Recitazione
Fin dalle origini del cinema la r. si orientò nelle due direzioni adottate dalla nascente industria, da una parte il trasferimento dell'attore di teatro davanti all'operatore, dall'altra l'adozione di figure e volti non professionali ma con il dono della fotogenia, 'presi dalla vita' secondo una terminologia periodicamente ricorrente: una storicità della r. cinematografica, nel suo divenire, è intrinseca al percorso della nuova arte e trovò subito un'ambivalenza pratica ‒ l'approccio teorico non si delineava ancora ‒ nel ricorso ai professionisti, oppure negli anonimi impreparati, che anonimi non rimanevano perché indicizzati da una popolarità ignota anche ai più celebri esponenti dell'altra categoria. Recitare cominciò a significare esserci, mentre in teatro, a parte le deviazioni delle avanguardie, esserci continuava a voler dire recitare. Non occorreva più la parola, a parlare era l'immagine e ogni tanto la didascalia, che per giunta quasi mai faceva seguito a un qualche movimento delle labbra. D'altra parte i vent'anni intercorsi fra la curiosità suscitata dal treno in arrivo dei fratelli Lumière e i milioni di dollari incassati da The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione) di David W. Griffith, che segnò l'adozione trionfante del primo piano, possono essere considerati una preistoria della r. cinematografica, in quanto "si può dire […] che la tecnica cinematografica è nata il giorno che è stato inventato il primo piano […] E per mezzo del cinematografo si è scoperta la bellezza dei movimenti e del volto umano, appena intravista dagli antichi" (S.A. Luciani, L'antiteatro, 1928, pp. 22 e 29). Il lavoro di interpretazione di un testo venne sostituito dalla fabbricazione autonoma di azioni e personaggi. Nel 1927 Carl Theodor Dreyer per La passion de Jeanne d'Arc (La passione di Giovanna d'Arco), come nota Walter Benjamin in Das Kunstwerk im Zeit-alter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936; trad. it. 1966, p. 52, nota 19), "impiegò mesi soltanto per trovare i quaranta attori che avrebbero composto il tribunale. La ricerca di questi attori assomigliava a una ricerca di determinati attrezzi difficilmente ottenibili. Dreyer cercò con estrema cura di evitare le somiglianze di età, di statura, di fisionomia. Se l'attore", deduce Benjamin, "diventa un attrezzo, non di rado, d'altra parte, l'attrezzo funge da attore". Ma così si entra in una problematica specifica: l'attore non soltanto insufficiente in teatro come per Gordon Craig e rimpiazzabile dalla Supermarionetta, ma fungibile nel cinema al pari di un oggetto.Certamente fu con Griffith che la r. diventò determinante quanto gli effetti spettacolari, sia per il suo intuito nello scegliere e lanciare gli attori e soprattutto le attrici, sia per aver arricchito di sfumature psicologiche le trame altrimenti inevitabilmente melodrammatiche, vincendo così le diffidenze del pubblico acculturato che non disertò i suoi film quando entrò in lizza, con l'impatto di una mimica manichea, il cinema 'plebeo' di Mack Sennett. Da questo cinema, più che dal romanzesco di Griffith, sarebbe emersa l'umanità eccentrica e dolente di Charlie Chaplin/Charlot, qualcosa che nell'ammirazione universale andò ben oltre la recitazione fine a sé stessa rimanendo un unicum, una pietra di paragone che aiutò ad apprezzare i modi con cui altri geni del comico, un Buster Keaton, un Harold Loyd, attraversavano il loro mare di disavventure 'facendo ridere' mediante gli stessi rischi fisici, sociali, sentimentali per i quali si era insegnato alle attrici a 'far piangere' (al terzo precetto caro ai produttori, 'fare aspettare', dovevano ottemperare i registi).Poiché natura delle cose è loro nascimento, le questioni fondamentali sono ancorate ai primi decenni della nuova arte. In Si gira… di Luigi Pirandello, comparso a puntate su "Nuova antologia" nel 1915 e in stampa nel 1916 (poi con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925, edizione da cui si cita) l'attrice Nestoroff interpella l'operatore:"Voleva sapere da me, se mi paresse che la professione dell'attore fosse tale, che una qualsiasi bestia (anche non metaforicamente) si potesse credere atta, senz'altro, a esercitarla. Dove? ‒ le domandai. Non intese la domanda. Ecco, ‒ le spiegai, ‒ se si tratta d'esercitarla qui, dove non c'è bisogno della parola, forse anche una bestia, perché no?, può essere capace. ‒ La vidi infoscarsi in volto. Sarà per questo, ‒ disse misteriosamente. Mi parve dapprima d'indovinare, ch'ella (come tutti gli attori di professione, scritturati qui) parlasse per dispetto di certuni, i quali […] trovano modo di farsi accettare dalla Casa e di prender posto tra gli attori, senza molta difficoltà, tolta di mezzo quella, che sarebbe più arduo per loro e forse impossibile superare […], la recitazione" (pp. 79-80). Ma Serafino Gubbio individuava 'un disagio' generale.Un anno prima, nel 1914, un 'quadro' di I due eroi, soggetto di Pirandello (rimasto inedito fino al 1991, v. F. Callari, Pirandello e il cinema, 1991, pp. 131-32) rendeva l'idea di come ci si aspettava che si recitasse. Il protagonista, Andrea Grisanti, un professore accusato di far parte di un comitato rivoluzionario, "con simulato sbalordimento ma con vivo terrore, si dà con violenza una manata sul petto, come a dire: 'Io? Io?'. E, 'Può credere, Ella, che s'alluda a me? Mai, mai!', nega imperterrito. Poi apre pietosamente le mani, dice che ha sei piccini, sei, sei da mantenere e che non pensa, non ha mai pensato a ciò che è detto nella denuncia; e la respinge sdegnosamente porgendola al Direttore". Nel 1929 il "cinema parlante" non convincerà Pirandello; sarà una scimmiottatura del teatro che ne uscirà rafforzato. "Le labbra di quelle grandi immagini in primo piano si muovono a vuoto perché la voce non esce dalla loro bocca ma viene fuori grottescamente dalla macchina, voce di macchina e non umana, sguaiato borbottamento da ventriloquo", e anche "quando il progresso tecnico sarà riuscito a eliminare questo friggío, e ottenere la perfetta riproduzione della voce umana, il male principale non sarà in alcun modo riparato" perché "le immagini resteranno immagini e le immagini non possono parlare" (Se il film parlante abolirà il teatro, in "Corriere della sera", 16 giugno 1929).
Com'è naturale, si ricredette ampiamente sul cinema muto e poi sonoro ("io non ho disprezzato la grandezza del suo dominio né la larghezza delle sue capacità", 1924, cit. in Callari 1991, p. 308), cedette diritti di adattamento, collaborò, scrisse soggetti. Ma non è un caso che il migliore e più 'fedele' Pirandello filmato resti quello di Feu Mathias Pascal (1925; Il fu Mattia Pascal) di Marcel L'Herbier e quindi muto, lodato anche da Leonardo Sciascia, avvalorato dalla r. di un superbo Ivan Mozžuchin, incalcolabilmente superiore a L'homme de nulle part (1936; Il fu Mattia Pascal) di Pierre Chenal, del quale per contratto Pirandello avrebbe dovuto dirigere la r.; mentre il peggiore fu quello di As you desire me (1932; Come tu mi vuoi) dello statunitense George Fitzmaurice, con un dialogo banalizzato e snaturato, e una Greta Garbo convincente nel falsificatissimo lieto fine ma che fa pensare a cosa sarebbe stata Marlene Dietrich nella parte dell'Ignota cabarettista berlinese, tanto più che nel film recita Eric von Stroheim nel ruolo di Salter. Anche se agli inconvenienti segnalati da Pirandello pose riparo la sincronizzazione, come lui stesso prevedeva, si è qui di fronte a uno di quei casi in cui l'intuito e l'autorevolezza di uno scrittore si evidenziano citandolo attraverso un altro. Vent'anni dopo Si gira…, Benjamin in Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit si appoggia a Pirandello per convalidare un suo paragone: "Al film importa non tanto che l'interprete presenti al pubblico un'altra persona, quanto che egli presenti se stesso di fronte all'apparecchiatura. Uno dei primi che abbia avvertito questa trasformazione dell'interprete in seguito a un tipo di prestazione fondata sul test è stato Pirandello" (trad. it. 1966, p. 32). L'affinità della r. cinematografica con il test, collegabile al taylorismo, geniale seppure azzardata, si precisa in una serie di considerazioni complesse: "[…] La prestazione dell'interprete viene sottoposta a una serie di test ottici […]" ed egli "[…] poiché non presenta direttamente al pubblico la sua prestazione, perde la possibilità, riservata all'attore di teatro, di adeguare la sua interpretazione al pubblico durante lo spettacolo. Il pubblico viene così a trovarsi nella posizione di chi è chiamato a esprimere una valutazione senza poter essere turbato da alcun contatto personale con l'interprete. Il pubblico s'immedesima all'interprete soltanto immedesimandosi all'apparecchio. Ne assume quindi l'atteggiamento: fa un test. […] Da tempo gli studiosi specializzati hanno riconosciuto che nello spettacolo cinematografico "si ottengono quasi sempre i maggiori risultati quando si recita il meno possibile… Lo sviluppo più recente" è definito nel 1932 da Arnheim come un modo di fare che "tratta l'attore alla stregua di un attrezzo, che viene scelto in base a determinate caratteristiche e… sistemato al posto giusto". A ciò va connesso intimamente un altro elemento. L'attore che agisce sul palcoscenico, si identifica in una parte. Ciò è spessissimo negato all'interprete cinematografico. La sua prestazione non è mai unitaria, è bensì composta di numerose singole prestazioni. Accanto alle considerazioni casuali attinenti l'affitto degli studi, la disponibilità dei partner, la scenografia, eccetera, a scomporre la recitazione dell'interprete in una serie di episodi montabili sono le necessità elementari dell'apparecchiatura. Si tratta in particolare della illuminazione, la cui installazione costringe" ‒ la luce può dunque rivelarsi una nemesi ‒ "a ridurre a una serie di singole riprese, che talora negli studi durano ore, la rappresentazione di un'azione che poi sullo schermo appare come una sequenza rapida e unitaria. Per non parlare poi di montaggi ancora più manifesti" (pp. 31-33). Inoltre, sempre per Benjamin, "mentre si trova davanti all'apparecchiatura, l'interprete cinematografico sa che in ultima istanza ha a che fare col pubblico: col pubblico degli acquirenti, che costituiscono il mercato. Questo mercato, nel quale egli viene immesso, non soltanto con la sua forza lavoro, ma anche con la sua pelle e i suoi capelli, col cuore e coi reni, nel momento della prestazione che è chiamato a fornire gli è inaccessibile quanto un articolo qualunque prodotto in una fabbrica. Questa circostanza, come potrebbe non contribuire all'imbarazzo, a quella nuova angoscia che secondo Pirandello si impadroniscono dell'interprete di fronte all'apparecchiatura? Il cinema risponde al declino dell'aura costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce" (pp. 34-35).
Dunque, il passaggio insensibile dalla 'verità' alla fiction denunziato dai critici sociologici della televisione non è niente di nuovo, il cinema è stato fatto da attori-personaggi-persone che continuano a muoversi senza rottura di continuità fra la stampa o la televisione in cui sono fotografati o intervistati e i film che interpretano.
"La radio e il cinema modificano non soltanto la funzione dell'interprete professionista ma anche, e allo stesso titolo, quella di coloro che, come i governanti, interpretano se stessi. L'orientamento di questa modificazione è lo stesso, a parte i diversi compiti particolari, per l'interprete cinematografico e per colui che governa. Esso persegue la produzione di prestazioni verificabili, anzi adottabili, in determinate condizioni sociali. Ciò ha come risultato una nuova selezione […] che avviene di fronte all'apparecchiatura; da questa selezione" ‒ ecco il punto, confermato anch'esso dalla televisione ‒ "escono vincitori il divo e il dittatore" (p. 53, nota 20). Se "non c'è dubbio che occorre situare l'analisi del Benjamin nel contesto storico in cui nacque, quello fra le due guerre: un momento in cui la tecnologia predomina[va] in una società che [stava] diventa[ndo] sempre più di massa" (G. Aristarco, L'utopia cinematografica, 1984, p. 36) e la dittatura fascista e poi nazista, plurimediale attraverso cinema e radio, dominava in Europa, bisogna ammettere che non si è andati più in profondità nell'analizzare la r. cinematografica al di là di apparenze, stili, metodologie.
Lo spettacolo teatrale viene (quasi sempre) replicato, la semiologia del teatro dovrebbe fare i conti anche con le variabili infinite del rapporto con il pubblico, imprevedibili a priori, per cui si dovrebbe parlare dei segni di quella tal recita in quelle tali situazioni, esercizio impossibile (in attesa di una 'semiologia della realtà' auspicata non si sa quanto ironicamente da Pier Paolo Pasolini, non senza rapporto con il cinema) risparmiato ai semiologi della nuova arte. Altre variabili sono proprie del film, per es. le scene girate più volte diversificando le posizioni e le condizioni, che però sono registrate e reperibili e comunque fanno capo a un prodotto finale dovuto alla scelta del regista e alle operazioni di montaggio e di edizione. L'attore di cinema recita un personaggio, una situazione, un testo, decostruiti in partenza e poi ricostruiti non sempre rispettando il progetto iniziale, che infatti deve contenere in sé la libertà di molteplici soluzioni, alcune delle quali vengono preferite proprio grazie alla resa dell'attore e dunque a una interpretazione, per così dire, dapprima intuitiva e poi intenzionale: tenendo presente che quando è l'arte dell'attore a dettare le scelte finali ci si può trovare di fronte, più che ai precetti dei registi/teorici, alla presenza o alla scoperta contingente di codici sapienziali.
Molto dipende, nell'inquadratura, dalla luce, di taglio, soffusa, a picco, colorata. La presenza della musica può conferire a un volto immobile sentimenti diversi, come l'avvento del sonoro rese chiaro, e se la r. è precisata o addirittura creata in moviola (stracitato è il racconto di Vsevolod I. Pudovkin sugli esperimenti di Lev V. Kulešov che fece 'recitare' a Ivan I. Mozžuchin la fame, o il dolore, o la gioia montando suoi primi piani quasi identici seguiti prima da una minestra, quindi da una bara e, infine, da una bambina che gioca), ne consegue che l'a posteriori del montaggio è per la r. un'apparenza dovuta alle esigenze della produzione in quanto tutto o quasi è stato deciso a priori, e l'attore dev'essere istruito di conseguenza dal regista.
L'immediata espressività richiesta spesso dalle necessità della lavorazione caratterizza l'attore di cinema. Occorre un certo tempo per enunciare in parole il proprio pensiero, non ne occorre alla fisionomia per esprimere lo stesso pensiero con uguale energia. È un lampo, è stato detto, che parte dal cuore, brilla negli occhi e spande la sua luce su tutti i lineamenti. Come lo si innesca? Ma, anche: c'è bisogno di qualcosa di interiore che lo inneschi secondo, per es., la pedagogia neostanislavskiana dell'Actors Studio newyorkese di Lee Strasberg? Oppure la recitazione può partire per ogni attore da un impulso non classificabile o da un suo repertorio via via acquisito di espressioni più o meno originali?
Si è compreso che alla base della r. nel cinema stanno elementi quali la conoscenza più o meno approfondita, la consapevolezza dei procedimenti tecnici da parte dell'attore e la volontà da parte di chi lo dirige di comunicare all'attore come si ha intenzione di procedere, sia secondo un piano 'di ferro', secondo la posizione di Pudovkin, sia lasciandogli spazio, secondo Sergei M. Ejzenštejn; senza dimenticare la preesistenza delle condizioni manageriali ed economiche segnalate anche da Benjamin, che si traducono in quello che viene chiamato il piano di produzione con i conseguenti tempi di lavorazione. Determinato dapprima a lavorare con gente che non avesse mai visto una commedia o un film, Pudovkin poi (Aktër v filme, 1934; trad. it. L'attore nel film, 1939) divenne favorevole ad attori ben preparati, capaci di riscattarsi dalla passività di materiale plastico nelle mani del regista e di offrire un loro contributo solo a patto di acquistare coscienza dei processi creativi del film entro una 'sceneggiatura di ferro' (il che è stato una forza del cinema americano). Essi, suggerisce Pudovkin, devono provare la parte su una sceneggiatura apposita che metta in sequenza i vari momenti specificando le peculiarità delle riprese, piani, campi, angolazioni, previsioni di montaggio: un copione, insomma, che permetta una visione continua della parte su cui l'attore deve prepararsi interiorizzandone le motivazioni. Ne è derivata l'applicazione al cinema del metodo di K.S. Stanislavskij nella versione volontaristica dell'Actors Studio newyorkese di Strasberg, dominante negli anni Quaranta/Cinquanta, ma criticato da Erwin Piscator, animatore durante la sua emigrazione di un Dramatic Workshop (dove scoprì Marlon Brando): "L'attore non deve lavorare soltanto a partire dalla ispirazione, egli ha bisogno sia del sentimento come sappiamo da Stanislavskij, sia dell'intelletto, secondo gli esperimenti di Brecht, senza separarli rigidamente come accade in generale" (cit. in Erwin Piscator 1893-1966, a cura di P. Chiarini 1978, catalogo della mostra, pp. 42-43). Per Ejzenštejn, regista e attori devono essere liberi di creare senza una sceneggiatura costrittiva, lavorando in vista di un montaggio a posteriori che rifiuta la dittatura pudovkiniana del soggetto e può innovarlo cogliendo i momenti migliori. Nonostante la sua molteplice presenza nel teatro sovietico degli anni Venti (contribuì alla formazione e definizione dell'attore 'eccentrico', che sviluppava il manifesto italiano futurista del 1913, Il teatro di varietà, affiancandolo alla biomeccanica mejercholdiana), l'Ejzenštejn teorico cinematografico non si sofferma particolarmente sulla r. (è "il teatro" che "è fatto dall'attore", disse anche dopo il primo film sonoro, mentre "il regista fa il cinema"). Sua l'annessione al film del monologo interiore: secondo lui solo il cinema sonoro è in grado di ricostruire e rappresentare, anche grazie all'asincronismo, la complessità dei processi mentali. Dall'evoluzione della sua opera filmica è ricavabile il suo pensiero sulla r.: espressionista, propagandistica, monumentale, ieratica, ritualistica sull'esempio di Mei Lanfang, l'attore cinese citato anche da Brecht, tutto tranne che naturalistica; in poco conto si deve tenere come per Pudovkin l'adesione tardiva al realismo socialista, il manierismo edificante pseudorivoluzionario postždanoviano. Per Viktor B. Šklovskij, in linea con il suo formalismo, in Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin), gli oggetti, dalla corazzata alla carrozzina, recitano da grandi attori, né d'altronde gli spunti teorici ejzenšteiniani in favore del 'tipo' piuttosto che del personaggio si tradussero mai, nelle opere del creatore di Stačka (1925; Sciopero) o di Ivan Groznyj (la cui prima parte, nota in Italia come Ivan il terribile, venne presentata al pubblico nel 1945, la seconda, La congiura dei boiardi, terminata nel 1946, uscì solo nel 1958) negli esecrati e ironizzati cliché di recitazione. Oggi più che mai l'attore dovrebbe sapere quanto il regista e lui stesso siano liberi di sperimentare, anche grazie al controllo immediato dei successivi risultati che le registrazioni hanno reso possibile, una verifica coadiuvante che per gran parte della storia del cinema era rimandata a dopo i tempi di sviluppo e stampa, il che non impediva la nascita di opere straordinarie e di prestazioni attoriali memorabili a riprova che occorre cautela nel trasferire sul territorio scivoloso della teoria il peso dei conseguimenti tecnici.
Totale e spietata come nessun ribaltamento politico, la discriminazione operata dal sonoro/parlato (v. muto e sonoro) eliminò schiere di divi e dive ai quali (aveva detto la Nestoroff in Si gira…) mancava non soltanto la tecnica ma la possibilità stessa di "superare la difficoltà della recitazione" con le sfumature che la parola ormai dimostrava necessarie e producenti. Più che della caduta di un monolite sterminatore si trattò a ben vedere di una selezione naturale accelerata, e per rompere il guscio dell'uovo fu scelto un attore/cantante, l'Al Jolson di The jazz singer (1927; Il cantante di jazz) di Alan Crosland. Provvidenziale si era rivelato d'altronde il silenzio trentennale affinché il cinema si definisse anche in quanto arte e l'immagine proiettata sulla tela non restasse serva di 'Sire le Mot', come rischiava quella vivente del teatro secondo la polemica accesa da Gaston Baty.
La Garbo di Die freudlose Gasse (1925; La via senza gioia) di Georg Wilhelm Pabst era già la Garbo di Love (1927; Anna Karenina) di Edmund Goulding e rimase 'la Garbo', voce non fascinosa quanto il volto ma subito accettata; Chaplin non 'parlò' che dopo anni ma non più come Charlot. Il colore non fu rivoluzionario come il suono e il sonoro avanzò come sviluppo inevitabile del logocentrismo occidentale, cui le avanguardie avevano cercato di opporre ricerche di discontinuità, nonsenso, frammentazione, gioco, automatismo, spostamento, processo anziché prodotto, introducendo anche nel cinema, nato 'per le masse' e dunque, nell'orizzonte delle attese, leggibile e credibile, un tasso di asocialità che più che nella r. si era evidenziato nel contenuto delle inquadrature, nell'audacia delle riprese e nel montaggio, e lottava per non farsi riassorbire e strumentalizzare dall'industria. Anche per questo non mancano tuttora i sostenitori della supremazia del cinema muto. La tecnica ha richiesto all'attore sia il parlato in 'presa diretta' sia quello, in fasi successive, della sincronizzazione sui movimenti delle labbra.
Che la r. sia inevitabilmente 'storica' quanto le componenti tecniche del cinema, e forse più, non ne impedisce la perennità e il recupero, esimendola in qualche modo dalle conseguenze della 'crisi dell'aura', il che non è concesso all'attore di teatro che quando è 'riprodotto' non è già più l'opera d'arte di sé stesso, come invece l'attore di cinema che nasce in quanto è riproducibile, e può quindi venire studiato in modo incomparabilmente più agevole poiché coincidono l'opera e la sua documentazione. Che Vladimir V. Majakovskij in un film recitasse all'altezza degli istrioni comici del muto, cioè poco e perciò molto, fu riconosciuto subito e poi ripetuto negli anni dei "Cahiers du cinéma"; attore 'crudele' ebbe modo di dimostrarsi più che in teatro Antonin Artaud come l'Inquisitore di Dreyer in La passion de Jeanne d'Arc: le prestazioni legate alle poetiche dei due artisti negano la divaricazione scolastica fra palcoscenico e schermo; l'affermazione di Orson Welles, quando era in Italia, che Eduardo De Filippo, insuperabile in scena, era nullo sullo schermo, è contraddetta anche dalla sola monumentale pernacchia di L'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica destinata a non invecchiare; i pregiudizi sono scomparsi, è difficile sostenere che 'non recitano' le famiglie-verità di La terra trema (1948) di Luchino Visconti e L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, o i banditi sardi di Vittorio De Seta, e un teatrante, Vittorio De Sica, è stato forse il più completo 'uomo di cinema' italiano.
Essenziale nel moderno teatro di regia, e lo era nelle compagnie a ruoli fissi o per i men elisabettiani, è non soltanto sotto la guida di chi ma anche con chi si recita, onde la necessità di gruppi affiatati e riconoscibili. Nel cinema questo sembra non valere. Solo eccezionalmente il mondo ha conosciuto Ingmar Bergman insieme agli 'attori di Bergman', depositari di un'interiorità non esibita che parecchi di loro hanno poi portato individualmente nel lavoro in altre situazioni, e vale forse per talune troupes extraeuropee. A questo lavoro solidale il cinema ha però dedicato più di un'opera toccante, fra cui Vanya on 42nd Street (1994; Vanya sulla 42ª strada) di Louis Malle e il disperato capolavoro di Theo Anghelopulos O thiasos (1975; La recita), vero esempio di film epico. Qualcosa di analogo aveva offerto il film italiano brillante tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, dando luogo a gioielli minori di r. con Vittorio De Sica e con Umberto Melnati, Nino Besozzi, Sergio Tofano, Enrico Viarisio. Il lavoro filmico è di per sé solitario, appartiene alla sensibilità e al mestiere del singolo saper suggerire la presenza dell'altro quando l'altro non c'è. Un caso a parte sono le coppie fisse: due comici (o tre: i fratelli Marx), Stan Laurel e Oliver Hardy, Jerry Lewis e Dean Martin, Walter Matthau e Jack Lemmon, in Italia Totò e Peppino De Filippo, Bud Spencer e Terence Hill, Gino Cervi e Fernandel per la serie di Don Camillo, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia; o due innamorati litigiosi o contrastati ma poi pronti a ritrovare l'intesa, in genere non troppo giovani, William Powell e Myrna Loy, Spencer Tracy e Katharine Hepburn, Fred Astaire e Ginger Rogers, in Italia Vittorio De Sica e Giuditta Rissone, Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Il botta e risposta dei comportamenti e quindi degli effetti può essere entusiasmante. Talune coppie rimangono nel ricordo e nel rimpianto del pubblico dopo un'unica apparizione, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in Casablanca (1942) di Michael Curtiz, Claudette Colbert e Clark Gable in It happened one night (1934; Accadde una notte) di Frank Capra. In vista di contraddizioni fatali si combinano coppie male assortite, Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in Il sorpasso (1962) di Dino Risi, Marlon Brando e Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci ('lui', si dice, avrebbe dovuto essere Trintignant).La quota crescente di permissivismo ha fatto sì che le attrici recitino nude, o più precisamente recitino il loro nudo; i preliminari dell'amplesso diventano espliciti, sui primi piani l'intera gamma del piacere si legge fino all'orgasmo, il letto è sempre più un palcoscenico su cui il corpo intero agit histrionem, il pornografico è un genere sempre meno a parte, uno scandalo Mae West non avrebbe più possibilità di esistere.Nella r. si rispecchiano le conquiste dei diritti civili e umani: a varie categorie di esclusi (coloureds, omosessuali, portatori di handicap) il cinema ha aperto le vie della protesta. Entro l'omologazione sono ancora distinguibili i 'modi' nazionali; il doppiaggio amalgama un volto e una voce sganciando il lavoro interiore, che ha presieduto alla mimica, dalla componente orale, che anch'essa ne nasceva, unità ricomposta nelle proiezioni in lingua originale.Le modalità della r. cinematografica hanno consentito all'attore comico di passare dalla maschera ai personaggi portando in ciascuno di essi l'eco e il peso di ciò a cui l'artista ha fatto affezionare il pubblico. Charlot il vagabondo immortale si trasforma nell'ermetico Monsieur Verdoux mortale anzi giustiziato, l'impassibilità di Buster Keaton si trasferisce nella beckettiana assenza di perché, Totò sempre vincitore per incoscienza si scopre semifilosofo rassegnato in Uccellacci e uccellini (1966) diretto da Pasolini.A differenza di una persistente vivacità delle opinioni in campo teatrale, ereditata dagli anni Sessanta/Ottanta del 19° sec., l'approccio teorico alla r. cinematografica dopo la fine della Seconda guerra mondiale è sembrato attraversare una fase di disinteresse o di stallo, accusando la prevalenza di fattori come le classifiche degli incassi, il battage dei press agent, l'attribuzione dei premi, la quasi rassegnazione al non/recitare contrabbandato dai serial televisivi, e tanto altro. Non potevano non far eccezione i francesi, in primo luogo con i "Cahiers du cinéma". Osservazioni utili anche sul tema della r. cinematografica si trovano in Pour un cinéma comparé: influences et répétitions (éd. J. Aumont, 1996, atti di una serie di conferenze tenutesi nel 1995-96 presso il Collège d'histoire de l'art cinématographique della Cinémathèque française).A proposito delle maggiori svolte stilistiche nelle cinematografie mondiali, resta comunque inevitabile sottolineare come il loro succedersi abbia dato luogo ad altrettanti riconoscibili modi di r. guidati dai registi creatori o assimilatori. E ciò è tanto più vero in quanto la r. deve raccontare sentimenti privati o entrare nei conflitti collettivi, privilegiare la psicologia o l'azione, girare dentro o fuori dai teatri di posa. Anche se i grandi cambiamenti sono meno identificabili nella r. che negli aspetti tecnici o narrativi, dove è in discussione l'essenza del linguaggio, non risultano certo meno importanti e risolutivi (v. attore e attrice).