RECITAZIONE
(XXVIII, p. 958)
Cinematografia. - Inconfondibilmente diversa da quella teatrale, la r. cinematografica implica l'uso di risorse espressive consone alle potenzialità della macchina da presa e del montaggio. Attivando una dinamica economia del tempo e dello spazio, il linguaggio cinematografico elimina le distanze esistenti a teatro fra il pubblico e l'interprete e chiede al regista di descrivere le figure umane anche mediante dettagli del corpo. Il ricorso frequente al primo piano, mentre consente di rendere sullo schermo le più riposte emozioni e le più varie componenti psicologiche di un personaggio, esige una mimica indenne da accentuazioni. Dall'attore, altresì, si pretende un'attitudine a concentrarsi per garantire coerenza di stile e continuità logica a una prestazione che, a causa di motivi pratici, quasi mai rispetta, durante le riprese, l'ordine cronologico degli eventi rappresentati. In pieno cinema muto, la pantomima e la gestualità hanno avuto un'influenza assoluta sui modelli interpretativi, per non dire delle arti acrobatiche e circensi e dello sport. L'introduzione del sonoro e della parola ha sancito un relativo riavvicinamento alle tecniche teatrali. Non a caso, abituale è lo scambio di attori tra una forma e l'altra di spettacolo.
L'attore cinematografico. - Il cinema, agli inizi, sembra aprire le file soprattutto ai mimi, ai clown, agli attori che provengono dal circo e dalla pantomima, a chiunque si raccomandi per caratteristiche fisiche e permetta, sugli schermi, una subitanea identificazione dei tratti morali dei personaggi incarnati. A poco a poco, però, cresce l'aspirazione a un più corposo spessore narrativo; nella Francia degli anni 1908-14 il film d'art raccoglie spunti dalla tradizione letteraria e teatrale, attrae celebrità come S. Bernhardt, e altrove finisce col convertire alcuni tra i sovrani dei palcoscenici internazionali, a cominciare da E. Duse, interprete di Cenere (1916), diretto da F. Mari.
Grosso modo, fin dagli albori del 20° secolo, si delineano due tendenze: una, che fa della stilizzazione, della gestualità e del movimento l'asse dominante delle prestazioni cinematografiche; l'altra, che trae linfa dalla scuola naturalista, mira a una scavata compostezza, alla verosimiglianza dei comportamenti, privilegia il linguaggio degli sguardi, la mimica adatta a favorire scandagli nell'interiorità e a tradurre stati d'animo e psicologie. A unificare le diverse propensioni è il divismo, che trasferisce pregi e vizi, nonché modalità, dal teatro al cinema, operosa e instancabile fabbrica di miti. Dalla prima matrice discende l'attore che ha animato la produzione statunitense degli esordi, i film espressionisti nella Germania postbellica, gli avanguardismi e le eccentricità della sovietica FEKS (Fabbrica dell'attore eccentrico), mentre dalla seconda promanano le sottigliezze introspettive del Kammerspielfilm, delle opere di Stroheim e di Murnau, le potenzialità della microfisionomia teorizzata da B. Balázs, il realismo plastico in La passion de Jeanne d'Arc (1928) di C. Dreyer. Riconosciuto da V. Pudovkin come co-autore del film, l'attore è invece considerato da L. Kulešov un semplice "modello vivente", a cui solo il montaggio delle varie inquadrature avrebbe conferito ogni valore semantico. Kulešov, comunque, gli vieta di gesticolare, gli prescrive di essere parco e controllato dinanzi alla cinepresa, lo induce al controllo delle emozioni e a un trucco lieve. Sulla falsariga di Kulešov, S. Ejzenštejn a lungo se ne avvale alla stregua di un materiale plastico tra gli altri, ma ne riabilita, alla fine della carriera, le funzioni recitative in Ivan Groznyj ("Ivan, il terribile", 1944-48).
L'avvento del sonoro, dopo il 1927, restituisce all'attore voce e parola, lo riaccosta alle pratiche teatrali e radiofoniche, lo costringe al rispetto di una corretta dizione e a sfumare ancor più i toni, salvo in quei casi − Henry Vo ("Enrico v", 1944) e Hamlet ("Amleto", 1948), di L. Olivier − in cui l'origine teatrale dello svolgimento è intenzionalmente esplicitata per esigenze espressive e là dove l'impasto dei due linguaggi è perseguito dai creatori. Nel secondo dopoguerra il neorealismo italiano, riprendendo alcune esperienze compiute dai cineasti sovietici all'epoca del muto e dai registi inglesi negli anni Trenta, valorizza, in antitesi al divismo e ai convenzionalismi tipologici, una categoria di attori che, pur estranei alle tecniche della r. e alla disciplina del professionismo, sono ammirevoli per la schiettezza e la spontaneità delle apparizioni e per la perfetta aderenza fisionomica alle figure impersonate. Esemplare è la parabola di L. Maggiorani, l'operaio che De Sica sceglie per interpretare Ladri di biciclette (1948), ma che in seguito non eguaglierà quella folgorante apparizione. Successivamente, nelle componenti del film l'attore professionista avrà sempre più preminenza, e nella commedia come nel genere drammatico gli si chiederà di raggiungere una profonda verità psicologica cui avvicinarsi, non disdegnando le strumentazioni proprie della psicanalisi e conciliando le teorie di Freud e il magistero di K. Stanislavskij, com'è avvenuto all'Actors' Studio negli Stati Uniti.
L'Actors' Studio. - Fondato nel 1947 da C. Crawford, E. Kazan e R. Lewis, ha successivamente avuto in L. Strasberg un animatore instancabile e il teorico più agguerrito. Si tratta di un'alta scuola di perfezionamento per attori professionisti, un laboratorio nel quale sono state rielaborate ipotesi di lavoro attorno a cui negli anni Trenta il Group Theatre aveva riunito forze creative, tese a liberare le scene americane dalla dittatura degli intenti mercantili e da registri interpretativi convenzionali. I promotori dell'Actors' Studio, già conquistati dalle tecniche e dalle teorie messe a punto da K. Stanislavskij in Russia, le hanno innestate, modificandole e trascendendole, su un terreno più prossimo alla psicanalisi. Ne sono scaturiti un metodo e un insieme di esercizi che puntano al raggiungimento di una piena verità psicologica negli interpreti. Si stimola la memoria affettiva, grazie alla quale l'attore è indotto a rivivere proprie esperienze trascorse e a trasfonderne i sentimenti nel personaggio assegnatogli e nei dialoghi che reciterà. Secondo quanto scrive il critico statunitense H. Clurman, già collaboratore del Group Theatre, si tratterebbe non tanto di una "grammatica della recitazione", quanto addirittura di una "norma di vita", poiché l'attore, e più estensivamente qualunque soggetto, "uomo naturalmente neurotico e sofferente di angosce e repressioni di ogni genere, trova nella rivelazione di se stesso un agente purificatore. Pensa così di diventare non soltanto un migliore attore, ma un uomo migliore". Tipiche espressioni dell'Actors' Studio e dei suoi insegnamenti sono M. Brando, J. Dean, M. Monroe, P. Newman, E. Wallach, R. Steiger, campioni di una recitazione intonata a un marcato realismo psicologico, adatto a porre in mostra il sottofondo nevrotico dei caratteri e dei comportamenti.
Bibl.: L. Kulešov, Il lavoro con l'attore, trad. it., in Bianco e nero, 1 (1947); L. Chiarini, U. Barbaro, L'arte dell'attore, Roma 1950; V. Pudovkin, L'attore nel film, in La settima arte, ivi 1961; R. Tomasino, Storia della recitazione cinematografica, 3 voll., ivi 1971; AA.VV., L'attore nel cinema italiano d'oggi, in Cinecritica, aprile 1978. Per l'Actors' Studio: F. Morton, Actors' Studio, in Esquire, 12 (1956); L. Strasberg, View from the Studio, in New York Times, 2 settembre 1956; T. Richardson, The metod and why, in Sight and sound, inverno 1956-57; F.M. De Sanctis, Origini e influenze dell'Actors' Studio, in Bianco e nero, 3-4 (marzo-aprile 1960); Strasberg at the Actors' Studio, a cura di R. Hethman, New York 1965; M. Ciment, L'Actors' Studio, in Kazan par Kazan, Parigi 1973; L. Strasberg, Il sogno di una passione. Lo sviluppo del metodo, trad. it., Milano 1990.