questo scopo direttamente e fin dall'origine delle sue operazioni ideative e produttive. Concorrono ad attribuirgli questa qualificazione la sua capacità di memorizzare facilmente azioni, comportamenti, gesti, parole e suoni; la possibilità di organizzare il materiale raccolto in una successione finalizzata e significativa di elementi; il valore di 'testimonianza' quasi diretta che la fotografia in movimento acquista con il trascorrere del tempo; la possibilità, per il ricercatore, di superare ogni fase descrittiva e di concentrarsi quindi solo sull'analisi e sulle valutazioni; la disponibilità del mezzo nei confronti dell'intervista, che costituisce comunque uno dei principali strumenti dell'analisi sociologica.
Nonostante la positività di tutti questi elementi, però, non si può dire che fino a oggi il cinema sia stato molto utilizzato come strumento diretto di analisi nell'ambito della sociologia. Questo scarso accesso della ricerca alle tecniche cinematografiche è molto probabilmente derivato dalla mancanza di interrelazioni organiche fra i due universi, il primo dei quali tende sempre allo spettacolo o alla poesia e si sente umiliato da una finalizzazione strumentale e riduttiva come quella di un semplice intervento di trascrizione, mentre l'altro non sembra riuscire a coltivare al proprio interno ricercatori esperti in un uso accorto ed efficace del mezzo. In Italia possiamo ricordare le esperienze di Diego Carpitella, che si caratterizzano però per un fine più antropologico che sociologico; tutta l'abbondante raccolta di materiali audiovisivi, finalizzati alla costruzione di una grande 'memoria' della Resistenza, del Centro Studi Piero Gobetti di Torino (Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza: ma anche in questo caso il senso dell'operazione è più facilmente situabile nell'ambito delle scienze storiche che non in quello dell'indagine sociologica), o quelle della Mediateca Toscana, della Cineteca Comunale di Bologna, ecc.
Negli ultimi anni la pellicola cinematografica è stata sostituita dal nastro magnetico e la cinepresa dalla telecamera portatile, con sensibili vantaggi dal punto di vista dei costi, dei tempi e della semplificazione delle procedure di produzione e di edizione. L'applicazione dell'audiovisivo elettronico nel campo della ricerca sociologica e, soprattutto, in quello della cosiddetta microsociologia (interviste, dichiarazioni, piccole storie personali, affabulazioni, comportamenti e gestualità) dovrebbe ormai costituire una caratteristica imprescindibile dei mezzi e delle metodologie utilizzate in questi tipi di indagine.I successi ottenuti in campi affini, come quello dell'urbanistica, della psicologia sperimentale o della verifica didattica, consentono di prevedere una buona estensione dell'immagine in movimento e delle sue tecniche a tutto l'universo delle scienze sociali.
(V. anche Comunicazioni di massa).
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