Disciplina che studia le condizioni di validità delle argomentazioni deduttive.
I vocaboli ἡ λογική (τέχνη), τὰ λογικά si stabilizzarono nel significato di «teoria del giudizio e della conoscenza» nell’ambiente protostoico, pur conservando λογικός per tutta la grecità il valore più antico e non tecnico di «relativo al λόγος» (nelle molteplici accezioni di questa parola chiave del greco classico). Con tali termini si designarono così tanto la gnoseologia, quanto la dottrina delle forme nelle quali si muove, ragionando, il pensiero. Tale dottrina era stata, allora, grandiosamente elaborata da Aristotele; ma come questi non le aveva dato propriamente il nome di ‘l.’ (che adottarono invece più tardi i peripatetici suoi seguaci) e aveva preferito chiamarla ‘analitica’, così i problemi a cui essa rispondeva non avevano la loro genesi soltanto nel sistema aristotelico, bensì si erano venuti formando durante l’evoluzione del precedente pensiero greco.
Il primo tentativo di sistemazione in forma scientifica delle conoscenze logiche della filosofia greca nei suoi vari sviluppi (dottrina del λόγος di Eraclito, eleatismo di Zenone, dottrine eristiche dei sofisti e dialettica platonica, con la sua teoria della divisione) si ha soltanto con Aristotele. Degli scritti logici aristotelici raccolti nel cosiddetto Organon, sono rimasti: Categoriae, De interpretatione, Analytica priora, Analytica posteriora, Topica, De sophisticis elenchis. Nei Topica Aristotele tratta del ragionamento probabile, definito come quel particolare tipo di ragionamento che si basa su premesse verosimili accolte a livello di senso comune, non tali da permettere conclusioni scientificamente valide. Lo studio dei τόποι («luoghi» della disputa) dovrebbe servire a porre ordine in un campo tradizionalmente considerato dominio dei retori e dei sofisti, soggetto spesso all’arbitrio dei disputanti. La trattazione viene completata dal De sophisticis elenchis, talvolta considerato come ultimo libro dei Topica, nel quale si classificano le aporie del ragionamento e vengono conseguentemente fornite indicazioni per la loro soluzione. Nelle Categoriae, dedicate peraltro più a problemi attinenti al discorso metafisico e ontologico che a quello logico in particolare, si ha un primo elenco dei diversi tipi di nomi (univoci, equivoci, denominativi) e una distinzione delle espressioni secondo un criterio di unità proporzionale (complete e incomplete): si ritrovano poi accenni a tematiche approfondite nel De interpretatione e negli Analytica (rapporto soggetto-predicato e teoria dell’inerenza).
L’interesse del De interpretatione sta essenzialmente nella teoria della proposizione, che risulta così strutturata: essa si compone di nome e di verbo e può essere universale o particolare dal punto di vista della quantità, affermativa o negativa dal punto di vista della qualità. Se ne può inoltre affermare (della proposizione globalmente considerata e non quindi dei singoli termini che la compongono) la verità o la falsità. In questo scritto s’introduce poi anche l’importante coppia di concetti contraddittorio-contrario, che viene così precisata: si dicono contraddittorie quelle proposizioni che, pur risultando degli stessi termini, hanno diversa quantità e diversa qualità («Tutti gli uomini sono dotti»; «Qualche uomo non è dotto»), contrarie invece quelle proposizioni in cui è diversa soltanto la qualità («Tutti gli uomini sono dotti»; «Nessun uomo è dotto»). Da quanto finora esposto si desume che la coppia vero-falso è esaustiva riguardo ai valori che può assumere la proposizione; il che equivale a dire che, data una proposizione, se essa è vera, la sua contraddittoria sarà falsa (e viceversa). Questa enunciazione sul piano logico del principio fondamentale del terzo escluso è rimessa peraltro in discussione a proposito degli enunciati che trattano di eventi futuri non necessari (i cosiddetti futuri contingenti). La parte finale del De interpretatione è dedicata poi all’esame delle proposizioni modali; si tratta di proposizioni semplici (o categoriche) in cui il rapporto soggetto-predicato è ‘modificato’ da uno dei seguenti termini (modi): necessario, contingente, possibile, impossibile.
La dottrina del sillogismo trova negli Analytica priora la sua più rigorosa esposizione (nel I libro s’inserisce anche una prima trattazione del sillogismo modale). Nell’esposizione di tale dottrina Aristotele impiega lettere alfabetiche al posto di termini (in terminologia moderna, si serve cioè di variabili), determinando così l’emergere di strutture o forme logiche rigorosamente svincolate da qualsiasi riferimento al piano del significato. Negli Analytica posteriora, infine, riferendosi a questa struttura sillogistica, egli prospetta un concetto di scienza deduttiva, che è rimasto poi il punto di riferimento obbligatorio di tutta la cultura occidentale fino al 16° secolo. In base a questa concezione, sarà oggetto di scienza soltanto ciò che può essere ottenuto, conformemente alle regole del sillogismo, da principi propri di ciascuna scienza o di scienze logicamente sovraordinate a quella in questione.
L’indirizzo logico aristotelico è proseguito da Teofrasto e da Eudemo, suoi scolari; essi arricchirono la trattazione sillogistica, introducendo, oltre ai sillogismi già noti ad Aristotele, anche quelli ipotetici e disgiuntivi. Punto di arrivo di una tradizione logica non integralmente confluita nell’opera di Aristotele è la logica megarica (Eubulide, Diodoro Crono, Filone), ripresa, ampliata e definitivamente sistemata dagli stoici, che portano a compimento tra l’altro le idee dei successori di Aristotele. La logica stoica è una logica delle proposizioni, mentre la logica aristotelica è una logica dei predicati (o delle classi, non vuote), il che significa che mentre Aristotele si serve di strutture logiche in cui compaiono termini (classi) e nelle quali le variabili stanno per i termini, gli stoici individuano schemi d’inferenza, in cui gli elementi costitutivi sono le proposizioni (e le variabili quindi stanno per proposizioni). Particolare rilievo acquista la concezione cosiddetta filoniana dell’implicazione, in terminologia moderna l’implicazione materiale; l’implicazione si considera non valida solo nel caso in cui la proposizione che funge da antecedente sia vera e quella che funge da conseguente falsa.
Un altro settore di ricerca approfondito dagli stoici è quello dei problemi logico-semantici: tra il segno linguistico e l’oggetto cui questo si riferisce viene ora a interpolarsi il particolare livello ‘mentale’ del significato (λεκτόν). Notevole importanza poi è attribuita dagli stoici ai paradossi, cioè a quei tipi di ragionamento la cui struttura non permette in alcun modo di concludere validamente (paradossi già noti alla tradizione megarica; famoso quello del mentitore).
Le principali dottrine logiche si erano intanto andate diffondendo anche in ambiente latino, trovando una precisa eco nell’opera filosofica e retorica di Cicerone; particolare interesse da questo punto di vista rivestono i suoi Topica, ripresi nelle sistemazioni posteriori. Nei secoli successivi (150 d.C. circa), importante, per l’influenza sui logici dell’Alto Medioevo, è l’opera attribuita ad Apuleio di Madaura, Περὶ ἑρμηνείας. In essa si fornisce una sistemazione piuttosto scolastica delle dottrine logiche relative alla proposizione e al sillogismo categorico. Si ricorda inoltre Porfirio (3° sec. d.C.), autore di un’introduzione o Isagoge alle Categoriae di Aristotele, che tanta fortuna avrà nel Medioevo in relazione al dibattuto problema degli universali. L’ultimo grande logico dell’antichità può essere considerato Boezio (fine 5°-inizi 6° sec. d.C.), il quale tradusse e commentò l’intera opera logica aristotelica (nonché alcuni altri opuscoli logici, come la citata Isagoge), continuando, in questa sua funzione di mediatore, l’opera del retore Mario Vittorino.
Il Medioevo ricevette la cultura logica dell’antichità attraverso alcuni canali, di cui il principale è rappresentato dall’opera di traduttore e di commentatore di Boezio. Il corpus delle fonti del pensiero logico comprendeva fino al 12° sec.: l’Isagoge di Porfirio, le Categoriae e il De interpretatione di Aristotele (le tre opere circolarono unite dal 9° sec., stabilmente dal 12° sec.), i commenti di Boezio a esse e le sue opere sui sillogismi categorici e ipotetici (questa ultima tramanda la dottrina di Teofrasto e degli stoici) e sui topici; i Topica di Cicerone, il Περὶ ἑρμηνείας attribuito ad Apuleio, il De definitionibus di Mario Vittorino, le Categoriae dello Pseudo-Agostino, il De nuptiis di Marziano Capella, Cassiodoro e Isidoro per la parte relativa alla dialettica. Ma l’acquisizione e l’utilizzazione di questi testi fu lenta e graduale. Quando tra 9° e 11° sec. si raccomandava lo studio della dialettica, ci si riferiva sostanzialmente alle compilazioni ricordate e alle opere di Alcuino. È nel 12° sec. che l’influenza di Boezio divenne determinante. Quattro delle sue opere costituirono, insieme con l’opuscolo di Porfirio e le due opere di Aristotele, quei ‘septem codices’ che Abelardo indicò come base della sua opera logica, dalle Glosse letterali ai commenti noti come Logica Ingredientibus e Logica Nostrorum, alla trattazione organica costituita dalla Dialectica.
Nel corso del 12° sec. furono tradotte le rimanenti opere logiche di Aristotele: Analytica priora e posteriora, Topica e De sophisticis elenchis. Si chiamò allora ars nova l’insieme delle opere aristoteliche tradotte da poco, mentre ars vetus indicava il complesso di opere: Isagoge, Categoriae, De interpretatione, tutto Boezio e il Liber sex principiorum attribuito a Gilberto Porretano. I parva logicalia, costituiti dalla dottrina della suppositio (capacità di un termine di stare per qualcos’altro) e delle varie proprietates terminorum, rappresentarono tra la fine del 12° sec. e l’inizio del 13° il primo nucleo della l. moderna (così detta in contrapposizione alla l. antiqua, comprendente ars vetus e ars nova). Una duplice tradizione letteraria si stabilì in quel tempo: da una parte i commenti all’Isagoge e alle opere di Aristotele (in particolare agli Analytica, di cui il 13° sec. fece propria la concezione deduttiva della scienza), dall’altra la trattazione organica sotto forma di summa.
All’inizio del 14° sec., la Summa logicae di Occam rappresentò il punto di arrivo della precedente opera di approfondimento della l. moderna e, insieme, il punto di partenza di successivi sviluppi. Sulle orme di Occam si mossero Buridano, Alberto di Sassonia e Marsilio di Inghen sul continente e Swineshead (Suisset), Heytesbury, Strode, Ferabrich in Inghilterra. Questi maestri portarono a maturazione le dottrine che formavano la l. moderna, ormai comuni a tutti i maestri perché apprese nei corsi universitari. Fu da essi coltivata l’analisi dei sophismata (proposizioni che richiedono un’accurata analisi dei sincategoremi, in particolare di quelli impliciti nei vari termini, per una corretta interpretazione), degli insolubilia (proposizioni di difficile soluzione, che danno luogo ad antinomie), delle obligationes (regole della disputa scolastica).
Una posizione a parte rispetto a questo tipo di l. occupa quella tentata da R. Lullo: si trattava per lui di definire un’ars capace d’individuare i principi primi della realtà e tradurli in simboli (alfabetici, numerici ecc.) per poter poi organizzare dimostrazioni inoppugnabili per la loro struttura e rispondenti alla realtà, e quindi alla verità, in virtù della corrispondenza tra principi logici e principi ontologici.
Nel Rinascimento, con il rifiuto umanistico delle sottigliezze logiche degli scolastici che, alla lunga, portavano al depauperamento del linguaggio inteso come strumento di comunicazione, e la lettura filologicamente attenta di Aristotele e dei suoi commentatori antichi, la l. medievale esaurì il suo compito. Sopravvisse tuttavia nell’insegnamento universitario e, in particolare, nella scolastica iberica fino al Seicento. Contemporaneamente si tentarono nuove interpretazioni e definizioni della l.: da un lato sottolineando i suoi rapporti con la retorica e la supremazia di questa, dall’altro rivolgendo in particolare l’attenzione ai problemi di metodo. In questa seconda prospettiva notevole è la l. di P. Ramo e di G. Zabarella. Ma in altri ambienti, soprattutto quelli della nuova scienza, si veniva maturando un diverso concetto di l.: messa in crisi la l. aristotelico-scolastica con la denuncia del suo carattere astratto e verbale che allontanava dalla realtà sostituendo parole a cose, la l. si veniva definendo in termini operativi in connessione con le necessità della ricerca scientifica: così in Bacone la l. o novum organum si pone come metodologia della scienza sperimentale e vuole indicare il corretto modo di procedere per giungere a quelle definizioni e assiomi che la sillogistica tradizionale anteponeva all’esperienza. La critica di Bacone al sillogismo e il tentativo d’individuare le regole (tabulae) per un corretto ordinamento dell’esperienza saranno poi ripresi dall’empirismo moderno.
Il problema del metodo come cuore di una nuova l. è parimenti centrale in Descartes: già nelle Regulae ad directionem ingenii le regole della nuova scienza, che ha per modello quello matematico, trovano il loro fondamento nel concetto di intuizione come atto con cui la mente coglie con chiarezza ed evidenza la verità così delle ‘nature semplici’, o prime nozioni per sé note, come dei momenti successivi del processo deduttivo che a quelle ‘nature’ si riconnette; ai precetti delle Regulae faranno seguito, come loro essenziale compendio, le quattro regole del Discours de la méthode, in cui ancora una volta il criterio dell’evidenza (o dell’intuizione chiara e distinta) costituisce il fondamento primo del metodo e la regola somma del discorso filosofico. Strettamente connessa all’insegnamento di Descartes – e preoccupata dall’altro lato di ricollegarlo a tradizionali motivi scolastici, ma anche con nuovi interessi per i problemi del significato – è la Logique ou art de penser di A. Arnauld e P. Nicole, nota come l. di Port-Royal. Grande rilievo assume il problema della l. in Leibniz, che riprende suggestioni della tradizione lulliana.
I. Kant, il cui contributo alla l. in senso tradizionale non può essere considerato di grande originalità, è il teorizzatore di una l. (detta trascendentale) che, pur assumendo come sua condizione preliminare e indispensabile la l. formale, mira a costituirsi come disciplina autonoma. Mentre la l. formale si occupa, secondo Kant, delle leggi del giudizio, prescindendo rigorosamente dai contenuti, la l. trascendentale si occupa di fondare una particolare classe di giudizi, quelli sintetici a priori (che Kant aveva distinto sia dai giudizi analitici sia da quelli sintetici). Essa diviene quindi una scienza che tratta dell’origine, dell’estensione e della validità degli elementi a priori della conoscenza. Abolite, nell’ambito dell’idealismo, le distinzioni tra l., ontologia e metafisica, sarà possibile identificare la l. con un particolare sistema di metafisica (identità espressamente teorizzata da Hegel). Così tutte le teorie logiche dei pensatori che si richiamano in vario modo alla filosofia hegeliana (F.H. Bradley e B. Bosanquet in Inghilterra, B. Croce e G. Gentile in Italia) vanno collocate in un contesto speculativo che non permette di raccostarle alla l. tradizionalmente intesa.
Va infine ricordata la polemica antipsicologica di E. Husserl, su cui influirono le tesi del logico, matematico e filosofo B. Bolzano e di F. Brentano. Nella sua opera Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft (1929), Husserl ha tentato di distinguere nell’ambito della l. tre momenti: una pura grammatica l. o teoria del significato, una pura analitica dell’apofansi o teoria delle espressioni non-contraddittorie e la l. trascendentale o teoria della verità.
Le prime grandi intuizioni della l. moderna (come l. matematica) si fanno solitamente risalire a G.W. Leibniz, il quale introdusse nella seconda metà del Seicento i concetti di un linguaggio simbolico universale (ars characteristica) e di un calcolo a esso applicato (calculus ratiocinator). L’analogia fra l. e matematica fu sottolineata anche dai fratelli Bernoulli, celebri matematici svizzeri contemporanei di Leibniz: l’algebra è intesa essenzialmente come studio dei rapporti quantitativi, e la l. è considerata come esempio particolare di applicazione di schemi deduttivi che sono propri della matematica. In seguito, fino all’Ottocento, sul continente europeo le idee leibniziane sembrano andar perdute.
Il quadro cambia se ci si sposta in Inghilterra, dove il fiorire degli interessi algebrico-matematici troverà sbocco nella grande opera di G. Boole. Si era infatti formata a Cambridge la Analytical Society (1812), fondata da C. Babbage, J. Herschel, G. Peacock, T. Robinson, E. Ryan e altri, che si proponeva di diffondere l’uso della notazione leibniziana (più agile di quella newtoniana) nel calcolo differenziale. Caratteristico di Cambridge fu l’atteggiamento ‘formale’ nei confronti delle scienze matematiche; viene sottolineata l’importanza della scelta del linguaggio e degli assiomi; l’algebra non viene necessariamente considerata come studio dei rapporti quantitativi; solo requisito essenziale di una interpretazione del linguaggio simbolico è che essa soddisfi gli assiomi; appare la concezione degli assiomi quali definizioni implicite, prescriventi tutte e sole le condizioni che gli enti associati ai segni devono soddisfare. In questo senso, l’interpretazione aritmetica non è che una delle varie possibili, privilegiata, se si vuole, da un punto di vista storico, ma non teorico; l’algebra aritmetica è anzi un ramo particolare dell’algebra simbolica.
In questa linea si inserisce l’opera di A. De Morgan, che difese energicamente l’importanza della trattazione simbolica della l.: applicare alle operazioni logiche procedimenti analoghi a quelli propri dell’algebra aritmetica (costruire cioè un’algebra più generale) consente di mettere in luce e studiare i meccanismi formali del pensiero assai meglio di quanto sia possibile nel linguaggio comune. I suoi studi lo portarono a concepire l’idea di una teoria generale delle relazioni, ben più ampia della sillogistica classica. Boole non fu mai alla scuola di Cambridge; fu però a essa legato tramite l’amicizia con D.F. Gregory e De Morgan, e ne assorbì profondamente le idee e l’atteggiamento ‘formalistico’ nei confronti dell’algebra. Egli elaborò, in linguaggio simbolico e con metodo che può sostanzialmente dirsi assiomatico formale, un calcolo astratto delle classi costruendo anche quella particolare algebra nota come algebra di Boole; si interessò altresì della possibilità di un calcolo delle proposizioni.
In seguito l’opera fu continuata dallo statunitense C.S. Peirce e dai tedeschi R. Grassmann ed E. Schröder. La l. deve a Peirce interessanti contributi all’algebra delle classi; alla teoria delle relazioni; alla teoria della quantificazione, che amplia l’originaria algebra di Boole interpretabile come algebra di classi oppure di proposizioni, a una teoria molto più generale, in cui sempre maggiormente l’algebra della l. si svincola dall’algebra matematica. Schröder diede per primo una trattazione sistematica e completa dell’algebra della l.; a lui si richiameranno poi il francese L. Couturat e l’italiano G. Peano, cui si deve l’elaborazione di un simbolismo logico vicino a quello comune e la fondazione di una ‘scuola italiana’ di l. molto attiva tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Nel frattempo, soprattutto in Germania, la l. veniva sviluppandosi anche secondo direttive diverse da quelle degli algebristi, grazie a G. Frege da un lato e ai ‘formalisti’ dall’altro. Questi studi trassero direttamente stimolo da quelli dei grandi analisti della seconda metà dell’Ottocento, K.T.W. Weierstrass, J.W.R. Dedekind e G. Cantor che, proseguendo le ricerche di K.F. Gauss e A.-L. Cauchy, avevano richiamato l’attenzione sul problema dei fondamenti della matematica e avevano mostrato come, mediante la l., l’intera matematica potesse essere ricondotta all’aritmetica dei numeri naturali e cioè come, usando la sola l. e l’aritmetica dei numeri naturali, potesse essere ricostruita tutta la scienza matematica e in particolare l’analisi matematica (aritmetizzazione dell’analisi o logicismo).
Partendo da questo risultato il programma di Frege, detto programma logicista, mirava a definire i concetti matematici all’interno della l., base certa della conoscenza, così da poter trasformare le verità matematiche in verità logiche. In particolare, Frege mirava a compiere la cosiddetta logicizzazione dell’aritmetica, cioè la riconduzione dell’aritmetica dei numeri naturali alla pura l., ossia la ricostruzione all’interno della pura l. dell’aritmetica dei numeri naturali. Ciò portò Frege a esplicitare cosa fosse il sistema di l. entro cui tutta la matematica avrebbe potuto essere ricostruita: una l. molto potente, sostanzialmente equivalente alla teoria degli insiemi che era stata per la prima volta introdotta e studiata da Cantor e che era basata sui due principi di estensionalità (due insiemi che hanno gli stessi elementi sono uguali) e di comprensione (per ogni data proprietà, esiste l’insieme di tutte e sole le cose che godono di quella proprietà). Tipica di Frege e di Cantor è una concezione platonista della matematica, secondo cui gli enti matematici e gli insiemi in generale esistono indipendentemente dall’attività conoscitiva umana; fra questi enti vi sono anche, in forza del principio di comprensione, gli insiemi che corrispondono all’estensione delle proprietà e che sono ritenuti enti dello stesso livello ontologico dei loro elementi. Entro questo sistema logico, ovvero entro questa teoria degli insiemi, Frege riuscì davvero a ricostruire l’intera aritmetica dei numeri naturali e dunque l’intera matematica. L’antinomia scoperta da B. Russell nel 1902 (➔ paradosso) rivelò come il sistema logico di Frege e la teoria degli insiemi di Cantor fossero contraddittori, in modo da rendere vana la logicizzazione dell’aritmetica compiuta da Frege. Il programma logicista fu proseguito, dopo l’antinomia, in particolare dallo stesso Russell, mediante opportune modifiche alla teoria cantoriana degli insiemi: la teoria ramificata dei tipi è una delle proposte di Russell. Ma tali modifiche hanno portato a sistemi in cui alcuni principi erano di dubbio carattere logico.
Il formalismo trovò in D. Hilbert un sostenitore acuto e originale che, con il suo programma di fondazione della matematica, dette un contributo notevole allo sviluppo della l. matematica. Per Hilbert, massimo esponente del metodo assiomatico formale, già prima della scoperta dell’antinomia di Russell, in ogni teoria matematica i concetti fondamentali sono definiti implicitamente dagli assiomi e non vanno presupposti come noti, e per la fondazione di ciascuna teoria si deve richiedere dai suoi assiomi non la loro verità intuitiva ma la loro non-contraddittorietà, ossia l’impossibilità di ricavare da essi, mediante un numero finito di inferenze logiche, una contraddizione. Particolarmente dopo la scoperta dell’antinomia di Russell, Hilbert propose il suo famoso programma di fondazione della matematica: trasformare ogni teoria matematica in un sistema formale, e dimostrare con metodi finitisti che tale sistema formale è non-contraddittorio. I metodi finitisti sono metodi matematici di per sé stessi sicuri e non bisognosi di fondazione, fondati su un’istituzione a priori. Poiché un sistema formale per una teoria è ottenuto assiomatizzando la teoria, trasformando il suo linguaggio in un linguaggio formale ed esplicitando gli assiomi e le regole logiche per costituire le dimostrazioni, il programma di Hilbert richiedeva inevitabilmente uno studio accurato dei linguaggi formali e la formalizzazione della logica. Inoltre, il programma di Hilbert segnò l’avvio di una branca importante della l. matematica, la teoria della dimostrazione, costituita da Hilbert stesso per la necessità (congenita al suo programma) di studiare gli oggetti formali chiamati dimostrazioni, al fine di stabilire la non-contraddittorietà dei sistemi formali. Il primo importante passo nella esecuzione del programma di Hilbert sarebbe stato il conseguimento, con metodi finitisti, della dimostrazione di non-contraddittorietà per il sistema formale corrispondente all’aritmetica dei numeri naturali. K. Gödel dimostrò nel 1931 che il programma di Hilbert è destinato a fallimento, se i metodi finitisti dell’aritmetica sono tutti formalizzabili all’interno del sistema formale dell’aritmetica dei numeri naturali.
Il formalismo hilbertiano si era duramente opposto a due altri programmi fondazionali della matematica, il predicativismo e l’intuizionismo, che rivendicavano entrambi il carattere ‘costruttivo’ della conoscenza matematica e che hanno entrambi recato notevoli contributi allo sviluppo della l. matematica. La concezione costruttiva della matematica era stata sostenuta nell’Ottocento in particolare dal matematico tedesco L. Kronecker, che aveva criticato con forza la teoria degli insiemi di Cantor. Il predicativismo ebbe fra i suoi maggiori rappresentanti H. Poincaré e H. Weyl, e ispirò anche la teoria ramificata dei tipi di Russell. Fra i contributi importanti dati dal predicativismo alla l. matematica è da segnalare l’indagine sulle ‘definizioni’, e in particolare sulla distinzione tra definizioni predicative e impredicative. Il predicativismo accetta soltanto una totalità infinita in atto, quella dei numeri naturali; per il resto accetta soltanto infinità ‘potenziali’. Per il predicativismo, esistere è sinonimo di essere costruibile, e le costruzioni sono date dalle definizioni, che, per essere accettate, devono essere predicative: se definire un ente significa costruire quell’ente, non si può definirlo facendo riferimento a una totalità alla quale esso appartiene, cioè non si può definirlo con definizioni impredicative.
La scuola intuizionista, o neo-intuizionista, è stata fondata dall’olandese L.E. Brouwer a partire dal primo decennio del Novecento. Brouwer si oppone alla teoria logicista che considera la l. come fondamento della matematica; non però, come i formalisti, in quanto gli assiomi sono in sé privi di riferimenti ad ambiti particolari di esperienza, e quindi non ha senso considerare un sistema formale ‘più vero’ di un altro; ma in quanto la matematica trova diretto fondamento in una intuizione-base, comune a tutti gli uomini, e indipendente dal linguaggio e dal mutare dell’esperienza. La l. è una parte, più generale ma non sostanzialmente diversa dalle altre, della matematica. Con evidente ispirazione kantiana, Brouwer sostiene che «la matematica intuizionistica è un’attività della mente di natura linguistica, che trae origine dalla percezione di un passaggio di tempo, cioè dallo scindersi di un momento di vita in due cose distinte, l’una delle quali cede il posto all’altra ma è conservata dalla memoria». Ripetendo indefinitamente, tramite l’introspezione, questa intuizione-base, si ottengono delle costruzioni matematiche primitive, quali la serie illimitata dei numeri naturali, e la giustificazione di principi come quello di induzione completa. Nulla però giustifica l’ammissione, neppure a livello numerabile, dell’infinito attuale, almeno come oggetto dell’esperienza matematica. La matematica intuizionista infatti, pur non escludendo a priori l’esistenza di enti o totalità indipendenti dalla nostra conoscenza, ha per argomento le costruzioni mentali in quanto tali. I contributi più importanti dati dall’intuizionismo alla l. matematica sono dovuti a H. Heyting. L’intuizionismo conduce una profonda e radicale critica della l. classica, proponendo il suo rimpiazzamento con una nuova l. detta l. intuizionista. La base della critica intuizionista alla l. classica è che nulla ci assicura che, applicando un principio della l. classica alla descrizione (in un dato linguaggio) di una costruzione mentale matematica, si ottenga come risultato la descrizione di una nuova costruzione matematica. Infatti, se sembra senza problemi l’applicazione di certi principi come quello di identità, quello di non-contraddittorietà o quelli del sillogismo, non è accettabile il principio del terzo escluso, il principio secondo cui per ogni proposizione p vale «p oppure non p». Per comprendere questa critica, bisogna precisare cosa significa affermare una proposizione secondo il punto di vista intuizionista. Secondo questo punto di vista a ogni proposizione corrispondono costruzioni, le costruzioni di quella proposizione, e affermare una proposizione p significa che si è in grado di eseguire una costruzione corrispondente a p. Il principio del terzo escluso non può essere accettato come un principio generale dal punto di vista intuizionista, poiché nulla ci assicura che, presa una qualunque proposizione, o si è in grado di ottenere una costruzione di quella proposizione o si è in grado di ottenere una contraddizione dall’ipotesi di avere una costruzione di quella proposizione. Analogamente, dal punto di vista intuizionista non può essere accettato come un principio generale il principio della doppia negazione, «non non p implica p»: il fatto di poter ottenere una contraddizione dall’ipotesi di avere una costruzione di «non p» non ci permette in generale di ottenere una costruzione della proposizione p.
Accanto a quella degli studiosi nominati ricorderemo ancora l’opera dei logici polacchi (J. Łukasiewicz, S. Łesniewski, A. Tarski e altri) e la scuola nominalista di W.V.O. Quine e N. Goodman. In seguito, le varie tendenze hanno assunto sempre maggiore ampiezza di articolazioni e ricchezza di sfumature, al punto che, pur ravvisandosi ancora differenze di fondo tra impostazioni platoniste, formaliste, costruttiviste, è impossibile ogni rigida classificazione.
È la l. applicata ai discorsi giuridici. In particolare, la l. delle norme o del linguaggio normativo (l. deontica) si propone di stabilire criteri di validità assoluta delle proposizioni normative. Si è sviluppata a partire da un’impostazione scientifica dello studio del diritto, nell’ambito delle teorie formalistiche. Gli scritti fondamentali di l. giuridica risalgono ai primi anni 1950 (E.G. Máynez, G.H. von Wright, J. Kalinowski). Accanto a una l. dimostrativa, finalizzata a dimostrare la validità dei ragionamenti giuridici (per la quale solo i ragionamenti deduttivi, che dal generale pervengono al particolare, e non anche quelli induttivi, si sottomettono al controllo della l.) si è sviluppata una l. argomentativa (➔ Perelman, Chaïm) il cui fine non è dimostrare, ma persuadere circa la ragionevolezza dell’argomentazione giuridica.
In elettronica, l’insieme delle operazioni logiche eseguite da un dispositivo (composto da uno o più circuiti logici); per estensione, il termine indica collettivamente l’insieme dei circuiti logici, programmabili e non, di un dispositivo digitale; è detta l. positiva la convenzione che fa corrispondere il livello di tensione più alto al valore logico 1 e quello più basso al valore logico 0, in contrapposizione alla l. negativa nella quale la convenzione è capovolta: invertendo il tipo di l., le porte logiche elementari e fondamentali si trasformano nelle loro duali (AND in OR, NAND in NOR, e viceversa).
La modalità secondo la quale è predisposta l’interazione delle varie parti di un elaboratore durante il suo funzionamento.