Scrittore e sceneggiatore italiano (Firenze 1913 - Roma 1991). Considerato uno dei maggiori scrittori italiani del secondo Novecento, alcuni dei racconti e romanzi di P., rappresentano il momento migliore della tradizione realista e, in parte, neorealista.
Esercitò da ragazzo i più umili e vari mestieri, studiando da autodidatta. Conobbe Rosai e Vittorini e fu legato agli ambienti del fascismo di sinistra., collaborando al Bargello. Passò presto all'antifascismo, avvicinandosi alle posizioni comuniste; ebbe stretti rapporti con gli ermetici fiorentini. Cominciò a farsi conoscere nell'ambiente di Letteratura e di altre riviste fiorentine, di due delle quali, Campo di Marte e Incontro, fu anche redattore (1938-40). Nel 1939 si trasferì a Roma; partecipò alla lotta partigiana e alla fine del 1945 si trasferì a Napoli, dove insegnò all'Istituto Statale di Arte. Nel 1951 tornò a Roma, dove ha poi sempre vissuto, impegnato nel suo lavoro di scrittore, fedele alla tradizione della sinistra, ma inquieto di fronte agli sviluppi della lotta politica e sociale e alla crisi mondiale del marxismo.
Nei primi suoi racconti (Il tappeto verde, 1941; Via de' Magazzini, 1942; Le amiche, 1943; poi riuniti, con altri, sotto il titolo Diario sentimentale, 1956), ispirati da ricordi della sua adolescenza e da un trepido interesse per la vita dei poveri, del popolo minuto della propria città e quartiere, sono già presenti i due modi e toni fondamentali della sua narrativa; l'uno di memoria lirica, per cui la realtà anche più cruda, la «cronaca» intima più sanguigna, vengono trasposte in prospettive vagamente elegiache; l'altro di un realismo più disincantato o risentito, che sembra contaminare la tradizione toscana (dal bozzettismo ottocentesco a Tozzi, Cicognani, Pea) con la lezione di certa narrativa americana. Nei racconti e romanzi successivi (Il quartiere, 1944; Cronaca familiare, 1947; Cronache di poveri amanti, 1947; Mestiere di vagabondo, 1947; Un eroe del nostro tempo, 1949; Le ragazze di Sanfrediano, 1952), quei due modi si vennero spesso divaricando; e mentre il primo giunse a dare magiche trasparenze ai motivi autobiografici di P., in pagine che contano senz'altro fra le sue migliori (come in Cronaca familiare), l'altro, quello realistico-sociale, indulgendo talora a un populismo di maniera, di rado si sottrasse ai pericoli di un'immediatezza affettiva e oratoria. Finché in Metello (1955), primo tempo di «Una storia italiana», quei modi e toni riescono a trovare una loro felice convergenza dando luogo, più che a un romanzo, a un ampio affresco di vita collettiva e individuale, sociale e sentimentale. Il romanzo collocava la vicenda anche sentimentale di un giovane muratore fiorentino nell'ambito dello sciopero degli edili del 1902. Meno felici risultano i due romanzi che completano la trilogia (Lo scialo, 1960, in cui spostava le date fino agli anni dell'avvento al potere del fascismo, e perciò si caricava di un senso di quasi indegno sfacelo e di un pessimismo paralizzante l'intera società; e Allegoria e derisione, 1966, in cui portava la storia agli anni della Resistenza e arrivava − al di là della Favola che intendeva dare in forma allegorica il senso della lotta politica − a congiungere il romanzo, in cui il personaggio Valerio coincide con lo stesso autore, con l'autobiografia). I volumi di «Una storia italiana» erano stati intervallati nel 1963 da un altro romanzo, La costanza della ragione (1963), che porta la vicenda fino agli anni 1956-60, delineando tutte le lotte e le incertezze ideologiche di quel periodo, soprattutto all'interno del Partito comunista italiano. Ma anche in questo romanzo, come nei precedenti, alla storia maggiore si mescola la storia minore e privata dei singoli personaggi e dei loro forti moti sentimentali, l'amore e il dolore. E così pure trovano ulteriore conferma lo stile e la lingua di P., fortemente comunicativi e sensibilmente ma non fastidiosamente patinati di accenti fiorentini rispondenti al progetto sostanzialmente realistico del suo narrare. Autore anche di versi (La città ha i miei trent'anni, 1967), P. pubblicò nel 1985 Il mannello di Natascia e altre cronache di versi e prosa (1930-1980); postume (1992) sono apparse le Cronache dal Giro d'Italia (maggio-giugno 1947). P. fu in modo atipico un grande sceneggiatore il cui vero interesse era la rappresentazione drammatica di un ambiente. Per P. la sceneggiatura aveva sempre un rapporto diretto con un racconto o con un romanzo; doveva funzionare come una «storia raccontata due volte» e quindi come una vicenda che, anche nel cinema, era votata a mantenere un legame diretto con l'oralità del reale. Il rapporto di P. con il cinema fu sempre continuo e importante. L'anno successivo con L. Visconti e S. Cecchi D'Amico lavorò alla sceneggiatura di Cronache di poveri amanti, anche se la regia del film venne realizzata da C. Lizzani nel 1954. Nel 1953 P. collaborò alla sceneggiatura di Cronaca di un delitto di M. Sequi e di La domenica della buona gente di A. G. Majano (tratto dall'omonimo radiodramma di P. e di G.D. Giagni); l'anno seguente a Terza liceo di L. Emmer e a Tempi nostri (Zibaldone n.2) di A. Blasetti. Furono comunque gli ultimi anni Cinquanta e i primi Sessanta a rappresentare il momento di maggiore impegno di P. per il cinema. Nel 1960, da giugno a ottobre, tenne la rubrica di critica cinematografica per il settimanale milanese «ABC». Nel 1962 avvenne però la consacrazione più importante con il film Cronaca familiare di V. Zurlini, tratto dal suo romanzo omonimo che lo stesso P. adattò lavorando al soggetto e alla sceneggiatura. Nel 1972 collaborò - e fu il suo ultimo lavoro per il cinema - alla sceneggiatura di La colonna infame (1973), di N. Risi, tratto dalla Storia della colonna infame di A. Manzoni.