Alle origini delle moderne letterature europee, ampio scritto in lingua volgare, dapprima in versi poi anche in prosa, che narra avventure eroiche in margine alla storia o di pura invenzione; così nel r. cavalleresco e nel r. cortese, anch’esso del tipo cavalleresco, ma con prevalenza del tema amoroso.
Nell’uso moderno, componimento letterario in prosa, evoluzione della forma precedente, che si diffonde dalla metà circa del 16° sec. e si afferma nella letteratura europea a cominciare dal 17° sec., raggiungendo il suo maggiore sviluppo e le più varie articolazioni nel 19° sec.: narrazione di vicende familiari o di un singolo individuo, su uno sfondo storico o di fantasia. Per lo più di media estensione, può assumere talvolta le dimensioni e i caratteri di un racconto più o meno lungo (r. breve); o essere invece assai ampio e dare la narrazione continua delle vicende di un ambiente, di una famiglia, o addirittura di più generazioni (r. fiume; r. ciclico). I tipi di r. sono distinti e denominati in rapporto ai temi dominanti, allo stile, alla struttura ecc.
Per estensione si dà il nome di r. a opere letterarie antiche di carattere narrativo, destinate come il r. vero e proprio a dilettare il lettore: in questo senso si parla di r. greco o di r. indiano, orientale ecc.
Nell’antica letteratura egiziana e babilonese-assira non si hanno r. differenziabili per ampiezza di ritmo e di linea narrativa dalle novelle; infatti le composizioni narrative babilonesi-assire rientrano piuttosto nell’epica religiosa. R. orientale si può definire invece quello di Aḥīqār (6° sec. a.C.), nato in ambiente aramaico, ma sotto l’influsso culturale babilonese-assiro, che rappresenta in forma tipica il carattere sapienziale e didattico di questa antichissima arte narrativa semitica, in cui l’elemento fantastico e paradossografico serve da cornice a quello più schiettamente gnomico. Il r. di Aḥīqār diede luogo a tutta una serie di narrazioni derivate, come avverrà, nel mondo orientale mediterraneo, qualche secolo dopo, con la leggenda di Alessandro dello Pseudo-Callistene, sorto in ambiente fortemente orientalizzato (l’Egitto del 3° sec. d.C.), e poi con le numerosissime versioni (pahlaviche, siriache, arabe, armene, neopersiane), tutte però di origine popolare, poiché la materia romanzesca in genere non ebbe favorevole accoglienza nella letteratura colta, o vi entrò solo nella forma metrica del poema romanzesco.
Nell’ambiente per lo più arabo di Egitto e di Siria nacquero vari cicli romanzeschi, alcuni dei quali saranno anche assorbiti da raccolte come le Mille e una notte, il r. cavalleresco di ‛Omar an-Nu‛mān e dei suoi figli, quello di Saif ibn Dhī Yazan (15° sec.), quello della Sīrat ‛Antar (13° sec.), fantastica evocazione della vita beduina dell’Arabia preislamica; e molti altri racconti prosastici (spesso con versi intercalati) in arabo, in persiano, in turco, aventi per argomento le guerre dell’islamismo nascente nella stessa Arabia, poi contro i Bizantini, i Turchi, più tardi i crociati (r. di avventure di ‛Alī, r. di al-Bāṭṭāl, r. di Baibars ecc.). La letteratura dotta disdegna queste forme, avvalendosi del r. soltanto a scopi allegorici, come nella Sīrat Ḥayy ibn Yaqẓān, in arabo, di Ibn Ṭufail, in cui il lungo racconto dell’autoeducazione del ‘Robinson Crusoe’ islamico è semplice velo delle verità filosofico-religiose che lo scrittore arabo-spagnolo vuole inculcare. Dal 19° sec. la produzione del r. in paesi arabi e turchi è sotto il diretto influsso occidentale, specie francese; numerose sono le traduzioni, fino ad arrivare al 1914 con Zainab di M.H. Haikal, considerato il primo r. arabo.
Nella letteratura classica indiana, il r. si riveste di una forma prosastica estremamente elaborata, come nel Dasākumacarita («Le avventure dei 10 principi») di Dandin, e nel Vāsavadatta di Subandhu. In Giappone, il monogatari («storia», «racconto») appare fin dal 10° sec. di notevole dignità letteraria, come nel Genji monogatari di Murasaki no Shikibu (intorno al 1000), vero capolavoro di r. sociale del Medioevo giapponese, nella letteratura galante del 17° sec. e in una ricca produzione di r. d’avventure, umoristici, storici.
Le origini del r. greco risalgono all’età del tardo ellenismo. Molti sono gli elementi che confluirono nella sua formazione: il gusto per le avventure che dall’Odissea e da Ecateo di Abdera, e in genere dalla storiografia ionica, continua fino a quella ellenistica; le descrizioni di viaggio composte dopo la conquista di Alessandro; il sentimentalismo erotico proprio dell’elegia alessandrina e, ancora più, della commedia nuova; ma è evidente anche l’elaborazione popolare delle leggende locali. Questi però sono antecedenti, non ancora l’origine del r., dovuta soprattutto allo spirito dell’autore sconosciuto del primo r., modello poi a tutti gli altri, cioè una lunga storia d’amore, spesso sentimentale, congiunta e intersecata da un racconto di avventure e peripezie, il Romanzo di Nino: in esso il leggendario fondatore dell’impero assiro è un adolescente diciassettenne innamorato della cugina quattordicenne, la mitica Semiramide; e il Romanzo di Nino è databile non oltre il 1° sec. a.C. Ma i r. greci a noi pervenuti, definiti anche con il titolo complessivo di Erotici greci, sono tutti più tardi. La loro diffusione avvenne dalla fine del 1° sec. d.C. a cominciare dalle Avventure di Cherea e Calliroe di Caritone di Afrodisia, soprattutto a opera della seconda sofistica che rese più complessi gli intrecci, più artificiose le situazioni, più retorico e prolisso lo stile, senza introdurre elementi psicologici o studio dei caratteri. Si ebbero così: Le meraviglie di là da Tule di Antonio Diogene (di cui si ha il riassunto di Fozio) del 1° sec. d.C., r. di viaggi fantastici con tendenze moralistiche, ma dove l’elemento erotico non manca; le Efesiache di Senofonte Efesio (2° sec. d.C.), che mostra evidente l’influsso sofistico pur avendo la fisionomia di un racconto popolare; poi Gli amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista (fine del 2° sec. d.C.), dove nella storia d’amore è introdotta la novità dell’ambiente pastorale; la Storia di Clitofonte e Leucippe di Achille Tazio, ritenuto un tempo molto tardo, del 5° sec. d.C., ma da ricollocarsi, in seguito a scoperte di papiri, nel 2° sec. d.C., e in cui l’elemento erotico ha preminente importanza; le Etiopiche di Eliodoro (principio del sec. 3° d.C.), dal tono pieno di preoccupazioni morali e religiose, ma convenzionale nell’inquadratura ambientale, e di stile pomposo.
Un altro tipo di r. greco, realistico e satirico, trasse motivi e materia dalle favole milesie di Aristide di Mileto (2° sec. a.C.), rielaborazione letteraria di motivi popolari presenti nelle licenziosità della commedia antica e del mimo popolare ellenistico. Ne abbiamo un solo esempio nell’Asino attribuito a Luciano, rielaborazione di un omonimo racconto di Lucio di Patre, di cui abbiamo il riassunto nella Bibliotheca di Fozio. Le Milesie furono poi tradotte in latino dall’annalista Lucio Cornelio Sisenna (1° sec. a.C.) ed ebbero singolare sviluppo nel romanzo latino di Petronio, il Satyricon, e trasfigurazione mistica nelle Metamorfosi di Apuleio.
Il r. medievale. Il Medioevo amerà molto narrare le antiche leggende classiche, come nel Roman de Thèbes, nel Roman d’Enéas, nel Roman de Troie, nel Roman d’Alexandre. A questo genere si accompagnavano narrazioni di tipo fantastico e avventuroso, le favole d’armi e d’amori, le leggende di Tristano e Isotta, e di Lancillotto e Ginevra del ciclo brettone, che conservarono per molti secoli l’immagine di una società feudale e cavalleresca: il romanziere che, in pieno 12° sec., consacrò la fortuna di quel ciclo fu Chrétien de Troyes, autore di un perduto Tristan, di Érec et Énide, di Cligès, del Lancelot, d’Ivain, di Perceval o Le conte du Graal. I racconti epici del ciclo carolingio confluirono più tardi, e specialmente nelle redazioni in prosa, succedute alle chansons de geste, in questo genere romanzesco, che fu caro a tutte le letterature d’Europa. Ancora nel 12° sec. s’inizia la silloge e, in certo modo, l’epopea animalesca del Roman de Renart, e nel corso del 13° sec., per opera di Guillaume de Lorris e Jean de Meung, nasce il Roman de la Rose, che comprende tutto l’ideale artistico della Francia fino all’alba del Rinascimento.
In Italia, dopo le versioni e i rifacimenti dei r. francesi, assai numerosi fra 13° e 14° sec. (storie di Troia, la Tavola rotonda, il Lancillotto del Lago), G. Boccaccio si volse alla grande narrazione in prosa con il Filocolo, con l’Ameto, alternato di prose e di rime, e con la Fiammetta. A Bosone da Gubbio si attribuiva l’Aventuroso Ciciliano, compilazione di racconti guerreschi e discorsi morali.
Il Rinascimento. La tradizione cavalleresca trova, alla fine del 14° sec., un cultore in Andrea da Barberino, autore, fra l’altro, dei Reali di Francia e del Guerin Meschino; l’esempio di Boccaccio si ravvisa nell’Arcadia di I. Sannazzaro, nell’Hypnerotomachia Poliphili di F. Colonna, nel Peregrino di J. Caviceo, nella Philena di N. Franco. La Francia del Rinascimento ebbe il suo grande r. nel Gargantua et Pantagruel di F. Rabelais. Larga fortuna ebbe il romanzo di Apuleio, di cui l’Asino d’oro di A. Firenzuola è una versione assai libera; i romanzi greci di Eliodoro, di Achille Tazio, di Senofonte Efesio, di Longo Sofista, furono ammirati e tradotti.
La Spagna ebbe come suo primo r. El Caballero Zifar, forse dell’arcidiacono F. Martínez (1300 ca.). La Fiammetta di Boccaccio ebbe notevole risonanza nella Cárcel de Amor di D. de San Pedro, e in Grimalte y Gradissa di J. de Flores, autore anche della Historia de Grisel y Mirabella, ispirata alle questioni d’amore del Filocolo. E dal r. pastorale di Sannazzaro mosse J. de Montemayor per la Diana, come poi F.L. de Vega per l’Arcadia. Una specie di r. storico ispano-moresco, Historia de los bandos de Zegríes y Abencerrajes o Guerras civiles de Granada, si deve a G. Pérez de Hita. Il r. picaresco d’impronta nettamente spagnola, ricco di scene d’ambiente e di raffinato gusto formale, ha inizio, alla metà del 16° sec., con la Vida de Lazarillo de Tormes, di autore sconosciuto, e procede con Guzmán de Alfarache di M. Alemán, La pícara Justina di F. López de Úbeda, Marcos de Obregón di V. Espinel, Historia de la vida del buscón di F. de Quevedo, e altri. Tutta l’esperienza letteraria di queste varie forme sta alla base dell’opera di M. de Cervantes, che aveva tentato il r. pastorale con la Galatea, terminò, poco prima della morte, Los trabajos de Persiles y Sigismunda, e comprese nel suo capolavoro El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha la satira e insieme la poesia di tutte le favole della sua terra.
In Germania, la riforma luterana nonostante la sua austerità aveva tuttavia favorito una letteratura di carattere ameno e popolareggiante: nacquero e si svilupparono allora lo Schwank, un genere di racconti improntati a una rude e travolgente comicità (di cui ci offre esempi H. Sachs, il poeta calzolaio), e il Volksbuch («il libro popolare»), come si chiamarono i rifacimenti in prosa di argomenti leggendari tedeschi e stranieri. Un famoso Volksbuch è quello di Till Eulenspiegel, traboccante di trovate maliziose e facete, che ebbe larga diffusione in Francia e in Belgio. Il più celebre esempio di questa caratteristica produzione è il Volksbuch di Faust, che è il più fedele documento della Riforma. Autore di una rielaborazione del Gargantua di Rabelais, con il titolo Geschichtklitterung, fu J. Fischart, cui spetta il merito di aver introdotto il r. in Germania.
Il Seicento e il Settecento. Un largo sviluppo nel Seicento ebbe il r. eroico-galante: Adriatische Rosemund di P. von Zesen, Arminius di C. von Lohenstein, Die asiatische Banise di H.A. von Ziegler und Kliphausen, Simplicissimus di H.J.C. von Grimmelshausen.
Il r. francese conquistò la società elegante con l’Astrée di H. d’Urfé, Artamène ou le Grand Cyrus e Clélie di G. e M. de Scudéry, e molte altre storie pastorali e cavalleresche intessute di allegorie amorose, da cui si svincola, con un interesse psicologico nuovo, la Princesse de Clèves di Madame de La Fayette. I viaggi fantastici di H.-S. Cyrano de Bergerac (L’autre Monde ou Histoire comique des états et empires de la Lune e Histoire comique des états et empires du Soleil) e, alla fine del secolo, il r. educativo di F. de Fénelon (Les aventures de Télémaque) valsero ad ampliare i confini del genere, dimostrandolo capace di un contenuto filosofico. Il r. di costume, dall’Histoire comique de Francion di C. Sorel al Roman comique di P. Scarron e al Roman bourgeois di A. Furetière, mentre si accosta al tipo picaresco spagnolo, prepara la fortuna di un realismo più pieno, di vita e di sentimento; il r. si annuncia come uno ‘specchio della vita’, come la riproduzione più diretta e fedele della realtà: D. De Foe con il Robinson Crusoe e con Moll Flanders, P. de Marivaux con la Vie de Marianne e Le paysan parvenu, A.-F. Prévost con i Mémoires et aventures d’un homme de qualité (dove è notevole l’episodio di Manon Lescaut), A.-R. Lesage con Gil Blas, J. Swift con Gulliver’s travels, S. Richardson con Pamela, Clarissa e Grandison, H. Fielding con Joseph Andrews, Jonathan Wild, Tom Jones, L. Sterne con Tristram Shandy, O. Goldsmith con The vicar of Wakefield. Ma si afferma anche un tipo di racconto misto di passioni e di aspirazioni virtuose (la Religieuse di D. Diderot). Alla vena di Richardson si collega J.-J. Rousseau, con Julie ou la Nouvelle Héloïse, mentre l’Émile ou De l’éducation costituiva un modello del r. d’idee, che ebbe fortuna in Germania con C.M. Wieland e massimamente con Goethe; un piacevole umorismo domina in J.P. Richter.
Il r. italiano, offuscato nel favore del pubblico dal prestigio della poesia classica e dall’immensa fortuna del teatro, si era volto nel Seicento agli influssi francesi e spagnoli (Eromena di G.F. Biondi; Dianea di G.F. Loredano; Eudemia di G.V. Rossi; Il Colloandro di G.A. Marini ecc.); si pie;gò nel Settecento, con P. Chiari e A. Piazza, agli influssi francesi e inglesi, visibili ancora nell’Abaritte di I. Pindemonte, nelle Avventure di Saffo e nelle Notti romane di A. Verri. Un’opera non nuova strutturalmente, ma singolare come tono lirico, nascerà con Jacopo Ortis di U. Foscolo.
L’Ottocento. La ricchissima produzione del r. francese tra il 18° e il 19° sec. va dall’analisi ardita delle Liaisons dangereuses di P.-A.-F. Choderlos de Laclos al sentimentalismo di Paul et Virginie di B. de Saint-Pierre, alla ricca gamma spirituale dei r. di F.-A.-R. de Chateaubriand, ai vari interessi psicologici e ambientali di Madame de Staël (Delphine e Corinne), di B. Constant con il suo Adolphe, di C.-A. Sainte-Beuve (Volupté) e di A. de Musset (Confession d’un enfant du siècle). Un luogo a parte spetta all’arte personalissima e moderna di Stendhal, consacrata da due grandi romanzi: Le Rouge et le Noir e La Chartreuse de Parme.
In questa stessa epoca due temi muovono dalla letteratura inglese: l’uno, del r. gotico, che sorge con The castle of Otranto di H. Walpole (cui seguono C. Reeve, A. Radcliffe, G. Lewis, C.R. Maturin, M. Wollstonecraft Shelley), l’altro, del r. storico, per opera di W. Scott, che evocò le storie della sua terra natale in numerosi r. (Waverley, Guy Mannering, The bride of Lammermoor, Ivanhoe, The monastery, The abbot, Kenilworth, The pirate, Quentin Duward ecc.). L’opera di Scott valicò subito le frontiere, influenzando i narratori francesi (A. de Vigny, P. Mérimée, V. Hugo, A. Dumas) e italiani: in Italia la presenza di A. Manzoni stabilisce uno dei capisaldi della narrativa moderna, sebbene il suo influsso immediato si traduca soltanto nella serie dei r. storici di G. Bazzoni, T. Grossi, M. d’Azeglio, C. Cantù; un’eccezione è il breve r. Fede e bellezza di N. Tommaseo.
Il rinnovamento del r. moderno spetterà alla letteratura francese di metà Ottocento, nei nomi di H. de Balzac, minuzioso e potente narratore della vita borghese nei r. del ciclo della Comédie humaine, di V. Hugo, di G. Sand, e soprattutto di G. Flaubert, nei cui capolavori (Madame Bovary, L’éducation sentimentale, Bouvard et Pécuchet) l’osservazione inflessibile della realtà si unisce a un finissimo gusto espressivo e formale. Il naturalismo, accettando l’eredità del r. precedente, svolge un programma più ampio e ambizioso, che riflette il pensiero scientifico positivista di quel periodo: É. Zola nel ciclo dei Rougon-Macquart, i fratelli E. e J. de Goncourt, A. Daudet e soprattutto l’acutissimo G. de Maupassant. Dal naturalismo si stacca il decadente J.-K. Huys;mans.
Il Romanticismo tedesco aveva schiuso un largo campo alla produzione romanzesca: F. Hölderlin nel suo racconto epistolare Hyperion, Novalis nello Heinrich von Ofterdingen, L. Tieck con i Franz Sternbalds Wanderungen, A. von Arnim con i Gräfin Dolores e Die Kronenwächter. Una vena del r. inglese procede verso il delicato realismo psicologico di J. Austen, la satira pungente di W.M. Thackeray e le affettuose creazioni narrative di C. Dickens, verso le opere varie e sensibili di G. Eliot, delle sorelle Brontë, Emily, Charlotte e Anne, di G. Meredith e di W. Pater, di T. Hardy e il gusto dell’avventura di tre ecce;zionali narratori: R.L. Stevenson, R. Kip;ling, J. Conrad. La letteratura americana di lingua inglese risente gli influssi europei alle soglie dell’Ottocento, con W. Irving, H.H. Brackenridge, C.B. Brown, e si afferma con i r. d’avventura di J.F. Cooper, di E.A. Poe, di H. Melville, di N. Hawthorne. Accanto all’umorista M. Twain troviamo il finissimo stilista H. James.
Fuori del naturalismo la Francia conobbe l’arte di T. Gautier, di E. Fromentin, di A. France, M. Barrès. Non meno importante il cammino del r. tedesco, in questa epoca, da G. Keller a T. Mann. In Italia, il r. storico, ampliato in grandi visioni della vita nazionale nelle Confessioni di un italiano di I. Nievo e nei Cento anni di G. Rovani, si protrasse per tutta la seconda metà dell’Ottocento a opera soprattutto di F. De Roberto e di E. Calandra. La dottrina naturalista fu ripresa, ed elevata, da G. Verga, il quale, dopo i racconti passionali della prima maniera, si accinse al ciclo dei Vinti con due capolavori: I Malavoglia e Mastro don Gesualdo; militò, accanto a Verga, L. Capuana. Le simpatie per una rappresentazione borghese, e talora popolare, della vita moderna, si affermano con i r. di E. De Marchi, G. Rovetta, M. Serao (Fantasia, Il paese di Cuccagna). Figure eminenti nell’ambito del r. decadente furono A. Fogazzaro e G. D’Annunzio.
Una delle acquisizioni più rilevanti della letteratura europea dell’Ottocento fu senza dubbio quella del r. russo. I suoi inizi, pur non coincidendo che in parte con il grande movimento poetico del principio dell’Ottocento, s’inquadrano in quella rapida e radicale evoluzione verso il realismo che sarà per molti decenni la caratteristica precipua della letteratura russa, da N. Gogol´ con le sue Mërtvye duši («Anime morte») a I. Turgenev, alle grandi opere di L. Tolstoj e di F. Dostoevskij, che recano un mondo nuovo e una nuova problematica spirituale, fino a I. Gončarov, N. Leskov, M. Gor´kij.
La fortuna del romanzo. Due fattori tra loro contrastanti caratterizzano la fortuna del r. nel Novecento: da una parte le migliorate condizioni economiche e la crescente alfabetizzazione orientano nuove masse di lettori verso il genere letterario demandato più di ogni altro all’intrattenimento e ne promuovono una sempre più franca ispirazione popolare (fino alle specializzazioni del r. poliziesco, del r. rosa, del r. di fantascienza ecc.); dall’altra, la ricerca della riuscita letteraria assoluta e il rifiuto polemico delle soluzioni convenzionali o solo collaudate, che il superiore prestigio culturale della poesia simbolista riesce a imporre anche nella prosa, fanno del r. il terreno privilegiato della ricerca letteraria, quello dove finalmente la purezza sperimentale della poesia, incontrandosi con i meccanismi della narrazione distesa e complessa, sia in grado di generare l’«opera d’arte totale». Si spiega così, oltre al successo presso il grande pubblico del r., il suo sopravvento, anche nella considerazione della critica, su ogni altra forma letteraria, e in concreto l’identificazione della modernità con i suoi monumentali capolavori: À la recherche du temps perdu di M. Proust, Ulysses di J. Joyce, Der Mann ohne Eigenschaften di R. Musil.
Giudicando in perfetta sintonia con i teorici del periodo (soprattutto il giovane G. Lukács) e talora divenendo essi stessi teorici del r. (E.M. Forster, A. Gide, T. Mann), gli scrittori ritengono improponibile il racconto tradizionale (in cui cioè in nessun modo traspaiano il valore conoscitivo e la natura problematica dell’operazione da loro condotta) e ormai tramontata l’epoca delle grandi narrazioni oggettive, che nell’Ottocento avevano ereditato la funzione dell’epica, e sia pure dell’‘epica borghese’ di cui aveva parlato G.W.F. Hegel.
L’internazionalizzazione. Già nell’ultimo scorcio del 19° sec., la diffusione internazionale dei capolavori di Flaubert e Zola, Stevenson e James, Dostoevskij e Tolstoj, ma anche di una pletora di autori minori, era stata favorita da una comunicazione culturale ampiamente influenzata dal sistema dell’industria editoriale. Dal canto loro, gli scrittori, per amore del nuovo, erano attratti da concezioni letterarie intolleranti di qualsiasi determinazione riduttiva, e orientate a non distinguere tra prosa e poesia o tra Italia e Francia, riservandosi semmai di giocare la carta della propria identità nazionale su un tavolo diverso da quello della letteratura. Ma se è difficile negare che i r. abbiano sempre conservato, quando più quando meno, i loro caratteri nazionali e talora persino regionali e cittadini, bisogna riconoscere che per quanto riguarda grandi temi e forme, da un capo all’altro del secolo e da una cultura all’altra (con alcune eccezioni), essi si sono mossi nella stessa direzione.
Estranei alla logica delle avanguardie, che al r. guardarono con sospetto, Proust, Joyce e Musil ipotecarono i futuri sviluppi della letteratura nelle tre lingue maggiori. Se la risposta dello spagnolo (e non della Spagna, in una dinamica che ormai riguarda comunque entità sovranazionali) arriverà solo nella seconda metà del secolo, muovendo dalle esperienze degli scrittori ispano-americani, e se in Russia le vicende rivoluzionarie imporranno una logica diversa allo sviluppo delle forme letterarie, in Italia si può realisticamente paragonare all’influenza di quei tre maggiori solo quella di L. Pirandello, ancorché esercitata piuttosto attraverso la sua opera drammaturgica che quella narrativa (dove semmai, conformemente con la nostra tradizione, spiccano le novelle). La coscienza di Zeno (1923) di I. Svevo e Uno, nessuno e centomila (1925) di Pirandello costituiscono le punte più avanzate di una ricerca che, in tanto perviene agli esiti più europei di un rinnovamento del r. capace di intaccare anche gli istituti narrativi, in quanto meno umanisticamente nutrita di letteratura.
I fondatori del r. moderno. Con l’Ulysses (1922), Joyce, che riassume generi diversi in un r. concepito come il loro superamento, spinge alle estreme conseguenze l’opzione realista del naturalismo, rompendo la corteccia dell’apparenza e coinvolgendo, per giungere alla verità, non l’interiorità dei personaggi o la propria, ma il continuum indifferenziato in cui la coscienza cessa di essere censurata anche solo dal filtro logico-linguistico (donde il flusso di coscienza e il tendenziale asintattismo e associazionismo della prosa che lo esprime). L’esaltazione del procedimento, tentata in Finnegans wake (1939), costituisce la dimostrazione oggettiva del carattere simbolico della rivoluzione letteraria di Joyce e dell’impossibilità di concepirla come una strada ulteriormente praticabile.
La Recherche di Proust (7 vol., 1913-27) riprende l’ambizione ciclica di Balzac e Zola, per conferirle, più che l’unità di un’esperienza personale e metaforicamente autobiografica, quella di un prodigio architettonico della memoria, capace di riscattare l’intreccio dal suo destino grossolanamente romanzesco e di trasformarlo nella rappresentazione verosimile della lotta stessa della memoria con il tempo.
Der Mann ohne Eigenschaften (3 vol., di cui l’ultimo postumo e incompiuto, 1930-43) di Musil è certamente meno noto degli altri due, avendo dovuto condividere la sua funzione emblematica, di soglia simbolica del Moderno, nell’area linguistica tedesca, con i r. di Mann e F. Kafka. Mann è autore di r. monumentali (come il ciclo di Joseph und seine Brüder, 1933-43) e Kafka delle rappresentazioni più note e addirittura popolari dell’angoscia contemporanea (Der Prozess, 1925; Das Schloss, 1926). Ma il capolavoro di Musil si avvantaggia, rispetto alle opere di questi ultimi, per la sua esplicita vocazione all’assolutezza, per il giudizio profetico su un presente che è diventato incomprensibile, forse invisibile e comunque «senza qualità», per la rappresentazione analitica di una degradazione irreversibile insita già nella raffinatezza intellettuale dello strumento che la coglie.
Se il r. novecentesco realizza il suo programma rivoluzionario con questi autentici classici, non si deve credere tuttavia né che alla loro ombra non fiorisse una produzione rigogliosa e di grande valore, né che l’impulso innovativo si esaurisse con essi. Qui si può ricordare solo di sfuggita i grandi romanzi degli inglesi V. Woolf (To the ligh;thouse, 1927) e D.H. Lawrence (Lady Chatterley’s lover, 1928), nonché le memorie di guerra del gallese T.E. Law;rence (Seven pillars of wisdom, 1921-35), opere tutte capaci di ribadire, se non di approfondire, ciascuna nei modi suoi propri, l’aura di scandalo che accompagna il r. novecentesco; aura alla quale può essere ricondotta anche l’opera di Kafka, in particolare per quell’inclinazione all’assurdo e quella contaminazione di comico e tragico con cui molti altri (specialmente in campo drammaturgico) rappresenteranno la vita contemporanea. E andrà ricordata anche la ricerca di A. Gide, che delle innovazioni romanzesche si fece interprete addirittura didascalico (Les faux-monnayeurs, 1925).
Realismo e impegno politico. Mentre, tra le due guerre, il pubblico decretava il successo internazionale di romanzieri mitteleuropei, spesso di grande qualità e in alcuni casi destinati a una straordinaria durata (F. Körmendi, H. Fallada, H. Hesse, J. Roth, F. Werfel, A. Zweig), il fenomeno più cospicuo è sicuramente rappresentato dalla repentina affermazione nella cultura europea di alcuni giovani romanzieri statunitensi: S. Lewis (Babbitt, 1922), J. Dos Passos (Manhattan transfer, 1925), F.S. Fitzgerald (The great Gatsby, 1925), W. Faulkner (The sound and the fury, 1929), E. Hemingway (A farewell to arms, 1929), E. Caldwell (Tobacco road, 1932), J. Steinbeck (The grapes of wrath, 1939, conosciuto in Italia con il titolo Furore). Questi scrittori riproponevano una narrazione di tipo realistico, in cui però la crudezza delle situazioni, l’immediatezza del linguaggio, la violenza delle passioni, la miscela contraddittoria di psicologia primitiva e ambiente metropolitano, non solo costituivano il retroterra ideale e la giustificazione emotiva delle innovazioni novecentesche del r., ma conferivano al racconto l’altezza assoluta di una tragedia. Di questa nuova attitudine seppero fare addirittura una formula scrittori come D. Hammett e R. Chandler, maestri della hard-boiled school, che innalzarono il r. poliziesco ai livelli della narrativa maggiore.
In Italia si muove fin dall’esordio in una direzione di realismo tragico A. Moravia, che con Gli indifferenti (1929) mostra di aver fatto tesoro della lezione di Dostoevskij, mettendo in scena la viltà senza coscienza di una società di ‘umiliati e offesi’, in cui i motivi dell’agire di chi soffre per la corruzione universale non si traducono mai in motivazioni autentiche e le ribellioni si esauriscono perciò al livello simbolico. Con Moravia, C. Pavese, E. Vittorini e C. Bernari, si ritiene abbia fatto i suoi primi passi una fortunata poetica narrativa, quella del neorealismo, che, nell’immediato secondo dopoguerra e sulla base di una nutritissima produzione memorialistica legata alle vicende belliche e alla Resistenza, produrrà i suoi frutti più cospicui non tanto in letteratura quanto nel cinema.
In Francia, sotto l’etichetta dell’esistenzialismo, la stagione dell’engagement degli intellettuali espresse in campo narrativo i r. di A. Camus e di J.-P. Sartre, che peraltro riprendevano una consuetudine alla narrativa militante già affermatasi con G. Bernanos, A. Malraux, F. Mauriac. Nella sua versione più popolare e generica, l’esistenzialismo fu anche altrove adibito a spiegare la moderna insufficienza del r. a sé stesso, che narrativamente era incarnata dagli angosciati eroi dell’estraneità e della nausea. Tragicamente diverso il rischio totale abbracciato dal francese L.-F. Céline (Voyage au bout de la nuit, 1932), che smaschera il carattere spesso astratto di quella problematica, riuscendo a intravvedere un margine di libertà solo nell’eccesso linguistico e ideologico e in un destino di emarginazione e condanna.
Tra i molti autori stranieri che ebbero grande successo internazionale, vanno ricordati due straordinari esempi di raffinato artigianato letterario, come il russo americanizzato V. Nabokov (Lolita, 1955) e il belga di lingua francese G. Simenon (il ciclo del commissario Maigret e gli altri polizieschi cui si dedicò a partire dal 1931).
In Italia, l’impegno politico degli scrittori supportò il r. neorealista, tanto povero di risultati propri, quanto fertile come terreno di coltura per una narrativa diversa (anche rispetto a quel modello di ‘realismo socialista’, che mentre imponeva autori come i russi I. Erenburg e M. Šolochov, obbligava al silenzio il ben più significativo M. Bulgakov). Se persino Metello (1955) di V. Pratolini, salutato al suo apparire come il culmine e il superamento del neorealismo, è un r. che si sottrae al corrispondente orizzonte cronachistico per inserirsi nella tradizione del r. storico, non senza riconnettersi al peculiare tradizionalismo toscano, e se anche il libro da cui si data la nascita dell’industria italiana dei grandi successi editoriali, Il Gattopardo (1958) di G. Tomasi di Lampedusa, pratica ormai un sofisticato realismo psicologico, riprendendo l’interpretazione siciliana del r. storico inaugurata da G. Verga, F. De Roberto e L. Pirandello, le proposte più incisive dal neorealismo prendono le mosse per aprire prospettive del tutto nuove.
I. Calvino, già con Il sentiero dei nidi di ragno (1947), dal cronachismo rileva l’atmosfera leggendaria e l’indulgenza al parlato, per conferire al suo r. l’andamento di un’antieroica chanson de geste, in cui l’accesso privilegiato alla dimensione fantastica del protagonista adolescente rivela e insieme esorcizza il nucleo tragico, di sesso e violenza, dell’esistenza adulta. Ma in tutto il resto della sua produzione, dove il racconto prevale quantitativamente sul r. e il r. è regolarmente un ‘iper-r.’, tale cioè solo virtualmente o illusionisticamente (Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979), l’originaria matrice realistica si svolge in un’attenzione sempre acutissima per ‘i livelli di realtà’. Fin dall’esordio (Il sarto della strada lunga, 1954), G. Bonaviri va oltre la consueta rimeditazione storiografica del destino insulare siciliano, e contamina la filosofia naturale dei presocratici o degli arabi di Sicilia con la cultura popolare. P. Levi si mostra libero dagli stereotipi della memorialistica, passando dalla tragicità dell’ispirazione originaria (Se questo è un uomo, 1947) al sofisticato divertimento di un’affabulazione sempre attenta alla realtà. B. Fenoglio (La malora, 1954; Primavera di bellezza, 1959) lavora ai margini dell’epos della Resistenza armata, per scoprire che verità storica e mito vivono la loro più piena esistenza in un controcanto spoetizzante di singolare efficacia e nobiltà letteraria. P.P. Pasolini (Ragazzi di vita, 1955) restaura con intenti polemicamente antinovecentisti il modello verista, esasperandone l’attitudine mimetica, con la cospicua componente dialettale, e rinnovandone con maggiore asprezza la provocazione.
L’avanguardia. Un’epoca nuova, dominata dai media, comincia con la concomitante diffusione planetaria dei beni di consumo, e dei libri tra questi, e con l’immediata reazione degli scrittori alla degenerazione commerciale che di conseguenza colpirebbe soprattutto i romanzi. Tale reazione si configura nei modi dell’avanguardia, già sperimentati all’inizio del secolo, cioè come oltranzismo letterario e provocatorio intellettualismo, persino dove esperienze simili sembravano inconcepibili (ma è negli USA che la beat generation, attiva soprattutto in poesia, esprime, con On the road di J. Kerouac, 1957, il diffuso disagio intellettuale come insofferenza giovanile). Se così dai Tedeschi del Gruppo 47 sortisce Die Blecht;rommel di G. Grass (1959), una feroce e monumentale critica in chiave grottesca dei difetti nazionali (ma più incisiva si rivelerà la critica di H. Böll), è dalla Francia e dall’Italia, cioè dal nouveau roman e dal Gruppo 63, che giungono i segnali più interessanti. Capofila e teorico del nouveau roman è A. Robbe-Grillet (Les gommes, 1953; La jalousie, 1957) che, applicando con metodico rigore una riduzione del racconto a un puro guardare (perciò si è parlato di école du regard), pone in atto una rappresentazione enigmatica e inquietante.
Nell’ambito della neoavanguardia italiana, non emergono significativi talenti narrativi (più saggisti che autori di r. sono A. Arbasino e G. Manganelli), ma si creano le condizioni perché venga finalmente apprezzata anche fuori della cerchia degli specialisti l’opera di C.E. Gadda e perché qualche fiancheggiatore, come L. Malerba, possa seguire fino in fondo la propria audace linea di ricerca. La prima edizione in volume degli incompiuti r. gaddiani Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) e La cognizione del dolore (1963), insieme con la traduzione ritardata (1960) dell’Ulysses di Joyce, sanciva il mutamento del clima letterario, sia evidenziando significativi esperimenti di scrittori non ancora affermati (Ferito a morte di R. La Capria, 1961), sia facendo precipitare le valutazioni di narratori di buon successo e notevoli qualità, come G. Bassani e C. Cassola. In posizione defilata, ma con esiti talora straordinariamente efficaci, operavano G. Parise (Il padrone, 1965) e P. Volponi (Memoriale, 1962), nonché soprattutto E. Morante, una scrittrice con il dono dell’affabulazione più sontuosa (Menzogna e sortilegio, 1948; L’isola di Arturo, 1957) e il tormento della verità e della poesia (La Storia, 1974; Aracoeli, 1982), che, più di qualunque altro autore, rappresenta la continuità oltre ogni moda di una autentica vocazione narrativa.
Il fenomeno del best-seller. Un po’ dovunque le crescenti ambizioni letterarie degli scrittori, mentre non producono un gettito di capolavori pari all’impegno profuso (ma vanno segnalati gli esiti di W. Gaddis, J. Purdy, T. Pynchon, J.D. Salinger, W. Styron e soprattutto S. Bellow, tutti in area statunitense), anziché nobilitare la narrativa d’intrattenimento (come riescono a fare splendidamente, con le loro finzioni inquisitorie, lo svizzero tedesco F. Dürrenmatt e l’italiano L. Sciascia, da Il giorno della civetta, 1961, a Una storia semplice, 1989), favoriscono l’emancipazione di una vera e propria categoria specializzata, quella degli autori di successo, una legione di cui fanno parte in maniera non effimera, e per lo più con una produzione tra il r. poliziesco e la storia di spionaggio (di cui fu antesignano I. Fleming), K. Follet, F. Forsyth, J. Grisham, P. Highsmith, P.D. James, W. Smith. Tra costoro, spiccano per la qualità dei risultati M. Crichton, S. King e J. Le Carré, non a caso ancora due statunitensi e un inglese. In Italia vanno ricordati i successi di C. Fruttero e F. Lucentini (La donna della domenica, 1972) e di L. De Crescenzo (Così parlò Bellavista, 1977).
Numerosi altri scrittori hanno fruito ovviamente degli stessi canali pubblicitari, conoscendo una fortuna analoga da un capo all’altro del mondo e rendendo difficile distinguere tra il divertissement di M. Vázquez Montalbán, la sofisticata ricerca di G. Perec, il carisma di M. Yourcenar, l’ispirazione popolare tradita di I. McEwan, la drammaticità filtrata dall’ironia di M. Kundera.
Il r. degli altri continenti. Anche la narrativa d’arte ha comunque fruito delle dimensioni planetarie del mercato culturale, che ha imposto all’attenzione, a ondate successive e a parte i recuperi (il più importante quello degli scrittori mitteleuropei primonovecenteschi), intere realtà geografiche precedentemente trascurate: gli scrittori sudamericani (J. Amado, A. Bioy Casáres, J. Cortázar, G. García Márquez, J. Lezama Lima, M. Puig, M. Vargas Llosa), gli africani (T. Ben Jelloun, N. Gordimer, W. Soyinka), gli israeliani (D. Grossman, A. ῾Oz, A.B. Yeroshua), gli orientali (Acheng, K. Ōe), gli scrittori angloindiani (V.S. Naipaul, S. Rushdie).
Al romanzo esotico ha opposto un’alternativa momentaneamente vincente la letteratura minimalista statunitense con quello che ne è considerato il caposcuola, R. Carver, con D. Leavitt, lo scrittore più noto, e B.E. Ellis, probabilmente il più dotato e meno limitato dall’orizzonte di intimismo realista del gruppo. Ma, all’insegna del postmoderno e della sua contaminazione di stili e di generi, e in un momento di caduta verticale di ragioni forti d’ogni genere, dalle ideologie alle teorie letterarie, si è successivamente affermata una linea unitaria che concilia la qualità letteraria con i temi di maggior presa sul pubblico.
Il prototipo di questa linea è italiano: Il nome della rosa (1980) di U. Eco, un libro in cui felicemente convivono la detection propria del poliziesco, il r. storico, l’apologo politico, il saggio teorico. Pur se non gli sono mancati epigoni, i r. di Eco non danno un’idea dell’effervescenza del quadro italiano. Qui ha giocato un ruolo decisivo la reazione all’interdetto pronunciato nei confronti della letteratura e del r. in particolare dalla cultura giovanile e da molti intellettuali intorno al Sessantotto. In breve tempo si era passati dalla Letteratura del rifiuto (come efficacemente s’intitolava un saggio del critico G.C. Ferretti, 1969) al rifiuto della letteratura. La ripresa, assicurata inizialmente dal ritorno al r. degli scrittori più sensibili alle novità sociali e politiche di quegli anni (dalla Morante a Volponi, da Moravia a Calvino) e dall’affacciarsi di vocazioni talora prepotenti (G. Bufalino, F. Camon, V. Consolo, L. Meneghello, R. Ombres, E. Tadini), si è poi dovuta adeguare alle tecniche promozionali già collaudate. E si sono perciò avuti i r. delle donne e soprattutto quelli dei ‘giovani scrittori’, etichetta quantomeno impropria per chi aveva spesso oltrepassato la quarantina e non era nemmeno esordiente. Pochi i tratti in comune in questa leva di narratori. Si può arrivare a un’originale rielaborazione della grande tradizione narrativa, partendo dalle suggestioni dello sperimentalismo (G. Montefoschi: La felicità coniugale, 1982). Ma si può anche polemizzare con la neoavanguardia continuando a considerarla un punto di non ritorno (F. Cordelli: Le forze in campo, 1979); ignorarla, mettendone a frutto la lezione di spregiudicatezza e l’idea che la scrittura venga prima dei generi letterari in cui si cala (A. Busi: Seminario sulla gioventù, 1984); superarla con un’invenzione più conseguentemente e dolorosamente estremistica (P.V. Tondelli: Altri libertini, 1980); o viceversa tentare un inedito dosaggio di comicità con un espressionismo di matrice gaddiana, che resiste soprattutto come proiezione psicologica, in personaggi stravolti ed esagitati, come nelle prime esperienze narrative di G. Celati. Se però si prescinde da questi casi, e si considerano a sé la felice vena storica di R. Loy, la fedeltà a una tradizione meridionale aggiornata sulla sensibilità sociale di F. Ramondino e il tragitto di S. Vassalli dalla più audace sperimentazione linguistica a un dispiegato gusto dell’affabulazione, si scopre la costante della presenza di Calvino. I suoi eredi possono essere rimasti sotto la suggestione della sua scrittura, salvo poi interpretarla come un’elegante scorciatoia verso la letteratura commerciale o un ponte per passare ad altri media: donde il diverso rigore, ma anche la diversa fruibilità, di un A. De Carlo (da Treno di panna, 1981, a Mare delle verità, 2006) e di un D. Del Giudice (da Lo stadio di Wimbledon, 1983, a I-TIGI Canto per Ustica, 2001). Ma hanno anche imparato da lui a cercare il sicuro riferimento del fantastico, sia che si limitino a ricavarne l’autorizzazione per un più diretto ricorso alle soluzioni comiche (S. Benni: da Bar Sport, 1976, a La grammatica di Dio, 2007), sia che lo intendano come il termine medio tra la poesia e la prosa o proprio lo strumento per innalzare il r. al livello della poesia (A. Tabucchi: da Piazza d’Italia, 1975, a Sostiene Pereira, 1994, a L’oca al passo, 2006).
A un momento ulteriore appartiene il gran numero di coloro che non hanno dovuto fare i conti né con la neoavanguardia né con Calvino, dal quale anzi prendono le distanze, talora preferendogli Pasolini o Moravia. Il centro d’irradiazione di quest’ultima ondata è infatti Roma e il capofila ne è stato M. Lodoli (da Diario di un millennio che fugge, 1986, a Sorella, 2008). Tra tanti si ricorda S. Veronesi (Per dove parte questo treno allegro, 1988; Live; 1996; Caos calmo, 2005; Brucia Troia, 2007). Diversa la provenienza culturale e geografica, ma ugualmente interessanti i risultati di A. Baricco (da Castelli di rabbia, 1991, a Questa storia, 2005) e S. Tamaro (da Va’ dove ti porta il cuore, 1994, caso editoriale degli anni 1990, a Luisito, 2008).