Genere musicale sorto negli USA intorno all’inizio del 20° sec., frutto di un lungo processo di sincretismo tra forme musicali occidentali e poetiche africane, che risalivano alla memoria culturale degli schiavi deportati nel continente americano fra il 16° e il 19° sec., successivamente affrancati e progressivamente inurbati.
Le influenze musicali euroamericane, che avrebbero fornito al primitivo j. strutture strofiche e sequenze armoniche, ebbero modo di filtrare nella rudimentale competenza musicale degli afroamericani del 19° sec. attraverso la popolazione creola (di cultura francese) della Louisiana, dove peraltro già agli schiavi era occasionalmente concesso di riunirsi a fare musica in luoghi (per es. Congo Square a New Orleans) e occasioni particolari. Questo concorso di circostanze ha suggerito alla storiografia jazzistica la convenzione di collocare la nascita del j. a New Orleans. In realtà i presupposti musicali del j. andarono formandosi più o meno contemporaneamente in vari centri degli Stati Uniti, sviluppando tradizioni orali di carattere rurale in una sorta di folclore urbano che mantenne per un certo tempo impronte stilistiche locali prima di amalgamarsi in un linguaggio comune. Fin dai primordi, comunque, il j. si rese riconoscibile più per le sue caratteristiche espressive che per le strutture formali, che furono – e continuano a essere – comuni anche ad altre musiche, in una osmosi tra i vari patrimoni musicali non accademici nella quale il j. offre e riceve influenze che costantemente lo rinnovano, ridefinendone al contempo il rapporto con le altre musiche.
Sul piano espressivo, tuttavia, il j. tende a conservare la sua identità tradizionale, che dai rozzi vocalizzi (calls, hollers) dell’epoca schiavistica si trasmise dapprima all’innodia evangelica negra (spiritual, poi gospel), in seguito al blues dove trovò anche un primo adattamento strumentale (chitarra, banjo, armonica a bocca) delle sue caratteristiche vocali, poi esteso anche agli strumenti a fiato di uso bandistico. Tale identità si riconosce innanzitutto nel modo di articolare le melodie: le note sono pronunciate con grande varietà di attacchi, stirate in caratteristici portamenti, ornate di fioriture e melismi, in un vasto repertorio di effetti che tende a personalizzarsi in maniere gergali e stilemi individuali, variabili da un musicista all’altro anche all’interno del medesimo stile. Questa continua tensione fra espressività tradizionale e ricerca sonora fortemente individualizzata si concreta in una prassi specifica del j., che considera lo strumento quale prolungamento del corpo del musicista, sottoponendolo continuamente alla ricerca di artifici tecnici intesi a produrre connotazioni emotive e slanci vitalistici, in una somatizzazione del ruolo solistico che può ricordare la funzione della maschera nelle tradizioni teatrali popolari. In altri termini la disciplina tecnico-strumentale nel j. gode di una libertà sconosciuta all’etica della musica accademica, ricorrendo sovente a usi impropri degli strumenti per la realizzazione di effetti particolari, la generazione di suoni spuri, l’esaltazione della componente materica del fiato o del tocco.
Passando dal piano espressivo a quello strutturale, un analogo sforzo di adattamento della memoria etnica (le tradizioni musicali frammentariamente trasmesse dagli africani deportati ai propri discendenti) alle strutture formali della musica occidentale si riscontra nell’originale concezione ritmica del j., la cui formazione si può ritenere anch’essa di natura sincretistica. Il tentativo di conciliare la natura poliritmica della musica africana con la quadratura della musica occidentale portò al trattamento sincopato delle melodie nel j. tradizionale e alla progressiva definizione del cosiddetto swing (➔), modalità me;trico-ritmica impossibile da segnare sulle partiture secondo i sistemi semiografici occidentali, ma derivante in senso generale dalla sovrapposizione di scansioni binarie e ternarie. La tendenza agli abbellimenti, ai reiterati interventi sui fraseggi originali delle melodie e alle continue microvariazioni ritmiche contribuì ad alimentare l’attitudine all’improvvisazione, prima come semplice parafrasi tematica e poi come vera e propria invenzione melodica su canovaccio armonico: un’altra costante del j., questa, che si è continuamente rinnovata nel corso della sua evoluzione linguistica, e che oltre a costituirne il maggiore presupposto artistico e creativo, lascia sfogo a quella componente competitiva ed emulatoria del solismo jazzistico che, divenuta tradizionale, ne costituisce la più tipica componente spettacolare.
Il primo stile del j. è detto New Orleans dalla città della Louisiana dove la tradizione bandistica trovò sviluppi anche in piccoli complessi formati da tre strumenti solistici (tromba o cornetta, trombone, clarinetto) e da una sezione ritmica composta da batteria (o meglio da un insieme di strumenti a percussione, suonati da un unico strumentista), tuba (gradualmente sostituita dal contrabbasso, prima ad arco e poi a pizzico) e banjo, spesso sostituito dalla chitarra e/o dal pianoforte. Il repertorio, che pur fondato su blues e spiritual si andò arricchendo anche di adattamenti strumentali di canzoni in voga, era strumentato in maniera estemporanea con effetti polifonici (o meglio eterofonici) affidando l’esposizione del tema, sempre più o meno parafrasato, alla tromba, e i contrappunti improvvisati al clarino e al trombone.
La chiusura dei locali notturni di Storyville (1917), il quartiere dei divertimenti di New Orleans, con la conseguente disoccupazione dei jazzisti locali, provocò una migrazione verso Chicago, dove si venne a creare un nuovo stile non più eterofonico, ma basato sull’improvvisazione solistica. Il primo grande solista di tromba fu L. Armstrong: con lui l’ideale collettivistico dell’interpretazione jazzistica trova la sua prima evoluzione fortemente individualizzata in senso creativo. Al linguaggio trombettistico stabilito da Armstrong, e a quello pianistico passato attraverso il ragtime, ma portato a piena stilizzazione dal suo partner E. Hines, fece riscontro la prima codificazione del linguaggio sassofonistico, svincolatosi dal modello clarinettistico: ne furono fautori C. Hawkins per il sax tenore, Sidney Bechet per il sax soprano, Benny Carter per il sax contralto.
L’ascesa del solista quale figura chiave dell’interpretazione jazzistica trova spazio anche nelle grandi orchestre (big band), caratterizzate da tre sezioni di fiati (ance, trombe, tromboni) più sezione ritmica, dove si sviluppa una dialettica tra scrittura e improvvisazione destinata a diventare un’altra caratteristica saliente e duratura del jazz. F. Henderson è il primo caporchestra a sancire l’evoluzione dal j. tradizionale alla cosiddetta era dello swing, dove il termine swing indica un intero stile, prevalentemente orchestrale, suscitato da un insieme di fattori: una seconda migrazione dei jazzisti, stavolta verso New York, in seguito alla crisi economica del 1929; la maggiore richiesta di intrattenimento musicale derivante dal proliferare degli speakeasies, i locali dove si servivano alcolici di contrabbando durante il proibizionismo (revocato nel 1933); l’euforia economica e sociale conseguente al superamento della crisi, in una spinta verso i consumi e il divertimento di massa che trasformò il j. in musica da ballo; la diffusione del j. attraverso il mezzo radiofonico. Figura dominante del periodo fu B. Goodman. Emerse il ruolo dell’arrangiatore, che non sempre coincideva con quella del caporchestra: nacquero così le prime formulazioni convenzionali che avrebbero guidato la transizione dalla tradizione orale a una codificazione del linguaggio jazzistico e dunque alla didattica del j., che nel corso degli anni si è sviluppata fino a fornire una vera e propria alternativa all’insegnamento musicale accademico.
Tra le big bands degli anni 1930 trovarono successo alcuni caporchestra già attivi dagli anni 1920 e destinati a far scuola per decenni (D. Ellington e, emigrato da Kansas City da dove importò un ennesimo stile locale, C. Basie). A New York ulteriori strumenti definirono il proprio linguaggio solistico: dapprima il trombone (già nei tardi anni 1920 con M. Mole, J. Harrison, Tricky Sam Nanton, C. Green), il sax baritono (H. Carney), poi, nel corso degli anni 1930, il vibrafono (R. Norvo, L. Hampton), mentre anche dalla sezione ritmica emersero i primi grandi solisti: Z. Singleton e G. Krupa per la batteria, Jimmy Blanton per il contrabbasso, C. Christian (preceduto dall’italoamericano Eddie Lang e in Europa da D. Reinhardt) per la chitarra.
In realtà lo stile di Christian, pur essendo un prodotto dello swing, già preludeva allo stile be-bop, i cui precursori (in particolare D. Gillespie e poi C. Parker) si trovarono a improvvisare liberamente assieme a lui in alcuni locali newyorkesi, come il Minton’s Playhouse, che fecero da laboratorio creativo al nuovo linguaggio. Il be-bop – alla cui nascita è contemporaneo il New Orleans revival, di tendenze opposte – dà infatti inizio al j. moderno, in una sorta di reazione alla commercialità e alla danzabilità dello swing. Vera e propria avanguardia creativa, inizialmente avversata dal pubblico e da buona parte della critica, il be-bop trasformò il j. da musica di consumo (pur non priva di autentici capolavori e di grandi musicisti) a musica «d’arte», cioè destinata all’ascolto e rivolta a una ricerca linguistica che, ostentando una certa indifferenza verso il repertorio (ridotto alla forma-blues o agli schemi accordali di una serie di canzoni di successo), lo adoperava come un semplice canovaccio per ricerche armoniche, melodiche e ritmiche.
Gli anni 1950 videro una serie di approfondimenti specifici del linguaggio boppistico: verso il vitalismo ritmico e l’irruenza solistica, spesso secolarizzando forme e umori della musica sacra negroamericana (hard bop, soul j.) o, all’opposto, riducendo l’escursione dinamica a favore di una scrittura più complessa e di più sofisticati impasti timbrici (cool j., con una sua importante ramificazione locale tra i musicisti californiani nel West Coast j.). Verso la fine del decennio, in seno al cool j. e a opera di J. Lewis e del musicologo e direttore d’orchestra G. Schuller, si fece strada anche un’idea di sintesi tra j. e musica accademica (third stream): ma l’esigenza di una più veloce evoluzione del j. trovò maggior fortuna nelle sperimentazioni informali e atonali del free j., che caratterizzò l’inizio degli anni 1960 e che per alcuni anni ebbe anche una forte connotazione politico-sociale, con due rami principali: la radicalizzazione del concetto di improvvisazione collettiva proposta da O. Coleman, che coniò anche la denominazione dello stile, o la più diffusa tensione espressiva e metaforica verso l’urlo parossistico, in uno slancio volta per volta protestatario o misticheggiante (A. Shepp, J. Coltrane). Prima Sun Ra e poi, verso il finire del decennio, l’Art Ensemble e altri musicisti di Chicago proposero un’evoluzione del free j. verso il recupero dell’Africa e dell’intero sviluppo storico della musica afroamericana, propagandato come una presa di coscienza delle proprie radici e dunque della propria identità socioculturale.
Da questo momento in poi, ognuna delle numerose microtendenze nelle quali si frammentarono gli ulteriori sviluppi del j. rispecchiano o un carattere meramente revivalistico, oppure un tentativo di sintesi con altre musiche, alcune delle quali riprese peraltro dal comune ceppo afroamericano (in particolare quelle afro-ispaniche, già affacciatesi nel j. degli anni 1920 col cosiddetto latin tinge di J. R. Morton, negli anni 1940 con l’afro-cuban bop di Gillespie e negli anni 1960 con il j. samba di S. Getz e altri), altre estese a una sorta di folclore universale mediato dall’improvvisazione e proposto prima in seno al free j. da Coltrane e D. Cherry e poi assurto a genere autonomo con l’epiteto di world music.
Difficile trovare un denominatore comune per tutte le tendenze in atto tra fine del 20° e inizio del 21° secolo: in molti casi il j. è diventato il luogo di incontro tra differenti generi musicali o tra tradizioni di paesi lontani; inoltre, si è prodotto uno spostamento del centro di interesse, per cui le novità non giungono solo dagli USA. In Europa si è sviluppata l’idea di improvvisazione radicale nata in seno al free j.; in Italia si sono affermate personalità dallo stile ricco di lirismo e di espressività (come il trombettista E. Rava) che hanno saputo rielaborare in modo originale la tradizione popolare italiana (come il sassofonista G. Trovesi).