Movimento filosofico tendente a rivalutare l’esistenza obiettiva del reale, soprattutto contro il soggettivismo della filosofia idealistica. Come movimento filosofico il n. sorse tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. In ambito anglosassone i suoi principali esponenti furono H.W.B. Joseph, H.A. Prichard, G.E. Moore e B. Russell e, per certi aspetti, S. Alexander. Pur convergendo su un tema comune, quello del rapporto tra la coscienza e il suo oggetto, diverse furono le singole posizioni e le interpretazioni dei due termini del rapporto, così come complesse furono le relazioni tra n. inglese e n. statunitense, maggiormente legato il primo (specie con Moore) alle tesi di filosofi come F. Brentano e A. Meinong. Il n. statunitense, sorto in polemica con l’idealismo di J. Royce, ebbe come maggiori esponenti R.B. Perry e W.P. Montague, che insieme ad altri ne enunciarono nel 1910 il programma e la piattaforma. Il problema era quello di fornire una spiegazione dell’indipendenza dell’oggetto reale dalla relazione conoscitiva, pur senza ripristinare il criticabile dualismo di conoscente e conosciuto. Il n. statunitense dedicò quindi particolare attenzione agli aspetti soggettivi del processo conoscitivo (illusione, errore, qualità secondarie ecc.) nel tentativo di riconciliare mondo del vissuto e mondo reale (in armonia con le tesi metafisiche di James). Monismo epistemologico e pluralismo ontologico furono gli esiti più coerenti, sebbene non gli unici, del n., che ben presto, nonostante la pubblicazione dell’opera collettiva New Realism: cooperative studies in philosophy (1912), lasciava il passo a nuovi orientamenti, tra cui, per es., il cosiddetto realismo critico (A.O. Lovejoy, J.B. Pratt, A.K. Rogers, D. Drake, C.A. Strong, R.W. Sellars, G. Santayana).
Corrente artistica (detta anche realismo socialista) sviluppatasi dopo la Seconda guerra mondiale come reazione al ‘formalismo’ dell’arte figurativa non impegnata socialmente e dell’arte astratta; il n. affermava la necessità di ricondurre l’arte a forme di immediata comunicazione e a contenuti storicamente attuali (lotte del lavoro, episodi della Resistenza ecc.).
In architettura si tende schematicamente a definire neorealistiche esperienze architettoniche quali quelle dell’INA Casa ecc., o la produzione di architetti come M. Ridolfi ecc., che solitamente fondevano i risultati delle ricerche del razionalismo europeo con soluzioni vernacolari italiane.
Poetica cinematografica affermatasi negli anni 1940. Suoi tratti distintivi erano l’impegno morale, l’esigenza di conoscere e modificare la realtà. Di qui l’opzione per vicende e personaggi dell’umile quotidianità contemporanea; la preferenza per i volti anonimi, spesso per attori non professionisti; il rifiuto del teatro di posa e la scelta prevalente degli ambienti e di un parlato naturale, a volte dialettale, mai da doppiaggio. L’opera riconosciuta come iniziatrice della corrente neorealista resta il capolavoro di R. Rossellini Roma città aperta (1945), una sentita evocazione della Resistenza antitedesca. Seguirono, dello stesso Rossellini, Paisà (1946), sei episodi sul passaggio al fronte e la stagione finale della guerra, e Sciuscià (1946) di V. De Sica, sceneggiatura di C. Zavattini, storia di due bambini abbandonati che lottano per la sopravvivenza. L’anno dell’acme neorealista fu il 1948, con Germania anno zero di Rossellini, dove il protagonista, dopo avere ucciso il padre ammalato, si uccide come per gioco precipitando dall’alto delle rovine di un palazzo bombardato; La terra trema, in cui L. Visconti rilesse con sensibilità contemporanea il mondo dei Malavoglia di G. Verga; Ladri di biciclette di De Sica, sceneggiatura di Zavattini, dove la cinepresa segue la disperata e affannosa ricerca di una bicicletta rubata a un disoccupato; Proibito rubare di L. Comencini, girato nella Napoli dei bassifondi e degli scugnizzi. Nel 1949 uscì Riso amaro di G. De Santis, spaccato di vita tra canto e protesta sullo sfondo delle risaie piemontesi. A partire dagli anni 1950 il n. perse il carattere iniziale, aprendosi su scenari meno drammatici.
Corrente letteraria che comincia ad affermarsi nella narrativa italiana intorno al 1930 (tra Gli indifferenti, 1929, di A. Moravia e Tre operai, 1934, di C. Bernari), con l’esigenza di una rappresentazione estremamente analitica, cruda, drammatica di una condizione umana travagliata dall’angoscia dei sensi, dalle convenzioni della vita borghese, dalla vacuità e noia dell’esistenza; e divenuta via via più aperta, specie dopo la Seconda guerra mondiale, alla critica del costume e alle istanze di un rinnovamento sociale maturate durante la Resistenza. Da notare che la ‘realtà’ perseguita dal n. è più vicina per certi aspetti all’introspezione e all’attenzione fenomenologica nei confronti del comportamento che non al ‘vero’ dei naturalisti ottocenteschi. Infatti gli antecedenti ideali del n. sono da cercare in M. Proust, J. Joyce, I. Svevo, L. Pirandello non meno che nei romanzieri russi e americani. Variamente atteggiato nei diversi scrittori, il n. va dall’estremo di una narrativa ‘priva di lirica’, risolta in personaggi, ambienti, situazioni (A. Moravia, V. Brancati, F. Jovine, C. Bernari ecc.), e in certi casi ‘documentaria’, all’altro estremo di una narrativa sostanzialmente lirica, di atmosfere (E. Vittorini, C. Pavese, V. Pratolini, P.A. Quarantotti-Gambini, R. Bilenchi, C. Cassola e G. Bassani).