Fenomeno sociale che consiste nell’affermarsi, in un determinato momento storico e in una data area geografica e culturale, di modelli estetici e comportamentali (nel gusto, nello stile, nelle forme espressive), e nel loro diffondersi via via che a essi si conformano gruppi più o meno vasti, per i quali tali modelli costituiscono al tempo stesso elemento di coesione interna e di riconoscibilità rispetto ad altri gruppi. In questo senso la m. rientra nei meccanismi di acculturazione che garantiscono la persistenza nel tempo di usi e vigenze collettive e si differenzia dalla semplice tendenza a ripetere occasionalmente alcuni moduli di comportamento sociale. Come espressione del gusto predominante (tipico di una determinata società) la m. interessa ambienti intellettuali, ideologici, movimenti artistici e letterari, o, più genericamente, abitudini, comportamenti, preferenze.
Senza particolari specificazioni, il termine fa in genere riferimento all’ambito dell’abbigliamento (ma anche delle acconciature, degli ornamenti personali, del trucco ecc.), nel quale il fenomeno è caratterizzato, soprattutto in tempi recenti, dal rapido succedersi di fogge, forme, materiali, in omaggio a modelli estetici che in genere si affermano come elementi di novità e originalità.
Dalla metà del 19° sec., grazie a telai meccanici e macchine per cucire, Parigi inaugura la produzione di modelli in serie, ossia la m. anche come ‘prodotto di massa’, mentre con gli abiti di C.F. Worth, creativo prima che sarto, presentati in maniera affatto inusuale per le abitudini della Francia del Secondo impero e delle corti europee, nasce l’elitaria haute couture (1860), che presto è soggetta a rigide regole, fra cui l’obbligo per le maisons iscritte di presentare a Parigi, all’interno di calendari ufficiali, collezioni semestrali di almeno 75 modelli. Le riviste di m., ormai diffuse e apprezzate, descrivono i mutevoli filoni di ispirazione del periodo dell’eclettismo (seconda metà 19° sec.): revival di goticismi o ampollose linee Rinascimento, pudichi abiti vittoriani o fogge esotizzanti, eco dell’epopea coloniale, caratterizzano vestiti interi e aderenti, con elaborati mix di tessuti, ingombranti per crinoline, tournure ed enormi maniche a prosciutto, costrittivi per i busti che evidenziano seno e fondoschiena. Secondo un gusto opposto, si affermano il tailleur per donna, che J. Redfern mutua dai completi maschili, la m. adatta alle pratiche sportive e, nell’onda delle critiche ai danni causati dal busto, il cosiddetto vestire ‘igienico’, disegnato su linee sciolte e vagamente giapponesi, ispirate da quella cultura che l’Occidente va scoprendo.
Agli inizi del 20° sec., abiti a vita alta o a sirena, con una linea che impaccia il passo, inserti di merletto e bordure di pelliccia, sono creati dalle sorelle Callot, M. Chéruit, J. Doucet, J. Paquin. Ma già intorno al 1910 la donna rompe con il passato, preferendo una m. funzionale e dalle fogge più morbide: l’abito delphos di M. Fortuny, mosso da un peculiare uso del plissé, ricorda la semplicità del chitone; P. Poiret con linee rievocative e orientaleggianti, semplici e dritte, elimina il busto e scandalizza scoprendo la caviglia o facendo indossare i pantaloni alle donne. Artisti come G. Klimt, S. Delaunay, R. Dufy, futuristi e costruttivisti, creano tessuti o abiti per le maisons; disegnatori quali G. Barbier, G. Lepape, P. Iribe, Erté immortalano le creazioni dei couturiers parigini in raffinate pubblicazioni.
Negli anni 1920, C. Chanel impone una figura affatto diversa: essenziale e mascolina, con gonne sopra il ginocchio e capelli corti alla garçonne. Ogni maison ha il suo stile: M. Vionnet esalta i tessuti con sbiechi e drappeggi, J. Lanvin vagheggia linee neorococò gonfiando i fianchi, il culto per lo sport è interpretato da J. Patou e anche l’inglese E. Molyneux sceglie la sobrietà. Negli anni 1930, con una linea di nuovo più femminile, convivono il romanticismo di N. Ricci e le stravaganze surrealiste di E. Schiaparelli; M. Rouffe e l’americano Mainbocher scambiano in forma inedita i tessuti per giorno e sera; al rigore di C. Balenciaga, J.M. Rochas contrappone colli bianchi e sontuosi mentre si afferma la polo di Lacoste. In Italia il governo fascista istituisce l’Ente nazionale moda (1932), perché la m. autarchica contrasti l’importazione di quella francese. L’importanza di quest’ultima spiega gli speciali approvvigionamenti di tessuti che, nella Parigi occupata della guerra, spettano solo all’haute couture, e la tenace difesa di questo patrimonio nazionale organizzata dal couturier L. Lelong, contro la pretesa nazista di trasferirlo in Germania.
Negli anni 1940, comunque, sotto eccentrici cappellini, la linea è austera, le spalle più squadrate, la gonna spesso sfiora il ginocchio. Dal 1945 la m. francese conosce nuovi trionfi: con il théâtre de la mode, mostra itinerante di piccoli manichini accuratamente vestiti e accessoriati dai couturiers; e poi con il new look di C. Dior: la silhouette con vita sottile e gonna ampia, busto aderente e spalle arrotondate (raffinatezze ottocentesche già preconizzate dall’outsider americano C. James) apre al lusso sofisticato di P. Balmain e J. Fath, di J. Heim, cui la fama arride anche con il bikini. Negli anni 1950, al new look si affiancano linee a sacco, a trapezio, a palloncino, e nuove griffe: H. de Givenchy con donne fragili e sensuali, P. Cardin maestro del taglio, Y. Saint Laurent, che saprà poi declinare la m. unisex e lo smoking al femminile.
L’alta m. italiana, tenuta a battesimo da G.B. Giorgini, si svincola da quella francese, anche se a volte con forzata opulenza decorativa. Tra i primi protagonisti: le Sorelle Fontana, Carosa, un ridondante E. Schuberth e le più sobrie J. Veneziani e G. Marucelli, Simonetta e Fabiani, che approdano anche a Parigi, come pure il giovanissimo R. Capucci; con loro le firme della boutique: E. Pucci, R. di Camerino che animano il jersey di colore e trompe l’oeil. E a seguire, M. Antonelli e F. Gattinoni, Valentino, capace poi di fronteggiare anche il prêt-à-porter, I. Galitzine e i suoi pigiama palazzo, P. Forquet dai tagli geometrici, P. Lancetti con la linea militare, F. Sarli e M. Schön, maestra del double face.
Ma il sistema dell’haute couture, nonostante una nouvelle vague con la m. spaziale di A. Courrèges, le hippy di lusso di E. Ungaro e con P. Rabanne anticipatore nell’uso di materiali avveniristici, entra in crisi come segnala il drastico calo delle maisons parigine: da 106 a 19, dal 1946 al 1967. Dagli anni 1960, infatti, il prêt-à-porter, sistema industriale più creativo rispetto alla confezione e più accessibile rispetto alla couture, emerge con lo stilista che coordina le collezioni già dalla scelta di tessuti e colori. Presente in America dagli anni 1940 (per es., C. Potter o C. McCardell), il mestiere si struttura in Francia con M. Rosier, C. Bailly, E. Khahn, stiliste per marchi della confezione.
La contestazione giovanile orienta fortemente verso una m. più pratica e finto povera: dall’America si importano jeans, abiti usati e, sia pur brevemente, quelli di carta; R. Gernreich con il topless lancia il nude-look; con M. Quant o J. Delahye a Londra debutta la minigonna, accompagnata da collant e aderenti stivali; Twiggy («grissino»), modella icona delle teen-ager, soppianta lo stile sexy delle maggiorate e, sempre a Londra, è il successo per boutique informali come Biba. In Italia il prêt-à-porter assume i volti diversi di Max Mara, maestro dei capispalla, delle pin up colorate di E. Fiorucci, che apre a nuove fasce di consumo, della solare ‘m. spettacolo’ di K. Scott.
Gli anni 1970 lanciano la m. folk, con gli ingenui tessuti liberty di L. Ashley e Cacharel, con i cotoni trapunti e policromi di Kenzo, ma è anche il decennio del revival anni 1920-1940: fluido nella maglieria di S. Rykiel, metropolitano nel gusto di G. Paulin, interpretato al limite dell’alta m. da W. Albini, mentre il casual, imposto dalla strada come stile di protesta, diventa sofisticato. Intanto, con un nuovo concetto estetico del vestire, artefici dell’italian style, si impongono G. Armani (la giacca maschile destrutturata è del 1974; l’applicazione dei codici di m. maschile alla donna del 1975), G. Ferré e G. Versace che declinano donne femminili o iper-femminili, Missoni con la maglieria e Krizia. Ugualmente abili nel dare spazio anche al business della m. maschile, con cifra originale li affiancano E. Coveri e le Fendi coadiuvate da K. Lagerfeld, E. Massei, G.M. Venturi e L. Soprani dall’eleganza discreta, un F. Moschino ‘dada’ e le lolite di Blumarine, e a seguire negli anni, le rêverie di R. Gigli e A. Ferretti, il minimalismo di Prada o le ispirazioni mediterranee di Dolce & Gabbana e A. Marras, M. Galante (allievo di Capucci) che sperimenta volumi fortemente tridimensionali, Gucci che trova nuovo glamour nel modern-sexy di T. Ford, mentre il neo-1970 di R. Cavalli piace quanto la modernità di A. Dell’Acqua.
Anche a Parigi, negli stessi decenni, il prêt-à-porter prende corpo: C. Montana veste di cuoio una donna ‘spaziale’, J.C. De Castelbajac dipinge a mano abiti essenziali e grandi come tele, nostalgiche divine e dive da fumetto sono disegnate da A. Alaïa, T. Mugler e poi da H. Léger. J.P. Gaultier sovverte il folk mescolando etnie di un mondo globalizzato, mentre celebrano metropolitane eleganze N. Cerruti e A. Tarlazzi, fanno ricerche concettuali su abiti informali o sport A.M. Beretta e M. e F. Girbaud, M. Sitbon veste androgine dandy. Ancora da Parigi, negli anni 1980, contamina la m. europea il ‘look mendicante’ dei giapponesi R. Kawakubo, alias Comme des Garçons, J. Watanabe e Y. Yamamoto, I. Miyake famoso anche per i plissé-origami: con anarchica raffinatezza, costoro interpretano kimono e tradizione con taglie fuori misura e tessuti sperimentali dai colori opachi e sordi.
Per fronteggiare il prêt-à-porter, dominante per quote-mercato specie nella fascia di lusso, molte maisons di haute couture si rinnovano: fra le prime Chanel (con K. Lagerfeld) e Dior (con G. Ferré e l’irriverente sartorialità di J. Galliano).
Nell’ultimo scorcio del Novecento, per soddisfare da un lato il crescente bisogno di margine di libertà e di autonomia in contrapposizione alla globalizzazione e dall’altro i desideri di stabilità e tradizione, si diffonde quel fenomeno culturale noto come vintage, termine inglese derivato dal linguaggio enologico che significa ‘annata’, ‘produzione’ e, per estensione, passato nella moda a indicare l’usato ‘d’autore’. Alle soglie del Duemila, sull’onda del grande successo del vintage, molti stilisti propongono capi d’annata o riedizioni di classici.
Nella moltitudine di tendenze l’omogeneità della m. è progressivamente sostituita da una quantità di stili diversi. La m. ormai non si impone più rigidamente, ma diventa ‘facoltativa’. Questa molteplicità di ‘mode’ lascia più spazio alla personalità e la possibilità per ognuno di identificarsi con questa o quella griffe. L’abito, lungi dall’essere un’entità dotata di vita propria e di dare forma a chi lo indossa, viene scelto e chi lo indossa gli attribuisce un senso in base al suo stato d’animo. Il successo di un marchio di m. è legato essenzialmente alla sua presenza in una pluralità di campi; l’estetica della maggior parte delle griffe (da Armani a Gucci, da Ralph Lauren a Dior) è ormai applicata a ogni dettaglio: dall’arredamento ai profumi, dalle forme pubblicitarie all’architettura. Quest’ultimo ambito acquisisce una rilevanza sempre maggiore: ne sono espressione stilisti e poli del lusso che, sempre più spesso, affidano il progetto dei propri punti vendita ad architetti di fama internazionale.