Procedimento che, mediante processi chimico-fisici o digitali, permette di ottenere, servendosi di una macchina fotografica, l’immagine di persone, oggetti, strutture, situazioni su lastre, carte chimicamente preparate o su supporti magnetici. A seconda dei materiali impiegati e del risultato ottenuto, si distinguono la f. in bianco e nero, in cui le differenze di colore e di luminosità del soggetto ripreso sono rese con sfumature più o meno intense di grigio, e la f. a colori, in cui l’immagine è riprodotta mantenendo anche le naturali differenze esistenti fra i colori del soggetto. Sia la f. a colori sia quella in bianco e nero trovano importanti applicazioni professionali nel reportage, nel giornalismo, nei campi della moda e della pubblicità, nel campo artistico per ritratti ecc., oltre che in numerose applicazioni scientifiche (in spettrografia, nella f. con raggi X, in astronomia ecc.) e tecniche (in fotogrammetria, in fotomeccanica ecc.).
Nella realizzazione di un film, o di spettacoli televisivi, la parte (affidata al direttore della f.) che riguarda la cura delle inquadrature, l’illuminazione, gli effetti di luce e di movimento atti a dare la massima espressività alla ripresa delle singole scene.
Eliotipia, dagherrotipia e calotipia. L’invenzione della f. fu preceduta da un ventennio di intense ricerche e sperimentazioni. Le conoscenze chimiche dell’epoca applicate alla camera oscura, strumento largamente in uso tra gli artisti, portarono J.-N. Niépce, che cercava di perfezionare il metodo della litografia, a ottenere nel 1826 la prima immagine stabile, con la veduta dalla finestra della sua tenuta di Le Gras a Saint-Loup-de-Varennes: per ottenerla egli aveva spalmato una lastra di peltro con bitume di Giudea sciolto in olio di lavanda, che s’induriva nelle parti colpite dalla luce mentre restava solubile nelle zone d’ombra. Attraverso un lavaggio con una soluzione di acqua ragia e olio di lavanda che asportava la parte ancora solubile, si otteneva un’immagine positiva diretta in cui le ombre erano date dal peltro nudo e le luci dal bitume stesso. Questo metodo fu chiamato da Niépce stesso eliografia. Nel 1829 Niépce si associò con L.-J.-M. Daguerre, pittore di un certo rilievo, che aveva ottenuto un notevole successo con il diorama, sistema perfezionato del panorama, che consisteva in enormi dipinti circolari per ottenere i quali Daguerre si serviva con grande perizia della camera oscura. Morto Niépce, Daguerre ne approfondì le ricerche e nel 1837 ottenne un’immagine stabile su una lastrina d’argento sensibilizzata (cioè trattata con vapori di iodio in modo da formare uno strato superficiale di ioduro d’argento). Dopo l’esposizione, la lastrina era trattata con vapori di mercurio che si depositavano solo sulle zone colpite dalla luce, annerendole. L’invenzione fu resa nota da D.-F. Arago il 7 gennaio 1839 e prese il nome dall’inventore: fotografia dagherrotipia.
All’annuncio dell’invenzione molti reclamarono la paternità di sistemi per ottenere immagini attraverso l’azione diretta della luce. In realtà, il solo procedimento che si pose in alternativa al dagherrotipo fu il sistema inventato in Inghilterra da W.H. Fox Talbot e chiamato calotipia, che consisteva nell’esporre nella camera oscura un foglio di carta sensibilizzato (ovvero imbevuto di bromuro o ioduro di argento), per poi svilupparlo con acido gallico e fissarlo con soluzione di sale comune; il risultato era un’immagine negativa. Dopo ceratura della carta allo scopo di renderla più trasparente, la negativa veniva esposta a contatto con un altro foglio di carta sensibilizzata ottenendo così la stampa finale positiva. I termini negativo, positivo e la stessa parola f. (photography) si devono all’astronomo J. Herschel.
Un altro metodo di ottenere immagini per mezzo dell’azione diretta della luce fu messo a punto, sempre nel 1839, da H. Bayard; con questo metodo, che però non ebbe fortuna, si ottenevano immagini dirette positive su carta. Il dagherrotipo e la calotipia furono impiegati nel decennio 1840-50 per riprendere principalmente ritratti e monumenti; ciò a causa delle lunghe esposizioni necessarie malgrado i miglioramenti subito apportati a emulsioni e macchine, come l’obiettivo a grande apertura progettato sin dal 1840 da J. Petzval e prontamente commercializzato da F. Voigländer, che ridusse il tempo di posa intorno al mezzo minuto.
Grazie a questi progressi, il ritratto fotografico divenne di gran moda e gli editori iniziarono a pubblicare libri di viaggi, secondo la tradizione del Grand Tour, corredati di incisioni tratte da dagherrotipi. Nel 1841-42 N.-M. Lerebours pubblicò Excursions daguerriennes con immagini riprese dal pittore H. Vernet e da F. Goupil Fesquet e nel 1846 J.-P. Girault de Prangey pubblicò Monuments arabes d’Égypte, de Syrie e d’Asie Mineure corredato da immagini riprese durante i suoi viaggi tra il 1841 e il 1844. Il fotografo di origine tedesca F. Martens nel 1845 mise a punto una macchina in grado di riprendere dagherrotipi panoramici che misuravano 38,10×12,06 cm2.
Tuttavia, la tecnica del dagherrotipo venne ben presto abbandonata, perché l’immagine non era riproducibile. Malgrado una resa dei dettagli molto meno fine, che tuttavia alcuni artisti apprezzarono particolarmente, il calotipo si impose per la sua riproducibilità; fu lo stesso Fox Talbot a diffondere la sua opera stampando tra il 1844 e il 1846 The pencil of nature, libro con cui, oltre a offrire un vasto campionario dei possibili campi di applicazione della nuova invenzione, l’autore dimostra la superiorità del metodo negativo/positivo rispetto al dagherrotipo. Tra coloro che usarono il calotipo vanno ricordati R. Adamson e D.O. Hill, che fotografarono i partecipanti alla convenzione di Edimburgo per la fondazione della Chiesa libera di Scozia nel 1843, e ritrassero anche la vita e i volti degli umili pescatori di New Haven. In Italia va segnalato L. Tumminello, fotografo romano, di cui il Gabinetto fotografico nazionale possiede alcune centinaia di negativi. In Francia la calotipia si affermò con relativo ritardo ma, grazie ai miglioramenti tecnici apportati da G. Le Gray e da L.-D. Blanquart-Evrard nel 1851, divenne ben presto la tecnica preferita dai viaggiatori, tra cui il letterato M. Du Camp, autore con G. Flaubert di Egypte, Nubie, Palestine et Syrie. Notevoli sono anche i calotipi di C. Marville e H. Le Secq, nonché la cospicua produzione di C. Nègre, tutti pittori convertiti al nuovo mezzo.
Collodio e gelatina. Nel 1848 A. Niépce de Saint Victor aveva inventato il processo all’albumina, che consentiva una resa dei dettagli finissima ma era poco sensibile, così che il metodo restò in uso per poco tempo non addicendosi al ritratto. Nel 1851 l’inglese F.S. Archer con l’invenzione del metodo al collodio umido dette il primo grande impulso alla diffusione della f.; malgrado le difficoltà nella manipolazione del materiale, questo metodo aveva tali vantaggi in fatto di sensibilità e definizione che soppiantò tutti gli altri e rimase in uso per lungo tempo, anche dopo l’introduzione della gelatina secca. Tra i numerosi fotografi significativi di questo periodo si segnalarono: per le immagini di guerra, R. Fenton (1855, guerra di Crimea), A.F. Beato (1860, guerra dell’oppio in Cina), M.B. Brady, A. Gardner e T. O’Sullivan (1863, guerra di secessione americana); per i viaggi e le esplorazioni, D. Charnay (1857, civiltà Maya nello Yucatan), F. Frith (1856-60, Medio Oriente), L. e A. Bisson (1860, le Alpi), P. Egerton (1864, Tibet), S. Bourne (1868, Tibet e India).
Grande importanza ebbe anche la ritrattistica, soprattutto dopo l’introduzione delle cartes-de-visite con il metodo di A. Disderi, che consentiva di ottenere otto ritratti su un’unica lastra. Ne derivò una vera e propria mania che portò all’apertura di studi specializzati in cartes-de-visite in tutto il mondo. La personalità più rilevante in questo periodo fu senza dubbio Nadar, fotografo parigino, pioniere in vari campi della f.: a lui si devono le prime foto in Europa prese da un pallone aerostatico e le prime esperienze con la luce elettrica nelle fogne di Parigi. Nadar ha lasciato inoltre una interminabile galleria di ritratti di celebrità della sua epoca ripresa con sottile penetrazione psicologica. Altra grande ritrattista fu l’inglese J.M. Cameron, che si dedicò alla f. in età già avanzata, e che reagì alla piattezza del ritratto corrente con immagini di grande efficacia e originalità. Sempre nello stesso periodo si sviluppò anche la f. a carattere sociale come Street life in London di J. Thomson (1877) e un movimento, il cosiddetto pittorialismo, che pensò di servirsi della f. come mezzo di espressione analogo alla pittura. Capiscuola di questo movimento, che tanta fortuna ebbe soprattutto in Inghilterra, furono O.G. Rejlander e H.P. Robinson le cui opere, rispettivamente Two paths of life (1857) e Fading away (1858), frutto di elaborati collages di fotografie, furono considerati capolavori.
Nel 1871 R. Maddox pubblicò il processo negativo alla gelatina-bromuro d’argento, più sensibile e pratica da usare. Questa tecnica aprì le porte all’industrializzazione della f. e, come naturale conseguenza, alla sua diffusione capillare che vide nascere il fenomeno del dilettantismo di massa.
La f. per tutti. Nel 1888 G. Eastman mise in commercio, su suo brevetto, la prima macchina fotografica con pellicola in nitrato di cellulosa su rullo, con lo slogan «Voi premete il bottone, noi faremo il resto». Negli anni 1883-85, grazie anche ai miglioramenti ottico-meccanici delle macchine, E. Muybridge utilizzò le lastre a secco per portare a termine un’indagine approfondita sul movimento umano e animale, che pubblicò nel 1887 con il titolo Animal locomotion. Sul tema del movimento lavorarono anche E.J. Marey, T. Eakins e O. Anschutz. Nello stesso periodo fiorirono le associazioni dilettantistiche (nella sola Inghilterra ne sorsero ben 256) nelle quali si seguivano in maniera pedissequa i dettami del pittorialismo di H.P. Robinson allora all’apice della fama. Contro questa concezione della f. P.H. Emerson pubblicò Naturalistic photography (1889), con l’intento di riportare la f. alla natura come sola ispirazione. Molti furono i seguaci di questa posizione e nel 1892 diedero origine al movimento secessionistico The linked ring brotherhood.
Sul loro esempio si formarono numerosi altri movimenti secessionisti in tutto il mondo, il più importante dei quali fu Photo secession fondato a New York nel 1902 da A. Steiglitz. Grazie alle nuove tecniche di stampa adottate (processo al bromolio, uso del carbone, della gomma ecc.), i fotografi potevano intervenire sulla stampa manualmente, fino a trasformarla in una sorta di disegno. Tra i nomi più significativi vanno ricordati: in Francia R. Demachy e C. Puyo; in Austria H. Kuhn; in Germania R. Duhrkoop e H. Erfurth; in Belgio L. Misonne; in Spagna J.O. Echague; in Gran Bretagna A. Keighley; in Italia Bonaventura e L. Pachò. Ma a fianco di questi lavorarono anche un buon numero di fotografi (cosiddetti puristi) che si affidavano solo a viraggi o stampe al platino per migliorare gli effetti senza alterare lo spirito della f.; tra loro erano gli inglesi F.H. Evans e F.M. Sutcliff, gli americani A.L. Coburn e G. Käsebier e altri. Grande importanza ebbero anche alcuni dilettanti che con la loro opera appassionata ci hanno lasciato un fedele ritratto della loro epoca; in Italia il più noto è il conte G. Primoli.
F. e avanguardia. Agli inizi del Novecento, un ruolo rilevante nell’ambito dei movimenti artistici di avanguardia è occupato dalla f., come nel futurismo con le ricerche fotodinamiche di A.G. Bragaglia. Nel 1904 i fratelli Lumière misero a punto il primo processo a colori accessibile al grande pubblico, l’ autochrome, e nel 1914 O. Barnack costruì la prima Leica (a causa della guerra sarà commercializzata alcuni anni dopo), che utilizzava la pellicola perforata 35 mm usata nel cinema. Intanto a New York A. Stieglitz, in collaborazione con E. Steichen, dirigeva la rivista Camera work, in cui comparivano scritti sia di fotografi sia di pittori d’avanguardia e nella quale, a fianco di un sostegno alla f. purista o ‘diretta’, si trovavano ancora echi del movimento Pictorialism.
Tra i fotografi che operarono una rottura definitiva con il Pictorialism va ricordato P. Strand che nel 1915-16 pubblicò immagini di soggetti comuni, come staccionate o stoviglie, nella cui forma individuava significativi contenuti estetici. Negli stessi anni A.L. Coburn riprende le vortografie, prime vere esperienze astratte in fotografia. A Parigi intanto E. Atget, schivo e riservato, portò avanti un’opera monumentale di riprese della vita e degli aspetti quotidiani della Parigi minore, senza gli intenti di denuncia sociale che già all’inizio del secolo avevano caratterizzato l’opera a New York di L. Hine e J. Rijs. Il dadaismo utilizzò la f. affrancandola dalle costrizioni della tecnica con Man Ray e le sue rayografie.
Nel Bauhaus, sin dal 1923 il fotografo ungherese L. Moholy-Nagy iniziò un corso di f. cercando di coniugare tutte le tecniche, dal collage alle microfotografie, per ottenere una fusione di tutte le arti figurative attraverso la f., che riassunse nel libro Malerei, fotografie, film del 1925. Quasi all’opposto A. Renger-Patzsch negli stessi anni riprese i propri soggetti isolandoli dal contesto e cercando di evidenziarne l’intima struttura con il massimo realismo possibile, dando origine al movimento della Neue Sachlichkeit. Le sue esperienze, raccolte nel libro Die Welt ist schön (1928), avranno un certo numero di seguaci tra cui A. Sander. Il nuovo realismo trovò seguaci anche in America, dove intorno ai pittori muralisti D. Rivera, D.A. Siqueiros e J.C. Orozco si raccolsero P. Strand, E. Weston e l’italiana Tina Modotti. Tra i loro più diretti discendenti vanno annoverati il paesaggista A. Adams e I. Cunningham. Durante la depressione americana questi fotografi insieme ad altri di eguale valore, come il pittore Ben Shan, W. Evans e A. Rothstein, parteciparono alla esperienza della Farm security administration, eseguendo un rilevamento fotografico a tappeto sulle condizioni umane e naturali delle regioni colpite dalla depressione per conto del Congresso degli Stati Uniti. In quegli anni fu introdotta la pellicola a colori Kodachrome che rese definitivamente il colore alla portata di tutti.
Il reportage. Una figura originale ed emblematica del momento è quella dell’ungherese A. Kertész, che passò attraverso esperienze europee per approdare a quelle americane di applicazione della f., quello del giornale illustrato di cui Life resta il modello più noto. Su questi settimanali la f. tentò di sostituire lo scritto imponendosi in forza di una immediatezza e credibilità che solo l’immagine fotografica sembra possedere. Nacquero così, preceduti dalla figura di E. Salomon (‘il re degli indiscreti’), i fotoreporter come R. Capa, A. Feininger, M. Bourke-White, H. Cartier-Bresson, B. Brandt e A. Eisenstaedt, che cercarono di sintetizzare in una foto una situazione, e i ritrattisti come P. Halsman e Y. Karsh. L’esperienza della Seconda guerra mondiale esalterà la funzione e l’opera di questi fotografi creando intorno a loro un alone pressoché leggendario, accresciuto spesso dalla tragica scomparsa dei protagonisti (R. Capa morì in Indocina, W. Bishop nelle Ande, C. Symour nel Medio Oriente).
Alla fine della guerra la reazione al realismo si concretizzò nel movimento tedesco Fotoform, nel quale una esasperata ricerca di forme astratte presenti in natura sfiora un virtuosismo formalistico fine a sé stesso. Contemporaneamente si svilupparono nuovi campi di applicazione della f., in particolare il mondo della moda e la pubblicità. Alcuni nomi risaltano, tra tutti: R. Avedon e il giapponese Hiro. Il reportage si volge al racconto e all’esotico con i lavori di G. Rodger, B. Brake e L. Riefenstahl, spesso indulgendo a un gusto stucchevole, con un occhio volto a catturare facili emozioni. Anche in Italia nel dopoguerra si sviluppò una generazione di ottimi fotografi, da F. Patellani a M. De Biasi, da E. Sellerio a G. Lotti e G. Berengo-Gardin, per citare solo alcuni, che si inserirono con pari grado di qualità nel circuito internazionale, portando spesso un contributo di originalità e di spessore culturale di rilevanza assoluta.
Negli anni 1950-1980 la f. compì progressi portentosi nel campo degli obiettivi, dai fish-eyes ai teleobiettivi più potenti, e delle emulsioni sia negative sia positive in bianco e nero e a colori, aprendo nuovi orizzonti formali alle immagini fotografiche. In quel periodo il fotografo operò, principalmente, come testimone delle vicende umane. Il fotogiornalista produceva documenti, svelava realtà solo immaginate, come nel caso dell’Estremo Oriente fotografato da M. Riboud o da H. Cartier-Bresson. Guerre e miseria erano i territori su cui si mosse la testimonianza di P.J. Griffith in Vietnam, di R. Cagnoni in Cambogia, Pakistan e Africa, di D. McCullin in Vietnam. Il maggio parigino, la rivolta studentesca contro la guerra in Vietnam, la fine della primavera di Praga resteranno avvenimenti legati alle immagini di G. Caron, di Riboud, di J. Koudelka. Analogamente, se l’apartheid nella Repubblica Sudafricana ha acquistato concretezza attraverso il distillato per immagini di P. Magubane, le crisi mediorientale e nordirlandese sono state rivelate dai lavori di G. Peress, la rivoluzione iraniana e la diffusione dell’Islam hanno acquistato maggiore visibilità nella ricerca di Abbas, il crollo del muro di Berlino resta indissolubilmente legato alle foto di R. Depardon e la rivolta sandinista in Nicaragua alle immagini di S. Meiselas. Mezzo per la diffusione di questi frammenti di memoria collettiva sono stati i grandi periodici: primo fra tutti Life e poi Look e Holiday negli Stati Uniti, Picture post, Paris-Match, Der Spiegel, Epoca e Tempo illustrato in Europa, anche se, con la diffusione del saggio fotografico, hanno acquistato sempre maggiore autonomia le agenzie, soprattutto la prestigiosa Magnum (fondata nel 1947) e la statunitense Black Star (fondata nel 1935).
La fine del 20° secolo. Negli ultimi decenni del 20° sec., la f. ha assistito a una sempre più marcata specializzazione nei generi della pubblicità, della moda, dell’architettura, del paesaggio geografico, aprendo così nuovi mercati alternativi a quello dell’informazione, rimasta condizionata dalla simultaneità della veicolazione e dalla diretta penetrazione casalinga del medium televisivo. In questi settori sono emersi autori come R. Avedon, C. Beaton, S. Moon, B. Morgan, H. Newton, D. Bailey, O. Toscani. Il reportage classico ha trovato dei continuatori nei lavori di S. Salgado, in cui la dimensione epica lascia a tratti spazio a una visione paternalistica, o nei lavori di giovani fotografi dove è più frequente la ricerca della singola foto che non il gusto del racconto per immagini. Nel campo della f. artistica, si è assistito al proliferare di generi e tendenze aventi come tratto distintivo prevalente un processo di ‘concettualizzazione’ della fotografia. Devono essere ricordate in tal senso le ricerche sul paesaggio inteso come spazio artistico, di cui sono esempio i lavori sul colore di F. Fontana e del giapponese H. Hamaya, l’analisi distaccata della scena americana proposta da W. Eggleston, J. Meyerowitz, S. Shore, gli spazi metafisici creati da R. Misrach. L’attenzione stessa per l’oggetto fotografato si è trasformata, sempre più consciamente, in riflessione sulla forma attribuita all’oggetto stesso, prima dal fotografo e poi dallo spettatore-lettore. La f. si è dimostrata sempre più incline ad accreditare soggetti volti a rafforzare la dimensione espressiva dell’autore; così avviene per le sequenze, spesso accompagnate da un testo, di D. Michals, per le composizioni neoclassicheggianti di R. Mapplethorpe, per i set di ispirazione surrealista di S. Skoglund, per le realizzazioni grottesche di C. Sherman o per le immagini di W. Wegman che hanno come unico protagonista il cane dell’autore. Nel fotoreportage, in maniera analoga, si è assistito all’affermazione, sempre più vistosa, di una tendenza degli autori a prediligere l’immagine d’effetto, in cui persino l’‘orrore’, come nei lavori di J. Nachtwey, diviene sopportabile in quanto mediato. Peraltro la f., rivalutata dalle avanguardie storiche e acquisita come medium artistico a tutti gli effetti a partire dagli anni 1960, con i lavori di R. Rauschenberg e A. Warhol, è diventata per molti artisti uno strumento che, esponendo in modo radicale la propria natura ‘di confine’, permette di investigare sui meccanismi della creazione artistica, come accade nelle opere dello statunitense J. Baldessari. Entro tale orizzonte, se le scomposizioni operate da C. Close e i ‘mosaici’ di polaroid realizzati da D. Hockney hanno permesso di far riferimento alla f. non più solo come indice della realtà ma anche come chiara allusione alla potenzialità della percezione artistica, le immagini che hanno per soggetto installazioni, performance e happening prodot;ti da Christo, Y. Klein, C. Boltansky o da esponenti della body art, della land art (➔) e di altre espressioni della cosiddetta arte concettuale, connotano la f. come unica traccia superstite a memoria dell’operato dell’artista.
La ricerca sulla f. digitale, in cui la pellicola viene sostituita da un supporto magnetico, ha fatto sì che il mezzo che prima trovava sostanza nel supporto fotografico, su carta o pellicola, sembra non possedere più un originale di riferimento e anzi può essere duplicato all’infinito senza alcuna perdita di qualità. Tuttavia, anche se in alcuni campi di applicazione, come per es., nella f. d’attualità, le immagini prodotte digitalmente hanno conquistato un ampio spazio, la maggior parte dei professionisti ha continuato a lungo a preferire strumenti di produzione tradizionali, limitando l’utilizzo delle tecniche digitali al processo di manipolazione e trasformazione delle immagini realizzate.
Istituzioni. Con il raggiungimento della piena maturità quale mezzo di comunicazione specifico dell’‘epoca della riproducibilità tecnica’, alla f. sono stati dedicati sezioni e dipartimenti in prestigiosi musei come il Metropolitan museum of art o il Museum of modern art a New York, il Victoria and Albert Museum a Londra, il Cabinet des estampes della Bibliothèque nationale a Parigi, il Museum Ludwig a Colonia. Contemporaneamente, è andata crescendo la fama di cui godono istituzioni nate per dare spazio allo studio storico della f. e all’attività dei fotografi. Basti pensare alle attività promosse da organismi come la Royal photographic society (1853) di Bath e il National museum of photography, film and television a Bradford (1983) in Gran Bretagna, la Société française de photographie (1854), il Centre national de la photographie (1982) e la Maison européenne de la photographie (1996) a Parigi, l’International museum of photography (1949) situato nella George Eastman House di Rochester e l’International center of photography (1974) a New York, il Center for creative photography di Tucson (1975) e, in Italia, la Fondazione italiana per la f. (1992) che, a Torino, organizza e cura la Biennale internazionale di fotografia. All’enorme interesse manifestato dai musei hanno poi fatto riscontro l’attenzione delle gallerie, la crescente domanda dei collezionisti e il conseguente aumento delle quotazioni delle f. d’autore che hanno registrato un incremento prossimo al 700% nel periodo 1975-2000.
Restauro e conservazione delle f. Negli ultimi trent’anni del 20° sec., coerentemente con la radicale trasformazione intervenuta nella considerazione del patrimonio fotografico, hanno acquisito maggiore importanza i saperi e le tecniche relativi al restauro e alla conservazione delle immagini fotografiche. Alla prima grande esperienza nel campo del restauro fotografico, iniziata negli anni 1970 negli Stati Uniti presso l’International museum of photography and film al George Eastman house di Rochester, continuatore dell’attività di istituzioni europee come la Société française de photographie o la Royal photographic society, ha fatto seguito la creazione di numerosi centri istituzionali, sempre e comunque legati a raccolte pubbliche, dove il restauro dei beni fotografici si innestava nel più ampio servizio destinato alla conservazione delle opere d’arte. L’attività di organismi pubblici come il già citato George Eastman house o il Chicago art institute, negli Stati Uniti, il Victoria and Albert museum di Londra e l’Atelier de restauration et conservation des photographies de la Ville de Paris, in Europa, si è andata sempre più frequentemente coniugando con la ricerca di laboratori di aziende private. Da tale cooperazione sono derivate iniziative di ricerca per lo studio dei materiali fotografici e si sono definitivamente affermati gli standard metodologici per il restauro e la conservazione delle f. considerate alla stessa stregua di altri beni artistici.
Anche in Italia, pur con qualche ritardo, la disciplina del restauro e della conservazione della f. ha acquistato importanza grazie alle attività promosse da enti pubblici quali l’Istituto Nazionale per la Grafica (ING), il Museo e Archivio della f. storica gestito nell’ambito dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), e all’iniziativa, rivolta soprattutto al campo della didattica, di associazioni e centri privati.
F. su pellicola. Per la f. in bianco e nero, il materiale sensibile, introdotto nell’apparecchio, è costituito da un supporto trasparente in plastica flessibile, sul quale è distesa l’emulsione a base di sali d’argento, sensibili alla luce e sospesi in una gelatina trasparente. I raggi luminosi provenienti dal soggetto producono, durante l’esposizione alla luce ( impressione), una trasformazione dei sali, con formazione di piccoli nuclei di argento metallico in seno ai granuli di alogenuro dell’emulsione. L’alogeno che si libera reagisce immediatamente con la gelatina dell’emulsione, impedendo la ricostituzione del sale d’argento e dando luogo alla formazione della cosiddetta immagine latente, invisibile (fig. 1). La luce agisce sui granuli di alogenuro d’argento, presenti nell’emulsione, in misura proporzionale all’illuminamento del soggetto nei vari punti di quest’ultimo. Il successivo trattamento di sviluppo fa sì che l’argento primario invisibile dell’immagine latente, in presenza di opportuni riducenti, contenuti nel rivelatore, agisca come catalizzatore, scindendo ulteriormente le molecole di alogenuro e provocando la deposizione dell’argento nero visibile. Il trattamento di fissaggio, infine, stabilizza l’immagine, cioè la rende ormai inalterabile alla luce e quindi durevole. L’immagine così ottenuta è negativa, cioè in essa appaiono zone scure, più o meno opache, in corrispondenza di quelle che nel soggetto sono zone più o meno chiare, luminose e viceversa. Dal negativo si ricava l’immagine positiva, cioè identica al soggetto, impressionando con la luce, attraverso il negativo stesso, carta sensibile recante un’emulsione analoga (processo positivo). Ciò può essere fatto ponendo il negativo a contatto della carta ( stampa a contatto), oppure negli ingranditori con l’interposizione di un obiettivo ( stampa a ingrandimento). La carta fotografica viene sottoposta agli stessi trattamenti di sviluppo e di fissaggio, che rendono definitiva e inalterabile l’immagine.
La pellicola a colori è schematicamente formata da un supporto trasparente sul quale sono depositati tre strati sovrapposti di emulsione, opportunamente sensibilizzati in modo da risultare impressionati solo in corrispondenza di determinate lunghezze d’onda della luce (rispettivamente corrispondenti ai tre colori primari: blu, verde e rosso). Durante l’esposizione le componenti cromatiche della luce impressionano in successione i relativi strati di emulsione, dando luogo alla formazione di tre immagini latenti del soggetto, sovrapposte tra loro, ciascuna complementare del relativo colore primario presentato dal soggetto ripreso, nelle diverse zone in cui può essere cromaticamente diviso. Durante il successivo trattamento di sviluppo, i grani di argento che formano i tre strati dell’immagine vengono dissolti e sostituiti da tinture appropriatamente colorate (copulanti), generalmente contenute nell’emulsione stessa in strati multipli alternati a quelli dell’emulsione; in alcuni processi, per es. in quello kodachrome, i copulanti sono invece introdotti durante le fasi dei trattamenti di laboratorio. Le pellicole negative forniscono con lo sviluppo immagini cromaticamente invertite, cioè presentano colori complementari a quelli del soggetto (giallo per il blu, magenta per il verde, ciano per il rosso); da esse, si ricavano per stampa le copie positive su carta. Nella fase di stampa si può far uso di filtri compensatori, per correggere eventuali difetti di colorazione come, per es., la cosiddetta dominan;te di colore, per cui un colore appare preponderante in tutte le zone dell’immagine.
F. digitale. A partire dalla presentazione sul mercato del primo apparecchio digitale (1981), la tradizionale f. su pellicola è stata sempre più diffusamente soppiantata dalla f. digitale. Sintomo ne è la scelta della società americana Kodak di interrompere (2004) la produzione di macchine fotografiche basate su rullini 35 mm fino a dismettere gradatamente la produzione di alcune pellicole fotochimiche che facevano parte della storia della f., a beneficio di prodotti basati sul digitale. Un’analoga riconversione commerciale sta coinvolgendo tutte le principali case produttrici di materiale fotografico. La f. digitale si basa sulla sostituzione della tradizionale pellicola con particolari fotosensori che codificano in informazioni binarie tutte le informazioni luminose che giungono loro attraverso obiettivi più o meno tradizionali. Lo scatto equivale alla memorizzazione dei parametri pertinenti nell’unità di tempo selezionata e alla loro traduzione in documenti informatici, file, di tipi diversi a seconda della loro qualità e del loro livello di compressione. A questi documenti corrispondono delle immagini virtuali, ma completamente sviluppate e pronte all’uso. Sempre più di frequente il convergere delle tecnologie di miniaturizzazione rende possibile registrare con la propria macchina fotografica digitale documenti multimediali, ovvero filmati sonorizzati la cui dimensione su schermo, lunghezza e nitidezza dipendono dalle capacità di memoria della macchina. Le memorie digitali innestate su normali fotocamere in sostituzione della tradizionale pellicola raccolgono i file in speciali memorie compatte (per es., compact flash, memory stick, secure digital, xD) e il dialogo tra macchina fotografica e stampante può avvenire direttamente tramite queste memorie rimovibili, senza l’ausilio dell’interfaccia di un computer. La maggior parte delle macchine sono equipaggiate con schermi a cristalli liquidi, LCD (liquid crystals display), mediante i quali è possibile verificare l’esatta inquadratura oltre a numerose altre informazioni e valori di esposizione relativi all’immagine che si sta per memorizzare. Ciò rende possibile, inoltre, constatare immediatamente il risultato dello scatto, eliminando le immagini che non interessano o mal riuscite. A livello professionale è comunque prassi controllare direttamente sul più ampio e definito schermo del computer il risultato fotografico, verificando nei particolari più minuti la compiutezza dell’immagine. La mediazione del personal computer è essenziale qualora si voglia intervenire sull’immagine allo scopo di ritoccarne particolari di composizione, di contrasto, di dominante cromatica e così via (il primo programma commerciale di fotoritocco professionale, Adobe photoshop, risale al 1989). Il trattamento digitalizzato si realizza mediante numerosi tipi di software che non sono solo in grado di alterare l’immagine digitale modificandola in modo analogo a quel che si otterrebbe in una camera oscura, ma permettono e semplificano l’accesso ad alterazioni, fotomontaggi e modifiche di tipo strutturale dell’immagine un tempo possibili solamente in sede di fotocomposizione. Il computer è inoltre essenziale nella trasmissione in tempo reale delle immagini appena scattate verso i referenti professionali del fotografo, come le redazioni dei giornali.
Il taglio dei costi e dei tempi di raccolta, trasporto, sviluppo e stampa dei rullini fotochimici ha contribuito alla radicale modifica di molte abitudini sia professionali sia private. La miniaturizzazione e la rapida standardizzazione delle tecnologie ha consentito lo sviluppo di stampanti a colori a getto d’inchiostro, a sublimazione e a tecnologia laser di crescente dominio pubblico. Risultati di qualità professionale e di diversa durata si ottengono con le stampanti digitali dirette che traducono i valori visivi di negativi scansionati oppure di file, in tre fasci di luce laser, i quali impressionano direttamente la carta fotografica. Queste stampe esattissime e a tono continuo (ossia senza una propria grana) non introducono però migliorie nella durevolezza della stampa a colori, notoriamente sensibile alla luce e al passare del tempo. Risultati più stabili assicurano le stampanti inkjet a tamburo IRIS (intense resolution imaging system), che realizzano raffinatissime stampe in quadricromia a tono continuo grazie alla dimensione micronica delle gocce d’inchiostro.
F. aerea. Indica genericamente un’immagine fotografica del terreno ripresa da bordo di aeromobili e, con significato specifico, la speciale tecnica di ripresa di tali immagini (➔ aerofotografia); si parla anche di f. spaziale quando le immagini sono riprese da bordo di un veicolo spaziale (ed eventualmente trasmesse a terra mediante apparati di fototelegrafia o televisivi).
F. archeologica. Nel corso del 19° sec. la f. cominciò a essere utilizzata per documentare i monumenti incontrati dai viaggiatori nel bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente, allo scopo di realizzare un repertorio di vedute di siti e di edifici senza un intento scientifico. Successivamente, anche grazie allo sviluppo della tecnica fotografica, le missioni archeologiche utilizzarono largamente questo mezzo, non solo come strumento per la documentazione, ma anche per la tutela delle opere d’arte. Dal momento che spesso l’analisi dei reperti archeologici avviene non direttamente sull’oggetto, ma tramite la riproduzione fotografica di esso, occorre che la documentazione dia il maggior numero di informazioni, evitando errori e deformazioni che possano trarre in inganno lo studioso. Ogni parte dell’oggetto deve ricevere la stessa quantità di luce; occorre evitare elementi di disturbo nella scelta del fondale; occorre inoltre predisporre adeguati riferimenti metrici, per ottenere un’esatta riproduzione in scala. L’esecuzione di una f. archeologica comporta, pertanto, la sintesi della conoscenza dei meccanismi che presiedono alla realizzazione dell’immagine e delle richieste dell’archeologo in merito alla documentazione da utilizzare per le proprie ricerche.
F. astronomica. I tentativi di fotografare gli astri risalgono, per suggerimento di D.-F. Arago, allo stesso Daguerre; successivamente, nel 1849, all’Osservatorio Harvard di Cambridge (USA) G.P. Bond e J.A. Whipple ottennero un dagherrotipo della Luna in cui apparivano nitidamente molti particolari della sua superficie. Il successivo 17 luglio 1850 gli stessi ottennero la prima f. di una stella, Vega, con posa di 100 secondi. Tuttavia, lo sviluppo deciso della f. astronomica si ebbe solo con l’invenzione delle lastre secche (1871) e con la costruzione di obiettivi anastigmatici (1884). I successivi progressi sono stati giganteschi, tanto che la f. già da molti anni ha completamente soppiantato l’osservazione visuale degli oggetti celesti, sia per il potere integratore delle immagini che la lastra fotografica presenta rispetto all’occhio, sia per la possibilità di raccogliere, in tempo relativamente breve, documenti celesti che possono essere studiati con comodo e conservati pressoché indefinitamente.
L’astrofisica deve senza dubbio il suo grande sviluppo, se non la sua origine, alla f., che ha permesso di spingere l’esplorazione dell’universo cosmico fino alla distanza di qualche miliardo di anni-luce. Inoltre l’emulsione fotografica, presentando una sensibilità cromatica diversa dall’occhio umano, ha permesso di scoprire oggetti celesti emananti radiazioni altrimenti invisibili, sia nella zona spettrale del violetto e dell’ultravioletto, sia in quella dell’infrarosso, con l’impiego delle speciali lastre per l’infrarosso (W. Baade, 1946). Queste tecniche permettono di registrare le immagini di oggetti lontanissimi che, altrimenti, sarebbero rimasti oscurati dalla materia assorbente diffusa in tutto lo spazio tra le stelle. Notevoli progressi nella f. celeste sono stati successivamente ottenuti da una parte grazie al perfezionamento dei telescopi (con l’impiego dei telescopi Schmidt a vastissimo campo perfettamente corretto) e dall’altra grazie al miglioramento tecnico delle emulsioni fotografiche, di grande sensibilità alla luce (per evitare pose eccessivamente lunghe) e insieme con granuli molto piccoli (la diminuzione delle dimensioni dei granuli rende l’immagine più minuta e presenta quindi gli stessi vantaggi di un incremento delle dimensioni del telescopio).
Notevoli successi sono stati conseguiti dalle riprese fotografiche effettuate nello spazio extra-terrestre, con apparecchiature installate a bordo di veicoli spaziali. Oggi, tuttavia, le lastre fotografiche tendono a essere sostituite, nelle osservazioni astronomiche, dai rivelatori a semiconduttore CCD.
F. subacquea. Tecnica di ripresa di immagini fotografiche eseguite in immersione, utilizzando speciali attrezzature a perfetta tenuta stagna e dotate di accessori particolari come, per es., mirini dedicati che consentono la visione attraverso la maschera, filtri per correzioni cromatiche ecc. L’inizio della f. subacquea si fa risalire al 1856 (W. Thompson), ma è solo all’inizio del 20° sec. che si ottennero risultati soddisfacenti, connessi all’aumentata sensibilità delle emulsioni utilizzate per consentire la ripresa anche nelle scarse condizioni di visibilità sottomarina.
F. nello spettro delle radiazioni invisibili. La sensibilità dell’emulsione fotografica è generalmente diversa da quella dell’occhio umano, nel senso che radiazioni elettromagnetiche di determinata lunghezza d’onda, che sono invisibili all’occhio, sono pur tuttavia fotografabili: ciò è possibile usando adatte emulsioni fotografiche e, talora, determinati accorgimenti tecnici (per es., effettuando la ripresa fotografica mediante opportuni filtri di luce). Le applicazioni più notevoli della f. nello spettro invisibile sono: a) la roentgenfotografia, mediante la quale si ottengono f. a raggi X (radiografie); b) la f. nell’ultravioletto, largamente usata, per es., nella tecnica del restauro e dalla polizia scientifica (f. a luce di Wood) per scoprire falsi o impronte o segni sugli oggetti; c) la f. nell’infrarosso, per fotografare nella nebbia o nell’oscurità (per es., nella f. aerea per scopi militari).
Gli apparecchi impiegati per effettuare la ripresa di f., derivati dalla camera oscura (➔ camera), ne rappresentano una naturale, sofisticata, evoluzione tecnologica. Generalmente portatili, con forma, dimensioni, struttura e caratteristiche tecniche diverse a seconda dell’uso cui sono destinate (f. professionale, amatoriale, da studio, subacquea ecc.), le macchine fotografiche sono dotate di numerosi dispositivi e accessori, atti da un lato a renderne pratico l’impiego, dall’altro ad assicurare la buona qualità delle immagini fotografate, anche in difficili o particolari condizioni di ripresa.
Cenni storici. L’apparecchio usato da J.-N. Niépce per i suoi esperimenti era una camera oscura in legno costituita da due scatole (cassette) scorrevoli l’una dentro l’altra, per consentire la focalizzazione dell’immagine sulla lastra, posizionata posteriormente in un telaio estraibile: il sistema ottico era formato con lenti biconvesse posizionate sulla faccia anteriore, mentre fungeva da otturatore (per tempi di posa da 6 a 8 ore) un tappo metallico esterno di copertura dell’obiettivo, da posizionare manualmente.
Alcune significative tappe dell’evoluzione della macchina fotografica datano alla metà del 19° sec.; tra queste, va ricordata la realizzazione di un obiettivo per ritratti con apertura 3,6 ideato nel 1840 da J. Petzval (contro il valore 17 dell’apparecchio di L.-J.-M. Daguerre). Dopo la commercializzazione della pellicola in rullo in luogo della lastra fotografica, per merito di G. Eastman (1885), furono prodotti modelli di apparecchi più semplici e maneggevoli, alla portata di tutti, a partire dalla Kodak n. 1 di Eastman (1888). Altro significativo progresso derivò dalla creazione dei vetri di Jena, i quali consentirono la costruzione di obiettivi anastigmatici corretti e di grande apertura: nel 1886 P. Rudolph ideò per la Zeiss l’obiettivo Protare, nel 1902, l’obiettivo Tessar; del 1924 è la realizzazione dell’obiettivo ultraluminoso Ernostar, con apertura 2, di L. Bertele. L’otturatore meccanico a tendina, che per lungo tempo aveva costituito un elemento separato, staccato dall’apparecchio e da fissarsi davanti all’obiettivo, fu a metà degli anni 1890 trasferito sul piano focale; il primo otturatore a lamelle è del 1891 (Baush e Lomb); nel 1912 fu realizzato l’otturatore centrale Compur.
Anche se nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale le fotocamere più diffuse furono le macchine pieghevoli (‘a soffietto’) con pellicola in rullo, negli anni 1920 il perfezionamento delle ottiche consentì il diffondersi di macchine più maneggevoli, di piccolo formato, per pellicola cinematografica in caricatore da 35 mm: nel 1924 uscì la prima serie della Leica (modello A), ideata nel 1914 da O. Barnack per la Leitz, che in seguito sarà dotata di obiettivi intercambiabili (1930, modello C) e di telemetro incorporato (1932, Leica II); del 1932 è anche la Contax della Zeiss Ikon con otturatore a tendina verticale; del 1936 è la Kine-Exacta della Ihagee, prima reflex monobiettivo a ottica intercambiabile; del 1947 la Rectaflex con mirino a pentaprisma; del 1954 è la Asahiflex II, con specchio a ritorno istantaneo. Nascono nella stessa epoca, per il formato di pellicola maggiore (6×6 cm), le reflex biottica Rolleiflex (1928) e monoottica Reflex-Korelle (1936), mentre è del 1948 la monoreflex Hasselblad a ottica intercambiabile; nel settore delle minicamere (formato 8×11 mm) particolare interesse suscita la lituana Minox (1937). Nel 1927 P. Vierkoetter realizzò la lampada-lampo per il flash, nel 1932 la Weston produsse l’esposimetro fotoelettrico, nel 1939 venne fabbricato da H.E. Edgerton il primo flash elettronico. Nel frattempo furono lanciate le prime pellicole a colori: Kodachrome nel 1935 e Agfacolor nel 1936; bisognerà tuttavia attendere gli anni 1950 per le pellicole negative in bianco e nero a elevata sensibilità (Tri-X, 400 ASA; 1954), il 1988 per le pellicole negative a colori ad altissima sensibilità (Konica SV-R, 3200 ASA). Del 1948 è la prima Polaroid, Modello 95, fotocamera a sviluppo immediato di E. Land, che negli anni 1960 disporrà anche di pellicola a colori; del 1957 è la Nikon F. dotata di motore elettrico come accessorio, nel 1959 fu presentato il primo obiettivo zoom per fotocamere reflex 35 mm (Voigtlander/Zoomar 58-70 mm), nel 1962 il sistema di esposimetro incorporato TTL su Topcon RE Super. Nel 1978 furono realizzati l’automatismo di esposizione per reflex 35 mm (Minolta XD7) e la fotocamera compatta autofocus con flash incorporato (Konica C35AF), mentre è del 1981 la Mavica, il primo modello di apparecchio a utilizzare un disco magnetico in luogo della tradizionale pellicola fotografica.
Struttura delle macchine fotografiche. Indipendentemente dal tipo, qualsiasi apparecchio fotografico è in ogni caso schematicamente costituito da: corpo macchina, obiettivo, diaframma, otturatore, dorso e mirino; a essi si aggiungono diversi accessori, alcuni molto diffusi, i principali dei quali spesso fanno parte integrante della fotocamera stessa, specie nei modelli compatti o reflex: esposimetro, telemetro (anche di tipo completamente automatico), flash, motore, treppiedi ecc. Le attuali macchine fotografiche, caratterizzate da prestazioni e finalità di impiego assai diversificate, presentano una tipologia di modelli estremamente varia, che rende praticamente impossibile una loro classificazione in categorie ben definite: accanto a fotocamere compatte assai semplici da usare, totalmente automatizzate e destinate prevalentemente a impieghi amatoriali, esistono, per uso professionale o perché destinate a fotografi esigenti, sistemi fotografici molto complessi formati dall’integrazione di singoli elementi differenti variamente accoppiabili tra loro, oltre ad apparecchi particolari da utilizzare per specifiche applicazioni tecnico-scientifiche (f. ultrarapida, microfotografia, fotogrammetria ecc.). L’applicazione alla macchina fotografica di sistemi elettronici digitali, spesso a microprocessore, ha reso possibile la realizzazione di automatismi di ripresa molto spinti (messa a fuoco, apertura del diaframma e velocità dell’otturatore, controllo della durata di accensione del flash dedicato ecc.), precisi e affidabili nelle varie situazioni.
La macchina fotografica che utilizza la pellicola è dotata di un obiettivo costituito da una serie di lenti, oppure di lenti e specchi, che permettono un certo grado di ingrandimento dell’immagine originale. Dietro all’obiettivo si trova il diaframma, un sistema di lamelle che determina la larghezza del foro da cui passa la luce. Accoppiato al diaframma c’è l’otturatore, che si apre e si richiude a comando (nelle macchine fotografiche moderne è controllato elettronicamente) e per un tempo prefissato. Insieme, diaframma e otturatore determinano la quantità di luce che raggiunge la pellicola che si trova in un alloggiamento della macchina. Un apposito meccanismo di trascinamento (motorizzato nella maggior parte degli apparecchi) fa avanzare la pellicola di un fotogramma dopo ogni scatto e riavvolge completamente il rullino quando esso arriva al termine. Nella parte alta della macchina è posto un mirino che permette al fotografo di inquadrare il soggetto da riprendere. Il mirino può essere costituito da un semplice sistema ottico a cannocchiale a due lenti, posto nella parte superiore della macchina fotografica e quindi non allineato all’obiettivo, che mostra immagini di piccole dimensioni con errore di parallasse, specie per riprese ravvicinate, o da un sistema reflex in cui la scena, vista attraverso l’obiettivo, è riflessa a 90° da uno specchio. Le macchine più diffuse nel settore della f. amatoriale sono le fotocamere compatte, sia nel classico formato 35 mm sia nel formato APS (advanced photo system), che presentano un’ampia gamma di diversificazioni: accanto a modelli più semplici (a fuoco fisso, con possibilità di regolazione del diaframma e dei tempi ridotte o nulle) vi sono modelli più evoluti, che possono disporre di avanzamento motorizzato, esposizione automatica, sistema autofocus, obiettivo zoom, flash incorporato, attivato in caso di situazioni di illuminazione critica, per soggetti a basso contrasto e con possibilità di prelampo (al fine di minimizzare l’effetto ‘occhi rossi’), scrittura sul fotogramma di informazioni di vario tipo (come la data e l’ora di scatto) ecc.
Nelle macchine fotografiche digitali (fig. 2) la pellicola fotosensibile è sostituita da un sistema elettronico di ripresa, schematicamente formato da un sensore CCD al silicio, un convertitore analogico-digitale e un’unità di memorizzazione. Il mirino è in genere un display a cristalli liquidi a colori, che funge anche da monitor per la visione successiva delle immagini riprese; l’otturatore è costituito da un comando di acquisizione dati, mentre le altre parti sono sostanzialmente simili a quelle delle macchine fotografiche tradizionali. In particolare, si evidenziano le minori lunghezze focali richieste agli obiettivi rispetto al formato 35 mm, data la minore superficie del sensore rispetto al formato della pellicola fotografica. Il sensore CCD è l’elemento sensibile dell’apparecchio: a forma di matrice o griglia rettangolare (bitmap), è costituito da moltissime areole elementari o pixel (da alcune centinaia di migliaia a vari milioni), il cui numero per unità di superficie (di norma espresso in punti o dot per pollice, sigla DPI, dot per inch) definisce la risoluzione ottica dell’immagine digitale riprodotta. Poiché il sensore non è sensibile a variazioni cromatiche, per la f. a colori bisogna anteporre ai pixel dei filtri nei tre colori fondamentali rosso, verde e blu (sistema cromatico RGB, red green blue); si hanno tuttavia anche soluzioni diverse in relazione a specifiche utilizzazioni. Alcuni sistemi di ripresa dispongono di un sensore CCD lineare (fig. 3), costituito da 3 file (a) di pixel (b) differentemente filtrati, che si sposta come l’otturatore a tendina, esplorando in sequenza strisce diverse dell’immagine. Il convertitore analogico-digitale, che trasforma in bite le informazioni fornite dal sensore, definisce la ‘profondità’ dell’immagine digitale. Convertitori a 8 bite consentono di diversificare 256 tonalità di grigio, quantità ritenuta sufficiente per le esigenze di stampa: con la profondità di 8 bite per ciascuno dei 3 canali RGB, la combinazione dei 256 livelli per canale consente di realizzare quasi 17 milioni di colori diversi. L’utente può, di solito, selezionare tre diversi livelli qualitativi di memorizzazione dell’immagine (bassa, media e alta risoluzione), cui corrispondono ingombri crescenti nella memoria del file occupato dall’immagine e, di conseguenza, minor numero di scatti possibili, intervallo di tempo superiore tra uno scatto e l’altro, aumento dei tempi di trasferimento verso il computer o per via modem ecc. Per limitare l’ingombro si usa ricorrere a tecniche di compressione digitale che riducono lo spazio in memoria nel rapporto di circa 1/3; in seguito, una volta trasferita sul computer l’immagine, viene eseguita l’operazione inversa di decompressione.