Lettura in pubblico o dizione a memoria di un testo, o interpretazione di un’opera o di parte di un’opera teatrale, cinematografica, radiofonica o televisiva.
È l’arte di rendere fisicamente attuale (con i mezzi espressivi del proprio corpo: voce, gesto, movimento) un’esistenza virtuale (il personaggio immaginato).
Storia. In età classica si distingue una r. con la maschera (tragica e comica) e una senza maschera (mimo e pantomimo). In Grecia la r. raggiunge il suo apogeo nel 4° sec. a.C.; a Roma nel 1° sec. a.C. (Roscio, attore comico). I primi secoli dell’era cristiana sono caratterizzati, oltre che dalla comparsa delle donne sulla scena, dal predominio dell’arte pantomimica introdotta dagli orientali.
Dal 5°-6° sec., cessato l’uso di rappresentare tragedie e commedie, la r. si riduce all’arte imitativa e onomatopeica di mimi isolati e poi a quella, pure monologante, dei giullari. Soltanto nel tardo Medioevo, dal 12° sec., una r. sia pure elementare torna a essere praticata nel mondo cristiano per dar vita scenica al dramma sacro.
Nel Cinquecento, con il ritorno alla rappresentazione di commedie e tragedie classiche, si distingue una r. aulica, tendente a privilegiare il testo scritto, e una r. dei comici italiani dell’arte, reinventori della r. all’impronta (senza testo scritto) e di una tecnica dell’attore basata su un rigoroso impiego di tutti i mezzi espressivi del corpo umano. Fu Molière nel Seicento a operare la fusione tra r. classicista e tecnica dei comici dell’arte. Il Settecento è in tutta Europa il secolo delle querelle teoriche sulla r. teatrale (F.A.V. Riccoboni, P. Rémond de Sainte-Albine, G.E. Lessing, D. Diderot, J.-J. Rousseau), che nell’Ottocento lasciarono il posto alla trionfante ascesa del ‘grande attore’ romantico, alla ricerca di una ‘verità’ fondata sulla rappresentazione delle passioni. La fine del secolo vede la breve stagione della r. naturalista e verista, la quale nel Novecento genera una reazione che porta la r. al recupero di forme e convenzioni lontane nel tempo e nello spazio (commedia dell’arte, teatro elisabettiano, teatri orientali, primitivi) e alla rottura del quadro scenico ‘all’italiana’.
Estetica. Alla base di ogni riflessione estetica sulla r. sta il suo rapporto con il testo recitato. La questione è già posta da Aristotele, che tuttavia si limita a distinguere le due sfere: «Cercar di promuovere questi sentimenti, il terrore e la pietà della favola, mediante lo spettacolo scenico è cosa che non ha a che fare con l’arte del poeta e ci deve pensare il corego» (Poetica, 14, 1453 b 7-8). Dalle correnti filosofiche che si rifanno alla concezione aristotelica, fondata sulla verosimiglianza e sulla razionalità del fantasma poetico, discendono le poetiche del teatro naturalista (É. Zola, A. Antoine, K.S. Stanislavskij) e alcune antinaturaliste (P. Fort, B. Brecht). La tesi opposta ha invece trovato il suo fondamento nell’estetica romantica (poesia come rivelazione, raggiungibile solo per via intuitiva) e a essa possono ricondursi le poetiche orientate a rovesciare la ‘drammaticità’ del testo nella ‘teatralità’ dello spettacolo (E.G. Craig, A.J. Tairov ecc.).
Problema ancor più specifico è quello del rapporto tra attore e personaggio. L’attore presta al personaggio un fisico, un volto, una voce; ma, oltre la fisicità, l’attore dovrà rendere anche il mondo affettivo e spirituale del personaggio: dovrà in qualche modo prestargli anche dei sentimenti, delle passioni. Nella natura e modalità di tale processo consiste la polemica tra ‘emozionalisti’ e ‘antiemozionalisti’. I primi sostengono l’impossibilità di recitare sentimenti mai provati e ritengono che la qualità somma dell’artista drammatico sia la sensibilità. Al contrario per i secondi (caposcuola Diderot con il suo Paradoxe sur le comédien) occorre distinguere nettamente tra sentimento ed espressione del sentimento: la quale ultima è frutto soltanto della fantasia guidata dalla razionalità.
A tale polemica si riallaccia anche il dibattito sulla immedesimazione dell’attore nel personaggio. La storia del teatro presenta numerosissime soluzioni raggruppabili secondo due opposti indirizzi: quello che parte da esercizi esterni per giungere a suscitare un movimento interiore (per es., i trattati ottocenteschi di ‘pose sceniche’) e quello che al contrario propone all’attore di iniziare dalla concentrazione interiore per provocare poi spontaneamente l’espressione mimica e gestuale (Stanislavskij). Da rilevare che altre scuole (V.E. Mejerchol′d, A.J. Tairov) hanno negato la necessità di una immedesimazione dell’attore nel personaggio e hanno quindi adottato metodi opposti, basati sulla stilizzazione, sulla ‘biomeccanica’ e sull’acrobatica. Dalla stessa negazione ha mosso Brecht per la teoria della r. ‘straniata’: l’interprete non deve diventare il personaggio ma presentarlo allo spettatore nella sua dialettica. Da ricordare, inoltre, la teoria della r. di E.G. Craig, che definisce l’attore una sorta di super-marionetta al servizio del regista, e quella di A. Artaud, che propone una r. che fa dell’interprete l’espressione di un «conflitto di posizioni spirituali, scarnite e ridotte a puri gesti», concezione questa che avrà grande influenza sia sul Living Theatre, sia su I. Grotowski.
Pur essendo profondamente influenzata dalle tradizioni della r. teatrale, la r. cinematografica ha sviluppato tecniche proprie. Agli inizi il cinema si apre soprattutto ai mimi, ai clown, agli attori che provengono dal circo e dal music-hall. Già ai primi del Novecento, tuttavia, il proposito di nobilitare il livello estetico e sociale del cinema e insieme di sfruttare la notorietà degli attori teatrali, induce le case di produzione a reclutare i divi più noti della scena (come S. Bernhardt e E. Duse), senza però ottenere gli esiti sperati: l’inquadratura, che amplifica la gestualità, non rende un buon servizio ai celebri interpreti, che appaiono eccessivi e a tratti ridicoli. In seguito, la scoperta del montaggio e dell’articolazione dei piani, del valore espressivo dell’illuminazione e della possibilità di far ‘recitare’ oggetti, ambienti, costumi, modifica in profondità il metodo della r. cinematografica, nella quale il lavoro del corpo si iscrive in un continuum che comprende l’inquadratura e quanto compare prima e dopo di essa.
Scuole di r. pubbliche si ebbero solo a partire dalla fine dell’Ottocento, generalmente annesse a teatri d’arte o sovvenzionate. In Italia furono numerose le scuole di r. private, mentre la prima scuola di r. pubblica fu istituita a Firenze nel 1881 da L. Rasi. L’unica scuola di r. statale attualmente esistente fu istituita a Roma da G. Baccelli e intitolata (1924) a E. Duse; trasformata in Accademia nazionale d’arte drammatica, è stata poi intitolata a S. d’Amico che la diresse per molti anni. Nel dopoguerra, come emanazione dei Teatri stabili, sono sorte numerose scuole di r. che affiancano l’attività degli stessi teatri.