Parte della matematica che riguarda lo studio dei numeri, in particolare dei numeri interi. Il termine fu usato per la prima volta dai pitagorici, per indicare la scienza astratta dei numeri, contrapposto a λογιστική (logistica), che era invece la parte pratica del calcolo numerico: ma nell’uso moderno, la parola indica sia la scienza astratta dei numeri sia le regole pratiche di calcolo su essi.
Alla più antica scuola pitagorica risale, quasi sicuramente, l’inizio dello studio dell’a. (in senso teorico). I pitagorici conobbero la distinzione dei numeri in pari e dispari, in primi e composti; considerarono i numeri amicabili e quelli perfetti; crearono, attraverso i numeri figurati, una vera e propria a. geometrica, introdussero e studiarono le proporzioni (essenzialmente però, se non unicamente, come uguaglianza di rapporti tra grandezze commensurabili). Lo studio dei numeri irrazionali (concepiti come rapporti tra grandezze incommensurabili), iniziato in modo sistematico da Teodoro di Cirene, fu compiuto soprattutto per opera di Teeteto di Atene; nello stesso tempo Eudosso di Cnido estese la teoria delle proporzioni al caso delle grandezze incommensurabili. Intorno al 300 a.C., l’a. greca trova la sua esposizione organica negli Elementi di Euclide e più precisamente nei libri VII-X a essa dedicati. Ulteriori sviluppi dell’a. si hanno con Archimede, nell’Arenario, e con Eratostene, del quale è ancor oggi conosciuto il crivello, metodo che permette di trovare i numeri primi inferiori a un dato numero. Nicomaco di Gerasa (1°-2° sec. d.C.), con la sua Introduzione (tradotta da Boezio in latino), tramandò attraverso il Medioevo la tradizione dell’a. greca. Nel 3° sec. d.C., l’a. greca sbocca, con l’opera di Diofanto (ricerca delle soluzioni intere di una equazione o di un sistema di equazioni), in una vera e propria algebra. Per il decisivo contributo degli Indiani e poi degli Arabi ➔ numerazione.
In Europa, fino ai primi del Duecento, il calcolo aritmetico viene coltivato solo da gruppi ristretti di studiosi (scuola degli abacisti e degli algoritmisti). Solo con Leonardo Pisano (Liber Abaci, 1202) si realizza, con la generale introduzione del sistema posizionale nella numerazione, un effettivo sviluppo dell’aritmetica. Tra i nomi ai quali sono legati i progressi dell’a. nei secoli successivi, ricordiamo L. Pacioli, N. Tartaglia, N. Chuquet. Un livello più alto viene poi raggiunto nel 17° sec.: all’inizio del secolo, da J. Napier e dalla sua scuola, vengono introdotti i logaritmi, nello stesso secolo, B. Pascal e P. Fermat, nell’intento di dimostrare certe proprietà dei numeri non aventi immediato rapporto con le esigenze pratiche del calcolo, gettarono le basi dell’ a. superiore che si svilupperà più tardi in un nuovo ramo della scienza matematica, la teoria dei numeri, connessa profondamente con tutti i più elevati rami delle matematiche moderne.
Base dell’a. sono le quattro operazioni: addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione. La sottrazione è l’operazione inversa dell’addizione, la divisione l’inversa della moltiplicazione. Giacché la moltiplicazione si definisce a partire dall’addizione, è questa l’operazione fondamentale. L’a. elementare tratta innanzitutto delle regole di calcolo relative alle quattro operazioni e dei concetti più semplici a esse legati, come quello di numero primo (numero divisibile, con resto zero, solo per l’unità e per sé stesso). Problemi tipici dell’a. elementare sono la scomposizione di un numero in fattori primi (fattorizzazione del numero), la ricerca del massimo comune divisore e del minimo comune multiplo di due o più numeri, la ricerca di criteri pratici di divisibilità. Da questi problemi elementari hanno avuto origine generalizzazioni e sviluppi assai importanti. Supponiamo per un momento di non conoscere altri numeri se non gli interi positivi, o naturali (1, 2, 3, 4,...). In tal caso, mentre l’addizione e la moltiplicazione si possono sempre eseguire (e cioè, la somma e il prodotto di due numeri interi positivi è ancora sempre un numero intero positivo), lo stesso non accade per la sottrazione e la divisione. Infatti: se a⟨b (se il sottraendo è maggiore del minuendo) non si può – dal punto di vista dell’a. elementare – eseguire la sottrazione di b da a; dividendo a per b (e supponiamo pure che il dividendo sia maggiore del divisore) si otterrà in genere un quoziente q e un resto r non nullo: a=qb+r. Solo nel caso in cui a è divisibile per b esisterà un numero intero x soddisfacente all’equazione a=bx. Per far cadere tali limitazioni relative alle operazioni di sottrazione e di divisione dei numeri interi, occorre ampliare il campo dei numeri che si considerano, passando rispettivamente dall’insieme dei numeri naturali ai campi, più vasti, dei numeri interi relativi (positivi e negativi) o dei numeri razionali (frazioni). Mentre l’introduzione dei numeri negativi e delle relative regole di calcolo si suole considerare come il primo capitolo dell’algebra, i numeri razionali e le regole elementari di calcolo a essi relative vengono generalmente inclusi nell’a. elementare (➔ frazione). Al concetto di rapporto tra numeri interi, e quindi di frazione, conduce del resto la teoria delle proporzioni. Ricordiamo ancora come la ricerca dei criteri elementari di divisibilità sia legata alla più elevata teoria delle congruenze, oggi inclusa nella teoria dei numeri, e come a concetti di ordine più elevato conduca l’inversione dell’operazione elementare di elevazione a potenza. Questa inversione può essere concepita in due modi. Il primo modo è determinare il numero che, elevato alla ennesima potenza, riproduca un numero dato a. Se a e n sono numeri interi positivi (ed è questo il caso che interessa l’a.) esiste uno e un solo numero reale positivo che soddisfa la condizione posta: esso si chiama la radice n-esima del numero a (si usa il simbolo n√‾‾a; ma è bene sempre precisare se si parla, o no, del radicale in senso aritmetico). Così, per es., la radice quadrata di 4 è 2 (esistono due numeri reali, 2 e −2 il cui quadrato è 4; ma, in senso aritmetico, va considerato solo il valore positivo). Il secondo modo è determinare il numero che, messo come esponente a un numero intero positivo assegnato b, riproduca un numero positivo dato a. Tale numero esiste ed è unico, quando siano fissati b e a, e si chiama logaritmo in base b di a (simbolo: logb a). Si noti che nel primo caso si tratta di risolvere l’equazione xn=a; nel secondo caso si deve invece risolvere l’equazione bx=a. Nel primo caso l’incognita è costituita dalla base della potenza, nel secondo invece l’incognita è l’esponente. La ricerca della radice n-esima di un numero intero positivo conduce a un altro notevole ampliamento del campo dei numeri. Infatti, già in casi molto semplici, ci si accorge che non sempre esiste un numero razionale che, elevato alla n-ma potenza, dia per risultato un dato numero intero assegnato. Si può dimostrare, per es., che non esiste alcun numero razionale il cui quadrato sia 2; ma si può vedere che è possibile costruire una successione crescente di numeri decimali, a 1, 2, 3,... cifre significative dopo la virgola, i cui quadrati differiscono da 2 di quantità sempre minori: tale è la successione dei nuneri 1,4, 1,41, 1,414 ecc. i cui quadrati sono 1,96, 1,9881, 1,999396 ecc. Immaginando di proseguire l’operazione di estrazione di radice, con l’aggiunta di sempre nuove cifre significative, si arriva al concetto di numero irrazionale come numero decimale illimitato non periodico. Quest’ultimo concetto è più ampio però di quello di radicale aritmetico, nel senso che esistono numeri irrazionali (come π ed e) che non sono radici ennesime di numeri interi, e anzi neppure soluzioni di equazioni a coefficienti interi. Per introdurre in modo rigoroso e completo i numeri irrazionali, occorre ricorrere ad altri concetti e procedimenti (per es. quello delle sezioni usato da Dedekind). Riepilogando, l’a. elementare si compone dei seguenti capitoli: a) operazioni elementari sui numeri interi; b) proporzioni e frazioni; c) estrazioni di radice; d) logaritmi; e) numeri irrazionali. I numeri negativi (e con essi anche i numeri complessi) sono per lo più inclusi nell’algebra, sebbene talvolta se ne faccia oggetto di studio nell’aritmetica.
A. politica Espressione coniata da W. Petty (1623-1687) e adottata nel suo testo Political Arithmetick (1690) per indicare la disciplina che mira a stimare la ricchezza della nazione con ragionamenti quantitativi e accurate rilevazioni. Nel 17° e 18° sec., l’espressione indicava gli studi, all’epoca pioneristici, che elaborarono stime quantitative dell’andamento della popolazione, dei redditi e della produzione, della ricchezza fondiaria o del commercio estero, con l’obiettivo di ragionare in termini quantitativi sui fatti economici e sociali. L’a. politica anticipa la statistica economica e l’econometria.