La direzione della messinscena di una rappresentazione teatrale, operistica, cinematografica, televisiva.
Comprende il complesso di attività rivolto all’esecuzione di un testo drammatico sul palcoscenico. Base di essa è la recitazione, ma vi concorrono molteplici altri elementi: scene, costumi, arredi, luci, meccanismi ecc. In questo senso quindi la r. intesa come arte di rappresentare, intesa cioè come messinscena, è antica quanto il teatro.
Cenni storici. Dapprima la r. fu tenuta dallo stesso poeta, che dettava e poi metteva in scena la sua opera. A qualcuno di essi si dovette persino l’invenzione di oggetti tecnici (a Eschilo, il primo al quale, secondo Aristotele, si attribuiscono la maschera e il coturno). Nell’antico teatro greco gli esecutori del dramma, coro compreso, erano scelti e istruiti volta per volta; nel teatro romano, invece, che in origine si attenne scenicamente ai caratteri propri di quello greco, vi erano delle compagnie stabili (greges). Una varietà e un fasto imponenti si ebbero durante l’ultimo secolo della Repubblica e i primi dell’Impero, quando il dramma storico, leggendario o mitico, divenne pretesto per imbastire enormi coreografie di carattere realistico, e gli attori divennero divi celebrati.
Nei teatri d’Oriente, in generale, prevalse l’attore sul regista: in particolare in Giappone l’attore era veramente il despota della scena: poiché l’arte teatrale era quasi tutta basata sulla mimica e sulla virtuosità, l’attore giapponese era insieme atleta, acrobata, mimo, tecnico. Perché non si perdesse la minima sfumatura, la r. giapponese, oltre a gettare piattaforme girevoli e ponti tra palcoscenico e platea, inventò, parecchi secoli prima del cinema, il primo piano.
In Europa, non appena col Medioevo il dramma cominciò a diffondersi, si ebbero azioni sacre con centinaia di personaggi che rappresentavano anche la storia di un popolo: ciò richiedeva una scena multipla che non rappresentasse un luogo, ma tanti luoghi deputati, offerti simultaneamente agli occhi degli spettatori, che vedevano i personaggi trascorrere da un quadro all’altro, in una serie di scene allineate in senso orizzontale o anche sovrapposte. Infine il dramma misto (in cui cioè si mescolavano latino e volgare) e il dramma in volgare non si rappresentarono più in appositi edifici, ma dall’interno della chiesa si trasferirono sul sagrato, nella canonica, nei cortili, in piazza e nei cimiteri (Inghilterra).
Nel Rinascimento, il gusto del prodigioso e della curiosità tecnica portò a forme di virtuosismo gli scenografi, i quali fornivano alla sacra rappresentazione il pretesto di coreografie spettacolari con intervento di draghi, diavoli, angeli, del Padre Eterno e con catastrofi, incendi ecc., fino a costituire con gli ‘intermezzi’ la vera attrazione dello spettacolo. La decadenza del dramma sacro e il trionfo umanistico della tragedia e della commedia classica favorirono il ritorno alla scena unitaria. Gli autori del primo Cinquecento e del tardo Rinascimento si attennero alle regole aristoteliche intorno ai limiti di tempo e di spazio, provocando quindi nella scenografia un essenziale impoverimento e una certa rigidità di forme. La monotonia della scena, insieme con la stanca ripetizione di motivi abusati, ingenerarono presto però, nella seconda metà del secolo, un rinnovato desiderio di varietà e di vivacità, che la Commedia dell’arte appagò: trionfava l’attore e la r. cambiava aspetto; i comici, sotto la direzione di un corego, concertavano i loro spettacoli prima di andare in scena; e una volta accordatisi, imbastivano liberamente le loro azioni. In Italia si adoperarono il luogo chiuso e la luce artificiale, raggiungendo effetti stupendi di illusione scenica.
Il fasto spettacolare vinse il testo e s’impose anche nel teatro lirico (17°-18° sec.). La reazione classica di Corneille e Racine, in Francia, e in Italia i testi di C. Goldoni e di V. Alfieri non valsero a ricomporre l’equilibrio: lo squilibrio continuò fin quasi alle soglie dell’Ottocento. Fu merito del Romanticismo ricondurre la scena al suo compito naturale di collaboratrice ed esaltatrice del potere suggestivo della parola; la messinscena del dramma romantico ricercava la verosimiglianza, ottenuta con una riproduzione il più possibile fedele dei molti luoghi e del tempo in cui si svolge l’azione, con l’uso animato e corale delle masse.
La r. moderna. La r. teatrale moderna data al 1870, quando il duca Giorgio di Meiningen, riprendendo il discorso di Goethe sull’esecuzione d’insieme, ispirò l’allestimento degli spettacoli ad alcuni principi fondamentali: rivelazione del testo, fedeltà storica, cura dell’insieme. L’esperienza di Meiningen fu tenuta presente da A. Antoine in Francia, dalla Freie Bühne a Berlino, da K.S. Stanislavskij in Russia. Il primo fondò a Parigi il Théâtre Libre, ispirandosi al naturalismo imperante: gli attori, al contrario dei loro predecessori romantici, recitavano con intonazioni parlate, come se il pubblico in sala non esistesse, mentre la scenografia cercava di rendere nel miglior modo la modestia e spesso lo squallore degli interni rappresentati, servendosi anche di suppellettili e oggetti di uso quotidiano. La reazione al naturalismo condusse a importanti riforme registiche, come quella di V.E. Mejerchol´d, che tolse ogni ornamento alla scena, conformandola a strutture geometriche (costruttivismo), e quella di G.E. Craig, che basandosi sull’eterogeneità del corpo dell’attore rispetto agli elementi scenici teorizzò la ‘supermarionetta’. Ritorno ai classici e un’essenziale semplicità furono i principi a cui s’ispirò J. Copeau, fondatore del Vieux-Colombier (1913) e di una scuola di regia.
In Italia, invece, nello stesso periodo, il regista non riusciva a imporre la sua funzione e il suo ruolo nei confronti del ‘grande attore’ di estrazione ottocentesca. I primi registi veri e propri della scena italiana, con l’eccezione di L. Pirandello (che ancora nel 1925 allestiva il suo teatro e rivendicava l’intera responsabilità della messinscena), del suo assistente G. Salvini e di A.G. Bragaglia, furono due russi, T. Pavlova e P. Sharoff, entrambi allievi di Stanislavskij. Il sostantivo regista fu coniato dal linguista B. Migliorini addirittura nel 1932.
Molteplici furono i tentativi, dagli anni 1920 fino alla soglie della Seconda guerra mondiale, di approfondire e sviluppare le ricerche nate dall’attività dei maggiori registi del primo Novecento. In Germania, B. Brecht propose una riforma in senso ‘epico’ del teatro, fondata su una recitazione estraniata e su una regia antiillusionistica, mentre in Francia A. Artaud sperimentava un teatro basato su ritualità dinamica e tensione psichica. Il dopoguerra fu caratterizzato, a partire dagli anni 1950, da un recupero e da una rimeditazione delle più illuminanti esperienze delle avanguardie storiche. Negli USA, il Living Theatre raccolse l’eredità di Artaud, dedicandosi a una pratica scenica collettiva basata soprattutto sul gesto e sulla figurazione coreografica. In Polonia, J. Grotowski teorizzò un ‘teatro povero’ tutto affidato alla corporeità dell’attore e alla sua ascetica espressività. In Inghilterra, P. Brook s’impose con numerosi spettacoli su testi classici e moderni, che da una parte s’ispiravano alle suggestioni di Artaud, dall’altra subivano l’influsso di Grotowski. In Svezia, I. Bergman creò spettacoli di grande rilievo per invenzione scenica e rigore espressivo. In Norvegia e Danimarca, E. Barba riuscì con l’Odin Teater a dare saggi originalissimi (Ferai) di allestimenti scenici compiuti con minimi mezzi fuori dal palcoscenico tradizionale.
Nell’Italia del dopoguerra alcuni registi, come O. Costa, E. Giannini, L. Visconti, G. Strehler, rivoluzionarono la concezione fondata sulla centralità dell’interprete, realizzando spettacoli nei quali la r. si esprimeva al massimo livello nei suoi aspetti d’interpretazione critica del testo e di concertazione dei molteplici fattori che convergevano nell’evento teatrale. A partire dagli anni 1960, si affermò la figura del regista-demiurgo, vero e proprio dittatore dello spettacolo con l’ambizione di rendere congeniale ai suoi gusti e alle sue intenzioni ideologiche qualsiasi opera teatrale (L. Ronconi nell’Orlando furioso, 1969).
Nell’ultima parte del secolo l’egemonia della r. è andata progressivamente attenuandosi di fronte al recupero d’importanza degli interpreti, in una scena più attenta che in passato al consenso del pubblico.
L’opera. Nel teatro lirico i ritmi scenici e drammaturgici sono più strettamente condizionati dallo stile musicale e dalle sue leggi. Fondatore di una tradizione registica in tale campo può dirsi A. Appia, che applicò le sue teorie soprattutto nell’ambito del dramma musicale wagneriano. In Italia una vera e propria tradizione registica è nata verso la fine degli anni 1950 da Visconti, attento ai valori storici e drammatici del libretto. Nell’alveo viscontiano si è mosso F. Zeffirelli, spesso autore anche delle scenografie e dei costumi delle sue produzioni. Una diversa concezione dell’interpretazione registica del melodramma è rappresentata da G. Strehler, essenziale nel suo gusto per l’evocazione antiquaria. A queste due scuole fanno riferimento registi di forte personalità: a quella viscontiana S. Sequi e P.L. Samaritani; a quella strehleriana V. Puecher e P. Faggioni. A parte ed equidistante appare l’opera di Ronconi, portato piuttosto a una dimensione onirica, macchinosa e immaginifica.
L’attività del regista comprende tutto quanto è necessario a dirigere, dare forma e condurre a buon fine tutte le fasi necessarie alla realizzazione di un film: dall’ideazione (nascita del soggetto, realizzazione della sceneggiatura), alle riprese (direzione degli attori, controllo della qualità della fotografia, del suono, della scenografia, dei costumi; responsabilità di posizione, angolazione, ampiezza dell’inquadratura e dei movimenti di macchina, che costituiscono l’articolazione di base del linguaggio di un film), all’edizione (montaggio, missaggio della colonna di voci, musiche e rumori, eventuali effetti speciali realizzati in postproduzione).
Nei primi tempi la r. cinematografica s’identificò con la ripresa cinematografica: l’operatore era anche il direttore di scena. Più tardi, si iniziò a ricercare l’artisticità del film nell’allestimento scenico o nella recitazione. Con l’avvento del sonoro sorsero nuovi problemi inerenti alla narrazione e all’espressione cinematografica; al regista vennero chiesti nuovi contributi tecnici e offerti nuovi mezzi. All’estetica del film muto, che tutto poteva esprimere anche senza l’ausilio di didascalie, si sostituì l’estetica del film sonoro; affiorarono possibilità di nuove applicazioni, di soluzioni di contrappunto e asincronismo.
Dalla fine degli anni 1950, la crescita delle teorie e della critica, l’emergere di una nuova generazione illustre di registi e il dibattito che si sviluppava soprattutto in Francia sulla rivista Cahiers du cinéma, diffusero e imposero la nozione di «autore», inteso non solo come il regista-scrittore delle storie che racconta, responsabile di tutto il processo di realizzazione del film contro ogni condizionamento industriale ed espressione di una sensibilità e di soggettività inconfondibili (O. Welles, J. Renoir, R. Rossellini), ma anche come colui che pur accettando committenze e soggetti di altri, pur lavorando all’interno di sistemi codificati e convenzionali (i generi), riesce a piegare tecniche, modi di produzione, narrazioni, all’espressione di uno stile individuale che, di fatto, ha il valore di un punto di vista estetico, morale, ideologico (A.J. Hitchcock, H.W. Hawks, N. Ray ecc.). Tale nozione avrà uno straordinario influsso nell’estetica, ma anche nell’evoluzione del mercato e dell’immaginario del cinema, e avrà un peso cruciale nella formazione delle tendenze del cinema mondiale tra gli anni 1960 e la fine degli anni 1970. Ancora oggi è il punto di riferimento principale per buona parte delle concezioni della r. cinematografica. Questa però, sempre più legata ad apparati tecnologici complessi (effetti speciali, realtà virtuale, montaggio elettronico), necessita di tecnci-creativi di altissima specializzazione, difficilmente sostituibili dal solo regista, per cui il tema della collaborazione diventa imprescindibile.
La r. televisiva è la somma delle attività d’ideazione e di coordinamento di uomini e di mezzi tecnico-espressivi necessarie per giungere alla definizione, in un supporto videomagnetico e cinematografico, di un programma destinato alla fruizione attraverso il piccolo schermo. Sino a quando lo sviluppo tecnologico non ha consentito la registrazione dei segnali prodotti dalla telecamera, la r. televisiva è stata caratterizzata dall’esigenza di dover ‘montare’ la comunicazione in diretta, ovvero in simultanea con la ripresa dell’avvenimento, aspetto che, data la natura di questo mezzo di comunicazione, rimane la qualità merceologica, linguistica e spettacolare più importante della televisione, come mostra l’uso che se ne fa in tutti i generi principali che essa ha ideato e consolidato: l’informazione, il varietà, le riprese di avvenimenti sportivi ecc. Da qui la necessità di utilizzare più macchine da presa (tre telecamere, generalmente) con ruoli differenti nell’ambito della stessa scena da riprendere, in modo da poter ottenere, con opportune commutazioni al banco di missaggio dello studio televisivo, la sequenza d’inquadrature desiderata.
L’incessante sviluppo tecnologico dei mezzi impiegati nella registrazione e riproduzione di immagini video, il perfezionamento delle videocamere, sempre più leggere e maneggevoli, l’accresciuta disponibilità di canali, ricezioni satellitari, immagini ad alta definizione, la continua evoluzione dei generi televisivi (che spesso si ibridano fra loro contaminando l’informazione con lo spettacolo, il varietà con tutto il resto) hanno reso la r. televisiva un esercizio sempre meno assimilabile a quello della r. cinematografica. Benché tecnologicamente e produttivamente il regista televisivo sia in grado oggi di realizzare opere assai vicine ai film tradizionalmente intesi, il soggetto responsabile del discorso messo in atto dal processo di comunicazione televisiva, dei suoi significati, dei suoi valori, della specificità del suo punto di vista, non è, come al cinema, il regista, ma chi presiede all’assemblaggio del palinsesto, il «vero» testo televisivo, fatto e smontato giorno dopo giorno.