Muto e sonoro
Nel 1975 François Truffaut intitolava Le grand secret la sezione di Les films de ma vie "consacrata a registi che hanno cominciato la loro carriera con il cinema muto e l'hanno proseguita con il sonoro" (trad. it. 1978, p. 33). Benché l'autore non si preoccupi di rivelare al lettore l'esatta natura di questo segreto, limitandosi ad affermare che i cineasti in questione "hanno qualcosa in più", il suo assunto richiama un'idea diffusissima nei primi anni del sonoro tra i detrattori della nuova invenzione e fatta propria da una parte consistente della critica e della storiografia successiva: quella secondo cui, per il cinema, l'acquisizione della tecnologia del suono sul piano estetico avrebbe rappresentato una perdita, un impoverimento. Il mito nostalgico del cinema muto, vissuto come una sorta di stato di perfezione edenica della settima arte cancellato bruscamente dal peccato originale del sonoro, riaffiora in modo esplicito anche in studi recenti. È il caso, per es., del saggio di N. Burch dedicato alle "origini del linguaggio cinematografico", in cui l'autore scrive: "Con l'avvento del suono sincronizzato il cinema, nella sua dimensione culturale, guadagnò nuovi mezzi d'espressione; nella sua dimensione sociale, nuovi mezzi di controllo o di mobilitazione. Ma ci fu anche qualcosa che andò perduto. Gli interessi economici che determinarono l'improvvisa irruzione del sonoro interruppero brutalmente, infatti, un 'linguaggio muto' in fase propulsiva […]. Il cinema perse qualcosa anche perché il logocentrismo dei primi anni Trenta disorientò e demoralizzò profondamente un'intera generazione di creatori eccezionali, […] condannando chi al silenzio, chi alla volgarità" (1990; trad. it. 1994, p. 243). Si trova qui condensata una tesi formulata all'epoca dell'avvento del sonoro e tramandata poi dalla vulgata storiografica fino a divenire un luogo comune tanto più radicato e longevo quanto più ribadito in modo acritico, eludendo ogni revisione o verifica: quello secondo cui l'introduzione del suono non risponderebbe a un'esigenza 'interna' del cinema come arte, ma sarebbe il frutto di una decisione 'esterna' imposta autoritariamente ai cineasti dell'epoca dall'industria cinematografica. È superfluo sottolineare l'inconsistenza di un simile approccio, basato su una contrapposizione manichea fra arte e industria ‒ o fra stile e tecnica ‒ che risulta del tutto inadeguata per lo studio di un fenomeno come il passaggio dal muto al sonoro. Mentre occorre rifiutare con forza il pregiudizio anacronistico e falso di una presunta superiorità del muto sul sonoro, giustificato in passato da una conoscenza lacunosa del cinema anteriore agli anni Trenta. Se fino agli anni Sessanta gli addetti ai lavori potevano accedere a un corpus estremamente ristretto e selezionato di capolavori indiscussi (i classici dell'Espressionismo tedesco, della scuola sovietica, della slapstick comedy hollywoodiana o dell'avanguardia francese), l'intenso lavoro di ritrovamento e restauro compiuto a partire dalla fine degli anni Settanta dalle cineteche in tutto il mondo ha riportato alla luce anche film di più modeste ambizioni, dimostrando che la produzione media del periodo del muto è talora non meno sprovvista di autentici valori visivi di quella successiva alla svolta del cinema sonoro.
Emerge dal confronto fra le diverse lingue una forte incertezza terminologica nella denominazione dei due oggetti che in italiano si è soliti designare mediante gli aggettivi muto e sonoro. Se gli anglosassoni, adottando l'opposizione silent/sound (silenzioso/sonoro), pongono come discriminante la presenza o l'assenza del suono in generale, i francofoni privilegiano invece la parola fra le altre componenti della colonna sonora, contrapponendo il film muto al film parlato (muet/parlant). Meno coerentemente le altre principali lingue europee optano per un'indebita sintesi fra le due dicotomie, accostando in una stessa coppia oppositiva due termini ‒ muto e sonoro ‒ che dal punto di vista semantico non sono in senso stretto dei contrari (a meno di non voler interpretare l'aggettivo muto in senso lato come privo di suoni, e quindi silenzioso): è il caso dell'italiano, ma anche dello spagnolo (mudo/sonoro), del tedesco (Stummfilm/Tonfilm) e del russo (nemoj fil′m/zvukovoj fil′m). Opponendo il silenzio al sonoro, la coppia proposta dal lessico anglosassone porge subito il fianco a una sensata obiezione: fin dai primi tempi le proiezioni cinematografiche erano accompagnate quasi sempre da eventi acustici prodotti dal vivo (musica, parole, rumori), cosicché la nozione di uno spettacolo silenzioso sembra ridursi a una pura astrazione, che non trova pressoché alcun riscontro nell'esperienza concreta del pubblico. Contrapponendo il dialogo sincrono alla sua assenza, la coppia utilizzata dal francese pone invece l'accento su un dato storico inconfutabile, ovvero l'assoluto primato nella gerarchia degli elementi acustici conquistato fin dai primi anni dall'elemento verbale. Anch'essa, tuttavia, non soddisfa per il suo eccessivo verbocentrismo, che riduce l'intera novità della rivoluzione del sonoro all'introduzione del dialogo, trascurando l'apporto in molti casi decisivo del suono non verbale. Ne era del resto pienamente consapevole il regista René Clair, che in un articolo del 1929 scriveva: "Sul film sonoro si concentrano le ultime speranze dei partigiani del cinema senza parole. Sperano di scongiurare attraverso di esso il pericolo rappresentato dall'avvento dei talkies. Vogliono credere che questi rumori e questi suoni che accompagnano l'immagine animata distrarranno sufficientemente la folla dal reclamare il dialogo, offrendole un'illusione di realtà meno pericolosa per l'arte delle immagini del film parlato" (in Clair 1970, p. 197). Qui i termini film sonore e film parlant non sono usati evidentemente come sinonimi, ma servono piuttosto a designare due oggetti nettamente distinti. Infatti il secondo si riferisce ai film provvisti di dialogo sincrono registrato in presa diretta (detti all'epoca talkies negli Stati Uniti), mentre il primo viene riservato alle pellicole dotate di musica e rumori postsincronizzati ma sprovviste totalmente di dialogo, frequenti durante il periodo di transizione.
Così, se l'opposizione muto/sonoro stabilisce uno spartiacque fra due epoche della storia della settima arte, segnando al tempo stesso l'avvento di un nuovo tipo di cinema, la coppia sonoro/parlato, benché oggi caduta in disuso, sottolinea a sua volta l'esistenza all'interno di esso di due diversi orientamenti teorico-pratici ‒ o, se si vuole, di due diverse estetiche ‒ presenti fin dai tempi della sua apparizione: da una parte una 'corrente' di maggioranza, rappresentata al meglio dal cinema classico degli anni Trenta-Quaranta, che sceglie di subordinare ogni altro suono alle esigenze del verbo, facendone il baricentro strutturale della messa in scena visiva e sonora, dall'altra una tendenza minoritaria, ma non per questo trascurabile (si pensi a un film come 2001: a space odyssey, 1968, 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick), che tende a ridimensionare la parola e ad accordare pari dignità alle componenti non verbali della colonna sonora, ispirandosi a un modello di cinema più autenticamente audiovisivo.
L'opposizione muto/sonoro introduce nella breve storia della settima arte una frattura del tutto specifica, tracciando un discrimine fra due epoche che non ha equivalenti nel percorso evolutivo delle arti precedenti e che interferisce in maniera talora imbarazzante con i criteri di periodizzazione tradizionali adottati comunemente dagli storici. Essa pone l'accento, innanzitutto, sul ruolo peculiare e decisivo svolto nell'evoluzione del cinema dall'innovazione tecnologica: nella stessa architettura moderna, l'arte che sotto questo aspetto gli è più prossima, l'avvento di nuove tecnologie e di nuovi materiali non ha scisso nella nostra percezione due classi di oggetti distinti come lo sono anche per lo spettatore più incolto i film muti e i film sonori. E se in ambito pittorico la scoperta del dipinto su supporto mobile ha dato invece origine all'opposizione quadro/affresco, la sua diffusione non ha certo causato un immediato declino della pittura murale, che ha continuato per secoli a convivere pacificamente con la pittura su legno o su tela, rendendo tale distinzione inutilizzabile ai fini di una periodizzazione della storia dell'arte.
Lo stesso si può dire in ambito cinematografico a proposito di ogni altra innovazione tecnologica precedente o successiva all'avvento del sonoro, ivi compresa l'affermazione del colore: benché nella percezione del pubblico la nozione di film in bianco e nero, in modo analogo a quella di film muto, definisca un oggetto specifico formalmente diverso dal film tout court (sonoro e a colori) e proprio di uno stadio anteriore, divenuto obsoleto, dell'evoluzione del cinema, il carattere lento e graduale della transizione fra i due sistemi non consente una periodizzazione della storia della settima arte su basi cromatiche. Tuttavia ciò che distingue l'avvento del sonoro da ogni altra trasformazione tecnologica introdotta nel cinema non è solo il carattere rapido e definitivo della sua affermazione, con la cesura storica circoscritta e databile che tale cambiamento comporta, ma anche (e soprattutto) la natura peculiare di tale innovazione. Infatti il tratto specifico dell'opposizione fra muto e sonoro è quello di operare tanto sul piano sincronico quanto sul piano diacronico, dividendo la storia del cinema in due epoche e isolando al contempo due diversi 'oggetti semiotici'. Laddove l'invenzione della pellicola pancromatica, del Technicolor, del cinema in 3D o del Cinemascope (al pari di quella del Dolby per il suono) si limitano a potenziare le capacità espressive e mimetiche dell'immagine cinematografica, l'avvento del sonoro introduce nel cinema una nuova componente, modificando la definizione percettiva del mezzo ‒ divenuto da visivo audiovisivo ‒ e di conseguenza il suo statuto semiotico, nonché la sua originaria posizione all'interno del 'sistema delle arti'.
Non sorprende quindi che un fenomeno così inedito risultasse bizzarro e scandaloso per i pionieri della teoria del cinema, che si sforzavano di adattare i principi dell'estetica tradizionale alle esigenze del nuovo mezzo d'espressione. Per es. già nel 1916 Hugo Münsterberg, criticando i primi tentativi di sincronizzare il proiettore con il fonografo, sostiene che la presenza del parlato "infastidisce quanto il colore nei drappeggi di una statua di marmo", mentre afferma a proposito del ricorso a rumoristi durante le proiezioni di film muti: "Potremmo, allo stesso modo, per migliorare il dipinto di un giardino di rose, cospargerlo di profumo alla rosa, perché chi lo guarda possa anche sentirne l'odore" (trad. it. 1980, pp. 110-12). Concetto ribadito anche da Rudolf Arnheim, che ancora nel 1933, quando il suono si era ormai affermato in tutto il mondo, dichiarò: "Quelli che non capivano niente dell'arte cinematografica parlavano del silenzio come di una delle sue deficienze più gravi; e sono quegli stessi che considerano oggi l'introduzione del sonoro come un miglioramento o un completamento del film muto. Il che è altrettanto assurdo come sostenere che l'invenzione della pittura a olio tridimensionale rappresenterebbe un progresso sui principi della pittura noti sinora" (in Arnheim 1957; trad. it. 1960, 1983², p. 96).
Qual è stato l'approccio della riflessione sul cinema nei confronti del passaggio dal muto al sonoro? Schematizzando molto, si può affermare che il dibattito dell'epoca era incline a enfatizzare le differenze esistenti fra i due mezzi d'espressione, laddove gli studi più recenti tendono invece a sottolinearne gli elementi di continuità, con l'effetto di ridurre almeno in parte la portata 'rivoluzionaria' dell'introduzione del suono. Così, se alla fine degli anni Venti il critico francese Alexandre Arnoux si chiedeva se la 'selvaggia invenzione' avrebbe provocato una seconda nascita del cinema oppure la morte definitiva della settima arte, anche i meno numerosi apologeti del sonoro descrivevano il suo avvento come una rottura netta e radicale con la tradizione precedente. Con il passare del tempo, tuttavia, i protagonisti del dibattito tesero progressivamente ad attenuare l'idea di un'estraneità radicale fra i due periodi, leggendo l'introduzione dell'elemento acustico nel quadro di un processo evolutivo generale del linguaggio cinematografico. Così, se ancora nel 1949 Béla Balázs affermava che il film sonoro non costituisce "un'evoluzione organica del film muto", ma piuttosto una nuova forma d'arte "che ha leggi diverse e ottiene diversi effetti" (trad. it. 1952, p. 259), una decina di anni prima Sergej M. Ejzenštejn, in Montaž '37, aveva elaborato un ambizioso modello diacronico che rendeva conto dello sviluppo della settima arte dal suo stadio iniziale (il cinema 'della ripresa da un unico punto') a quello conclusivo, rappresentato dal film sonoro, passando per il cinema di montaggio degli anni Venti (o 'dei punti di ripresa che si succedono'). Nel quadro di tale processo l'acquisizione della componente acustica risulta una tappa necessaria dell'evoluzione del cinema, descritta attraverso il modello in tre stadi (tesi/antitesi/sintesi) della dialettica hegeliana. Ecco allora che, secondo il regista sovietico, mentre la scoperta del montaggio aveva portato alla frammentazione del piano unico delle vedute Lumière in una successione di inquadrature, l'introduzione del suono ‒ interpretata all'epoca da molti come una regressione alla staticità primitiva ‒ realizza in realtà al tempo stesso il superamento e la sintesi delle due fasi precedenti in una nuova unità dinamica, fondata sulla relazione 'verticale' fra colonna sonora e colonna visiva.
Ma fu soprattutto il critico francese André Bazinche nel secondo dopoguerra, identificando il principio ispiratore dell'invenzione del cinema con il mito del realismo integrale, descrisse l'avvento del sonoro non già come un processo involutivo, bensì come un arricchimento conforme alla natura del mezzo. La riflessione di Bazin ha avuto senz'altro il merito di sgombrare il campo del dibattito teorico da qualsiasi pregiudizio residuo circa una presunta superiorità del film muto. Il suo gesto, riscattando pienamente il film sonoro, finiva tuttavia paradossalmente per negarne ogni tratto specifico e ogni novità radicale. Così, in uno dei suoi scritti più celebri, il critico francese si chiede "se la rivoluzione tecnica introdotta dalla pista sonora corrisponda esattamente a una rivoluzione estetica", per concludere che "la storia del cinema non lascia apparire una soluzione di continuità così decisa come potrebbe credersi fra il muto e il sonoro" (1958; trad. it. 1979, p. 75). Egli infatti preferisce sottolineare l'esistenza di due opposte 'fazioni' rintracciabili in entrambi i periodi: quella dei cineasti che 'credono nell'immagine' e quella dei cineasti che invece 'credono nella realtà'. Soltanto per i primi, ovvero per i fautori di un cinema fondato sulla manipolazione espressiva attraverso il montaggio del materiale girato, l'introduzione del suono avrebbe rappresentato un evento realmente traumatico, laddove i secondi attendevano "il realismo sonoro come naturale prolungamento" (p. 90).
Dagli anni Cinquanta in poi, negli studi sul cinema, l'idea di una continuità sostanziale ha preso il posto di quella di una discontinuità radicale. Così, per es., invece che alla discriminante muto/sonoro, la storiografia preferisce ormai appellarsi all'opposizione primitivo/ classico. Talora del tutto esplicitamente, come nei lavori di D. Bordwell sullo stile hollywoodiano, talora in maniera più implicita, come in quello di N. Burch sul cinema delle origini, la classicità è presentata come un continuum omogeneo che include l'ultimo quindicennio del muto e il primo trentennio del sonoro, gettando un solido ponte ‒ per citare ancora Bazin ‒ "al di sopra della fenditura degli anni Trenta".Continuità o cambiamento dunque? Evidentemente la domanda non consente una risposta netta in un senso o nell'altro. L'avvento del cinema sonoro non comportò affatto, come alcuni temevano, un totale azzeramento dei codici tecnico-stilistici elaborati all'epoca del muto. Nella maggior parte dei casi i film continuarono a essere realizzati da registi, operatori e montatori 'alfabetizzati' negli anni Venti, che adattarono il loro bagaglio di competenze alle nuove esigenze del suono. Nondimeno è innegabile che la tecnologia del sonoro abbia trasformato il linguaggio cinematografico più profondamente di quanto affermi Bordwell: l'apporto della parola, oltre a rivoluzionare lo stile di recitazione dell'attore, ha incrementato le risorse narrative del cinema; il suono sincrono ha imposto infatti i propri tempi e i propri ritmi, modificando la messa in scena visiva; la musica, non più soggetta alla precarietà dell'esecuzione dal vivo, è divenuta una componente stabile del film; i rumori hanno ulteriormente rafforzato l'illusione di realtà creata dalle immagini in movimento. L'intero processo creativo, dalla sceneggiatura fino al montaggio, ha subito profondi mutamenti.
Il luogo comune storiografico secondo cui il cinema sarebbe sempre stato sonoro rischia di risultare fuorviante nella misura in cui non tiene conto della innovazione capitale introdotta dall'industria hollywoodiana alla fine degli anni Venti: la fissazione del suono cinematografico su supporto di registrazione sincronizzato alla colonna visiva, una trasformazione tecnologica destinata a modificare la stessa definizione mediologica del cinema. Sebbene nel periodo del muto lo spettacolo cinematografico prevedesse di norma la presenza di un'integrazione sonora eseguita in sala, fornita in primo luogo dalla musica, ma talora anche da rumori o da un commento verbale, è arduo sostenere che tali elementi facessero parte stabilmente del film inteso come opera o come testo. In primo luogo nel cinema muto l'immagine e il suono partecipavano di due forme di testualità profondamente diverse. Al contrario della colonna visiva, forma chiusa e fissata una volta per tutte, l'accompagnamento sonoro era invece soggetto alle condizioni variabili dell'esecuzione dal vivo e trascinava parte dello spettacolo sul terreno delle arti performative. In secondo luogo tale accompagnamento intratteneva un rapporto oltremodo precario con le immagini che commentava: la musica stessa, presenza pressoché obbligatoria dall'epoca dei fratelli Lumière, poteva in linea di principio cambiare ogni volta a seconda delle decisioni del musicista o della disponibilità economica dell'esercente (e questo anche quando il film possedeva una partitura 'ufficiale'). Benché così importante nel favorire la fruizione del film muto, sottolineando il ritmo del montaggio, intensificando il contenuto emotivo delle immagini e mantenendo viva l'attenzione del pubblico, l'accompagnamento dal vivo non faceva parte a pieno titolo dell'opera cinematografica. Semplificando molto, è possibile definire il film muto un testo visivo che prevedeva, al momento della sua presentazione al pubblico, una integrazione sonora.Soltanto l'impiego da parte del cinema delle tecnologie di registrazione pose fine al divario esistente nel periodo del muto fra testo filmico e spettacolo cinematografico. Il suono ‒ dapprima inciso su dischi di fonografo (come prevedeva il sistema Vitaphone, adottato nel 1926 dalla Warner Bros.), poi impressionato direttamente sulla pellicola secondo il metodo 'ottico', che si sarebbe imposto universalmente negli anni Trenta ‒ venne sottratto alle condizioni variabili della performance dal vivo per condividere lo stesso statuto riproduttivo della colonna visiva. Sincronizzata stabilmente e definitivamente alle immagini, la colonna sonora divenne finalmente a pieno titolo una componente dell'opera. Quando si afferma che lo spettacolo cinematografico è stato fin dal principio audiovisivo, bisogna dunque precisare che il testo filmico lo divenne soltanto alla fine degli anni Venti. La storiografia non ha finora sufficientemente insistito sull'importanza di questo duplice gesto di inclusione e di esclusione ‒ di appropriazione della componente sonora e di espulsione definitiva dalla sala di qualsiasi presenza residuale di attività performative ‒ attraverso il quale il nuovo cinema degli anni Trenta ripudiò definitivamente le pratiche spettacolari, prevalentemente popolari, con cui aveva intrattenuto un intenso commercio nella sua fase precedente. Del resto, la fissazione del suono su supporto di registrazione porta a compimento un processo più ampio iniziato molto prima e tendente a una progressiva standardizzazione dello spettacolo cinematografico.
L'avvento del sonoro deve quindi essere interpretato prima di tutto come il punto di arrivo di un processo più generale tendente ad appianare il divario fra testo e spettacolo previsto dal sistema del muto a favore della chiusura testuale, spogliando il corpo del film di tutti gli elementi non riprodotti tecnicamente o annettendoli a esso: la colorazione artigianale della pellicola, il commento verbale dell'imbonitore, l'accompagnamento musicale eseguito in sala, l'impiego di rumoristi presi a prestito dal teatro, le presentazioni e i monologhi dal vivo che ancora negli anni Venti precedevano le proiezioni nelle sale di prima visione e che sarebbero stati sostituiti da materiale ugualmente filmato: trailer, notiziari, cortometraggi, cartoons.
La registrazione e la sincronizzazione dell'accompagnamento musicale dal vivo delle proiezioni 'silenziose' non costituirono certamente di per sé un'innovazione radicale. È lecito anzi affermare che l'impiego massiccio dell'orchestra da parte del cinema sonoro costituì un retaggio del periodo del muto: se non avesse avuto alle spalle trent'anni di intenso connubio con partiture, cue sheets e musicisti di sala, forse il nuovo mezzo cinematografico avrebbe riservato alla musica il ruolo marginale che occupava in altre forme di spettacolo contemporanee, come per esempio il teatro di parola incentrato sulla recitazione e sul testo. Assoggettato dall'introduzione del dialogo alla tirannia del tempo reale, il film sonoro, come osserva M. Chion, "erediterà fortunatamente dal cinema muto una meravigliosa macchina per fermare, dilatare o contrarre la durata: la musica" (1985, p. 60).
Con l'avvento del sonoro la presenza e il ruolo della musica sembrarono subire al tempo stesso una riduzione e un rafforzamento. Una riduzione perché l'accompagnamento continuo delle proiezioni del muto ‒ riproposto in forma registrata in Don Juan (1926; Don Giovanni e Lucrezia Borgia) di Alan Crosland e negli altri film postsincronizzati distribuiti negli anni successivi ‒ tese a scomparire quasi del tutto nei primi talkies, per poi essere reintrodotto nel corso degli anni Trenta con il modo di presenza discontinuo proprio della classicità del sonoro, dove la musica interviene normalmente soltanto su alcune sequenze, mentre in altre è costretta a tacere per dare spazio alla parola o ai rumori. Un rafforzamento perché il suono riprodotto, oltre a garantire un sincronismo più esatto fra immagini e musica e quindi una maggiore aderenza della partitura all'azione, ne legò indissolubilmente il destino a quello del film. Non deve allora stupire che il cinema sonoro abbia incoraggiato assai più del cinema muto collaborazioni proficue fra cineasti e compositori di talento (si pensi ai connubi Ejzenštejn-Prokof′ev, Hitchcock-Herrmann, Antonioni-Fusco, Fellini-Rota, Leone-Morricone o Burton-Elfman), contribuendo a un miglioramento complessivo della qualità e dell'efficacia delle partiture. Infatti, nonostante la sua presenza continua, che sopprimeva totalmente il silenzio, la musica di accompagnamento per film muti ‒ come spiega Chion ‒ era in realtà organizzata in maniera episodica o 'sequenziale'. Consisteva cioè nella maggior parte dei casi in una compilazione di brani autonomi (poco importa se originali o preesistenti) destinati a commentare, una dopo l'altra, le sequenze del film. Al contrario nel cinema sonoro le partiture, benché discontinue, cominciarono a ubbidire a regole compositive più complesse, che contemplano ripetizioni e variazioni di temi ricorrenti: si pensi alla tecnica wagneriana del leitmotiv, introdotta nella musica per film negli anni Trenta da Max Steiner e dagli altri musicisti hollywoodiani (v. colonna sonora, compositore, musica).
Se nel cinema sonoro la musica extradiegetica (esterna all'azione) si fa erede di alcune funzioni dell'accompagnamento musicale dal vivo del cinema muto, al contrario la possibilità di sfruttare pienamente gli eventi musicali diegetici (vale a dire appartenenti allo spazio in cui si muovono i personaggi del film) costituisce senz'altro la principale innovazione introdotta in questo campo dall'avvento del sonoro. Già in The jazz singer (1927; Il cantante di jazz) il regista Alan Crosland esibisce il perfetto sincronismo labiale fra la voce del protagonista Al Jolson e le immagini che riprendono le sue performances canore, lasciando intuire immediatamente le inedite possibilità di sviluppo del genere musicale nelle sue numerose varianti (operetta, musical, film concerto, film opera ecc.) e aprendo le porte degli studios a una nuova schiera di attori-cantanti divisi fra Hollywood, lo show business e l'industria discografica. È noto del resto che i produttori della Warner Bros., inconsapevoli delle potenzialità del parlato, pensavano inizialmente al sistema Vitaphone come una sorta di estensione visiva del fonografo, ovvero una tecnologia per registrare e diffondere la performance musicale. Se il modello narrativo di finzione, potenziato dall'introduzione del dialogo, avrebbe avuto ‒ come è noto ‒ il sopravvento, i primi shorts realizzati nel 1926 dallo studio, filmando esibizioni di concertisti e di cantanti, rivelavano una possibilità preclusa al cinema muto, ossia quella di riprodurre l'evento musicale (poco importa se 'autentico' o simulato) nella sua piena dimensione audiovisiva.
Nel 1930 il teorico ungherese B. Balázs sosteneva che il cinema sonoro sarebbe stato in grado di farci conoscere meglio l'ambiente acustico, nello stesso modo in cui il cinema muto aveva approfondito e raffinato la nostra conoscenza del visibile. "Il film sonoro ‒ scriveva ‒ scoprirà il mondo acustico che ci circonda. […] Dal muggito delle onde al frastuono delle fabbriche, fino alla monotona melodia della pioggia autunnale sulle finestre, fino allo scricchiolio del pavimento di una stanza abbandonata" (trad. it. 1975, p. 141). Apparentemente alcuni prodotti di quegli anni lasciavano ben sperare: se i film muti sincronizzati a posteriori venivano arricchiti di effetti sonori per supplire all'assenza della parola, i registi più inventivi tentavano di mitigare la verbosità dei primi talkies valorizzando in alcuni passaggi la dimensione del rumore; e vi era perfino chi, come il regista Raoul Walsh per il western In old Arizona (1929; Notte di tradimento), codiretto con Irving Cummings, sfidava le difficoltà determinate all'epoca dalla presa diretta in esterni allo scopo di ottenere una resa realistica dei suoni ambientali. Tuttavia la profezia di Balázs sarebbe rimasta per più di due decenni disattesa. Infatti nel cinema classico la sovranità attribuita alla parola, insieme alla tendenza della musica a coprire quasi tutti i passaggi non dialogati e alla presenza di alcune oggettive limitazioni tecnologiche, avrebbe finito per relegare l'elemento non verbale e non musicale in una posizione del tutto subalterna e negletta, dove la stilizzazione e la routine avrebbero regnato sovrane, scoraggiando a lungo le ricerche originali.Se si escludono alcuni filoni importanti ma comunque marginali (come quello del cinema d'animazione, caratterizzato da un'inesauribile inventiva nell'uso degli effetti sonori), per assistere a un'adeguata valorizzazione del rumore sarebbe stato necessario attendere le due più importanti innovazioni della storia del cinema sonoro dopo l'introduzione all'inizio degli anni Trenta del missaggio, ovvero la 'rivoluzione' del cinema diretto e l'adozione del suono stereofonico. Se infatti i documentaristi degli anni Sessanta utilizzarono per la prima volta il magnetofono allo scopo di registrare in presa diretta il suono autentico, influenzando in parte anche i registi di finzione nella ricerca di un maggiore realismo, e quindi di un paesaggio sonoro in cui la parola fosse a tratti sommersa dagli altri rumori, a partire dagli anni Cinquanta il graduale miglioramento della qualità della riproduzione acustica e il progressivo abbandono del tradizionale sistema monofonico hanno consentito di ottenere una resa molto più ricca, sottile ed efficace dei rumori necessari all'azione, favorendo l'affermazione di vere e proprie figure autoriali (si pensi a un sound engineer come Walter Murch).
Esiste in molti classici del muto una certa disparità fra l'alto grado di elaborazione formale della messa in scena visiva e lo schematismo ideologico, psicologico e narrativo dell'intreccio, spesso debitore degli archetipi della letteratura popolare. Residuo, questo, delle origini popolari dello spettacolo cinematografico che l'avvento del sonoro, attraverso l'imposizione dei modelli del teatro e del romanzo borghese, avrebbe contribuito indirettamente a cancellare, ma anche conseguenza diretta della natura del medium; impossibilitati a trarre pienamente vantaggio dalle risorse della parola, i cineasti del muto erano costretti a ripiegare su forme di narrazione a essi più congeniali: dalle parabole simbolico-esistenziali predilette dall'Espressionismo tedesco agli apologhi di propaganda politica cari alla scuola sovietica, dal racconto fondato sulla pura accumulazione delle gag della slapstick comedy al rifiuto della forma narrativa teorizzato e praticato da molti cineasti d'avanguardia. Del resto le onnipresenti didascalie, schegge di scrittura conficcate nel corpo di un testo che i fautori del cinema puro pretendevano non verbale, dimostravano con la loro stessa esistenza l'incompletezza congenita dei codici visuali del cinema muto, costretto ‒ volente o nolente ‒ ad appoggiarsi a un puntello verbale. Di tutto ciò, del resto, alcuni cineasti del muto erano pienamente consapevoli. Il celebre manifesto Buduščee zvukovoj fil′my. Zajavka (Il futuro del sonoro. Dichiarazione), firmato nel 1928 da Ejzenštejn, Vsevolod I. Pudovkin e Grigorij V. Aleksandrov, che sotto altri aspetti si dimostrano assai critici nei confronti della nuova invenzione, su questo punto non potrebbe essere più esplicito: "Di giorno in giorno i temi dei soggetti diventano sempre più complessi; e i tentativi fatti per risolverli con mezzi unicamente figurativi o sono rimasti insoluti o hanno portato a un simbolismo troppo fantasioso. Il suono […] introdurrà invece un mezzo estremamente efficace per risolvere i complessi problemi contro i quali urtava la realizzazione per l'impossibilità di trovare loro una risoluzione mediante i soli mezzi visivi" (trad. it. in Ejzenštejn 1986, p. 270). Due anni dopo un altro veterano del muto, il francese Jacques Feyder, si spingeva anche oltre, affermando che il film 'silenzioso' era un medium inadatto ad assolvere il compito di tipo narrativo che gli era stato assegnato e capace di mettere in scena unicamente vicende elementari, nobilitate da un grande dispiego di artifici visivi che costituivano a suo avviso l'unica autentica attrattiva di questa forma d'espressione (cfr. Feyder 1930).
Effettivamente l'impiego del dialogo sincrono costituisce la conseguenza dell'introduzione del suono di gran lunga più rilevante: lo capivano bene coloro che contrapponevano il film sonoro al film parlato, tollerando la presenza di musica o rumori registrati e condannando invece senza appello il ricorso all'elemento verbale. Esso infatti potenziava enormemente le risorse del linguaggio cinematografico, ma a un prezzo ritenuto troppo alto per l'arte dell'immagine in movimento: quello di rendere la parola l'asse portante della significazione filmica, rinunciando all'ideale di purezza visiva coltivato da alcuni in precedenza. Tuttavia non vi è dubbio che l'avvento del sonoro abbia trasformato il cinema in un'arte narrativa più completa e matura, dando inizio a un processo che si può suddividere schematicamente in due fasi distinte. A uno stadio iniziale, corrispondente al primo decennio del sonoro e caratterizzato da una concezione della messa in scena ancora fortemente dipendente dal modello teatrale, sarebbe infatti seguita una seconda fase inaugurata ufficialmente nel 1941 da Citizen Kane (Quarto potere) di Orson Welles e contraddistinta da un impiego più libero della componente verbale. Dagli anni Quaranta in avanti si sarebbe assistito infatti alla progressiva immissione nel cinema sonoro di modelli romanzeschi, riscontrabile da una parte in una marcata tendenza alla soggettivazione del racconto, che avrebbe impiegato in modo frequente l'espediente della prima persona letteraria, dall'altra nella predilezione per intrecci cronologicamente non lineari, ottenute utilizzando il procedimento del flashback. Opzioni rese entrambe possibili dalla scoperta importantissima dell'artificio della voice over, attraverso cui la parola si sarebbe liberata dai vincoli dello spazio in cui si muovono i personaggi del film per divenire agente autonomo di narrazione.
Una conseguenza importante dell'avvento del sonoro consiste nella stabilizzazione della velocità di registrazione e di lettura delle immagini in movimento. Infatti, come si è detto, i proiezionisti potevano accelerare o rallentare a piacere lo scorrimento dei film muti, mentre il suono ha imposto la velocità fissa di 24 fotogrammi al secondo, indispensabile per mantenere il sincronismo con la colonna sonora senza distorcerla grottescamente.Se tale fenomeno ha sicuramente contribuito a imporre una nuova percezione della durata, ben più importante è da considerarsi l'apporto della componente verbale. Infatti la scoperta del montaggio aveva consentito ai cineasti del muto l'impiego di uno stile molto ellittico, basato su un trattamento estremamente disinvolto del tempo, che poteva essere dilatato o contratto a piacere. Al contrario la presenza del dialogo ha costretto i cineasti del sonoro a rispettare la durata e la continuità naturale delle parole e delle frasi pronunciate dai personaggi, utilizzando inquadrature più lunghe e privando il montaggio di molti dei privilegi acquisiti nel corso degli anni Venti. Incrementata nella durata e sincronizzata con il dialogo, l'inquadratura minacciava effettivamente di ritornare a essere un'unità di significato pienamente compiuta, come nei quadri 'autarchici' del cinema delle origini, e l'assemblaggio del materiale girato rischiava di perdere ogni potere autonomo di significazione, riducendosi alla pura messa in successione di tali 'blocchi' di senso. Nel corso degli anni Trenta perfino gli stessi teorici del montaggio sovrano, prendendo atto della nuova situazione, avrebbero finito per adottare una definizione allargata del procedimento, che non sarebbe stato più inteso strettamente come combinazione di piani separati, ma avrebbe esteso i propri confini fino a includere tutti gli elementi visivi e sonori in grado di realizzare una segmentazione 'interna' senza bisogno di ricorrere a cambiamenti di inquadratura. Situazione descritta molto bene da Ejzenštejn quando afferma nei suoi ultimi scritti che il 'baricentro' del montaggio visivo, costituito nel cinema muto dalla 'giuntura' tra i singoli piani, vale a dire da un elemento esterno all'immagine, con l'avvento del sonoro si è trasferito al suo interno, negli 'accenti' disseminati dentro l'inquadratura, intendendo con questa espressione sia un movimento di macchina o un gesto dell'attore sia ‒ sul piano acustico ‒ un grido, una battuta, un rumore o l'improvvisa interruzione della musica (cfr. Ejzenštejn 1964; trad. it. 1981, 1992³, p. 362). Il che equivale a dire che il taglio di montaggio, privato del suo ruolo centrale nella costruzione del senso, è divenuto uno dei possibili 'accenti' che scandiscono il continuum audiovisivo del cinema sonoro.In seguito all'introduzione del suono si assistette comunque al declino di quegli stili di montaggio caratterizzati da una frammentazione eccessiva dello spazio e del tempo o da criteri di concatenazione diversi da quello narrativo (per es., le similitudini visive utilizzate da Ejzenštejn e da altri cineasti nell'ultimo decennio del muto). Alleggerito dal peso di significare autonomamente per compensare l'assenza della parola, il montaggio nel cinema classico venne ricondotto alla sua funzione primaria di articolazione dello spazio e del tempo, che esso per di più venne chiamato a svolgere cercando di farsi notare il meno possibile, secondo l'estetica della trasparenza imperante a Hollywood. Non è ancora stato sufficientemente indagato il rapporto fra l'affermazione del cosiddetto découpage classico e la nuova concezione dello spazio e del tempo introdotta nel cinema dall'avvento del sonoro.
Assai poco studiato è stato anche il rapporto fra la scoperta dei movimenti di macchina e l'introduzione del suono. Eppure, se si escludono alcune eccezioni, tutte degli anni Venti ‒ la entfesselte Kamera di Friedrich W. Murnau e di altri registi tedeschi, le acrobazie di Abel Gance in Napoléon (1927; Napoleone) ‒ non si può certo dire che il cinema muto abbia mostrato un particolare interesse per la mobilità della cinepresa. Del resto la predilezione per un découpage frammentario, composto di inquadrature brevi e quasi sempre fisse, propria delle correnti di punta dell'ultimo decennio del muto, portava inevitabilmente a trascurare le sperimentazioni in questo campo. Al contrario i cineasti del sonoro, impossibilitati a tagliare liberamente come avveniva un tempo il materiale girato, trovarono un surrogato del montaggio nei movimenti di macchina, che consentivano di modificare le coordinate spaziali dell'inquadratura, passando dal campo lungo al primo piano o spostandosi da un dettaglio all'altro della scena, senza interrompere la continuità di ripresa e quindi in un assoluto rispetto del tempo reale. Ecco allora che alcuni film sonori 'primitivi' ‒ come l'importantissimo Applause (1929) di Rouben Mamoulian ‒ sorprendono per la presenza inaspettata di piani-sequenza con lunghi ed elaborati movimenti di macchina che sembrano anticipare le sperimentazioni wellesiane e hitchcockiane, preannunciando una nuova concezione della messa in scena in cui il virtuosismo registico non si manifesta più attraverso il parossismo del montaggio, bensì nell'abilità ‒ per usare le parole di Truffaut ‒ di "legare le cose in modo da ottenere un solo movimento" (1966; trad. it. 1985, p. 152), racchiudendo un'azione articolata e complessa in un'unica lunga inquadratura. Il principio baziniano del 'montaggio proibito', divenuto una parola d'ordine per la generazione dei cineasti europei affermatasi negli anni Sessanta, non avrebbe probabilmente visto la luce senza l'introduzione del suono.Un'altra fondamentale conseguenza dell'avvento del sonoro è la scoperta del suono fuori campo, le cui prime manifestazioni sono già rintracciabili alla fine degli anni Venti. Le risorse dello spazio situato oltre i quattro bordi dell'immagine, dietro gli elementi della scenografia e al di qua della cinepresa, erano già state sfruttate dai registi del muto, che usavano indicarlo di frequente attraverso gli sguardi dei personaggi e le loro entrate o uscite oltre i limiti del quadro. Tuttavia con il sonoro la possibilità di utilizzare voci o rumori emessi da fonti non visualizzate sullo schermo ma date come presenti nel luogo dell'azione ha contribuito a conferire un'esistenza più concreta al fuori campo, dilatando sensibilmente i confini dello spazio cinematografico. Le implicazioni del fenomeno erano chiare a René Clair, che in una recensione del musical The Broadway melody (1929) di Harry Beaumont lodava in particolare una sequenza in cui il rumore off di un'automobile era abbinato a un primo piano della protagonista alla finestra che assisteva angosciata alla partenza dell'amato, osservando che per rappresentare lo stesso evento in un film muto sarebbero state necessarie almeno due inquadrature. E vi furono perfino teorici troppo zelanti ‒ il regista Pudovkin in testa ‒ che ritenevano che il suono dovesse essere impiegato nel cinema secondo i dettami dell''asincronismo' (vale a dire dissociato programmaticamente dall'immagine: v. sincronismo e asincronismo). Non si tardò molto a comprendere, comunque, che una combinazione di suoni ambientali riconoscibili sovrapposta a un primo piano consentiva allo spettatore di localizzare il personaggio anche in assenza di un campo lungo che rivelasse lo spazio in cui era incluso. E non si tardò neppure a sfruttare la natura potenzialmente inquietante delle voci e dei rumori fuori campo per intensificare la suspense nei thriller e nei film dell'orrore. Assai prima che l'affermazione del Dolby Stereo, con i suoi numerosi altoparlanti dislocati lungo le pareti della sala, assegnasse agli eventi fuori campo posizioni reali all'esterno dell'immagine, il suono rudimentale e monofonico dei primi anni Trenta aveva già prodotto nel pubblico dell'epoca l'illusione della presenza concreta di uno spazio molto più vasto e profondo di quello visivo, segregato entro il rettangolo angusto dello schermo.
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