La forma più semplice di riproduzione agamica, detta anche scissione o schizogonia. Può distinguersi in binaria, se un individuo, dividendosi, dà origine a due nuovi individui, o multipla se un individuo si scinde contemporaneamente in parecchi discendenti (➔ riproduzione). La d. cellulare è il processo per cui la cellula si moltiplica dividendosi in due (➔ mitosi).
Nella sistematica biologica, il termine d. è usato in due accezioni: per indicare aggruppamenti molto comprensivi, oppure suddivisione di generi o specie. Nel primo senso è usato specialmente in botanica (in zoologia si usa piuttosto tipo o phylum), per indicare il più ampio dei raggruppamenti sistematici, comprendente come sottogruppi le classi (e prima di queste, eventualmente, le sottodivisioni). Il numero delle d. del regno vegetale varia a seconda degli autori: sono, per es., 17 nella classificazione di A. Engler (1954), 7 in quella di F. Wettstein. Ogni d. riunisce le piante che per ragioni morfologiche, ontogenetiche e fisiologiche mostrano tali somiglianze da poterle ritenere derivate da un progenitore comune, ed è viceversa separata dalle altre d. da lacune che indicano la scarsa affinità con queste. Secondo alcuni sistematici la d. sarebbe da subordinarsi ai phyla (che sarebbero quindi le categorie sistematiche superiori a tutte), ma in base all’uso questi termini sono sinonimi.
Istituto attraverso il quale si passa dalla contitolarità da parte di più soggetti di un diritto reale su un bene alla titolarità esclusiva di un diritto della stessa natura ma di minore intensità, perché avente a oggetto un numero inferiore o di inferiore valore di facoltà, ovvero perché avente a oggetto la proprietà su un bene più piccolo di quello originariamente in comunione. La d. può essere realizzata mediante un negozio di diritto privato, nell’ambito del quale i condividenti possono volontariamente affidare la ripartizione del bene comune a un notaio, ovvero mediante un provvedimento del giudice, ove non vi sia accordo sul diritto alla d. di uno o più condomini, ovvero non vi sia accordo sulle modalità con cui procedere alla ripartizione del bene comune.
Il procedimento di d. è speciale e disciplinato dal c.p.c. agli art. 784 e seguenti. Si tratta di un giudizio contenzioso appartenente alla categoria della tutela costitutiva non necessaria, il cui provvedimento finale, abbia esso la forma della sentenza oppure dell’ordinanza, realizza una modificazione giuridica della realtà, alternativamente ottenibile con un negozio di diritto privato. Il giudizio viene introdotto mediante atto di citazione e si deve svolgere nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione, litisconsorti necessari. Il procedimento si articola in più fasi, ciascuna delle quali può chiudersi alternativamente con ordinanza (ove non ci siano contestazioni) ovvero con sentenza (in caso di contestazioni). Una prima fase è volta all’accertamento del diritto alla d.; una seconda all’eventuale liquidazione del patrimonio e alla formazione del progetto di d., operazione che può essere delegata a un notaio; una terza fase all’approvazione del progetto di divisione e quindi alla realizzazione del transito dal diritto comune ai diritti individuali; un’ultima fase all’assegnazione dei beni materiali in proprietà esclusiva.
Atto con il quale si scioglie la comunione (➔) mediante la ripartizione del patrimonio comune tra i partecipanti, effettuata in proporzione delle rispettive quote. Ogni partecipante può sempre domandare lo scioglimento della comunione (art. 1111 c.c.). La d. non può essere chiesta prima dell’eventuale termine stabilito dalle parti (che deve essere inferiore a 10 anni) e può essere dilazionata, per un periodo massimo di 5 anni, dall’autorità giudiziaria, qualora l’immediato scioglimento della comunione pregiudichi gli interessi degli altri compartecipi. Deve aver luogo in natura, proporzionalmente alle singole quote, a meno che si tratti di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso a cui sono destinate. Ciascun partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni in solido contratte per la cosa comune, le quali siano scadute o scadano entro l’anno dalla domanda di divisione. Il legislatore, nel dettare la disciplina della d. della comunione (art. 1111 e seg. c.c.), ha posto un espresso rinvio (art. 1116 c.c.) alle norme sulla d. dell’eredità.
Differenziazione dell’organismo produttivo che si attua mediante una separazione di funzioni tra le varie categorie di produttori e permette l’incremento della produzione. Si presenta anche come localizzazione delle singole colture e imprese in genere (divisione territoriale). Questo fenomeno si estende oltre i confini dei singoli Stati, che tendono a specializzarsi in base alle proprie capacità produttive e alle proprie dotazioni di risorse (si ha allora una divisione internazionale del lavoro)
Scomposizione del processo produttivo in una serie di operazioni semplici affidate ciascuna a un lavoratore (o a un gruppo di lavoratori) diverso. La d. tecnica del lavoro, analizzata già da A. Smith, ha ricevuto una concettualizzazione compiuta dagli studi di F.W. Taylor. L’evoluzione tecnologica e la considerazione dei fenomeni di alienazione cui incorrono i lavoratori sottoposti a un’accentuata divisione tecnica del lavoro hanno portato a un’inversione di tendenza nella direzione della riappropriazione da parte del lavoratore di una gestione più ampia dei processi produttivi.
Per la divisione verticale del lavoro ➔ integrazione.
Operazione con la quale si passa da un segnale periodico di frequenza f a uno di frequenza f/n, essendo n un numero intero.
Operazione inversa della moltiplicazione. Dati il prodotto e uno dei fattori, l’altro fattore è invece da determinare; il problema è dunque quello di trovare un numero x che, moltiplicato per un dato numero b, dia per risultato un numero dato a. Si dice che a è il dividendo, b il divisore: x è il quoziente (o quoto); simboli della d.: x=a:b; x= a−−b; x=a/b. Il caso b=0 è sempre da escludere. Infatti, se oltre che b=0 è anche a=0, il quoziente x è indeterminato, poiché qualsiasi numero moltiplicato per lo zero dà per risultato zero. Se poi, sempre essendo b=0, è a≠0, non esiste alcun numero x che moltiplicato per b dia per risultato a.
Se l’insieme dei numeri che si considerano è quello dei numeri razionali, o quello dei numeri reali, o (più in generale) un campo, l’operazione di d. (escluso il caso del divisore nullo) ammette un risultato univoco. Per es., dati due numeri razionali, a e b (≠0), esiste uno e un solo numero razionale x per il quale a=b·x. In modo diverso va formulato il problema della d. nel caso dei numeri interi (e così pure nel caso dei polinomi e più in generale nel caso di un dominio di integrità). Poiché la d. fra due numeri interi può non ammettere per risultato un numero intero, si procede nel modo seguente. Dati due numeri interi a e b (e supponiamo a>b>0) si considera il massimo tra i multipli interi di b che non supera a e sia esso q·b. Sarà allora: a=q·b+r, ove q si chiama ancora il quoziente della d. di a per b, mentre r (che per l’ipotesi fatta, di essere qb≤a⟨(q+1) b, soddisfa alle disuguaglianze 0≤r⟨b) si chiama il resto della divisione. Se, e solo se, il resto è zero, a si dice divisibile per b. I numeri q ed r risultano univocamente determinati.
Il problema della d. di due polinomi in una variabile si enuncia in modo analogo che per i numeri interi: dati due polinomi a(x) e b(x), di grado n ed m rispettivamente, con n≥m, si tratta di determinare due polinomi q(x) ed r(x), di grado, quest’ultimo, minore di m, tali che sia
a(x) = b(x) ∙ q(x) + r(x).
Il grado di q(x) sarà ovviamente n−m ed è facile vedere che la soluzione, se esiste, è unica. Un procedimento per determinare q ed r è il seguente. Detti a0 e b0 i coefficienti dei monomi di grado più alto nei polinomi a(x) e rispettivamente b(x), il polinomio
a0
r1(x) = a(x) − −−− xn−mb(x)
b0
ha certamente grado minore di n. Se il suo grado è anche minore di m il procedimento ha termine; altrimenti si determina, operando su r1(x) e b(x) in modo analogo a come si è fatto per a(x) e b(x), un polinomio r2(x) di grado minore del grado di r1(x); se ancora il grado di r2(x) non è minore di m si ripete il procedimento, finché non si perviene a un polinomio rh(x) (essendo h≤n−m+1) di grado minore di m. Sostituendo l’espressione di r1(x) per mezzo di quella in cui compare r2(x), quella di r2(x) per mezzo di quella di r3(x) ecc., si arriva, mettendo in evidenza b(x), a un’uguaglianza del tipo: rh(x)=a(x)−b(x)q(x); q(x) è allora il quoziente della divisione considerata ed rh(x)=r(x) ne è il resto. Il procedimento indicato è quello che viene seguito nell’esecuzione pratica dell’operazione, reso più spedito da un’opportuna disposizione dei polinomi sul foglio. Per es., la d. di 2 x3+3 per 2x2+2x−5 ha per quoziente x−1 e resto 7x−2; essa si può disporre così:
2x3 +3 2x2 + 2x − 5
2x3 + 2x2 − 5x x − 1
− 2x2 + 5x + 3
− 2x2 − 2x + 5
7x − 2.
Unità fondamentale fra le grandi unità organiche in cui, sin dal tempo di Napoleone, sono suddivisi gli eserciti moderni. Riunisce, sotto un unico comando, unità minori di diverse armi ed elementi dei vari servizi. All’inizio della Prima guerra mondiale in quasi tutti gli eserciti comprendeva 4 reggimenti di fanteria, un reggimento di artiglieria, aliquote varie di altre armi e servizi. Dopo la fine della guerra, in molti eserciti si articolò in 3 reggimenti di fanteria e 1 reggimento di artiglieria. Nel secondo dopoguerra fu quasi universalmente adottata la formazione su 3 reggimenti di fanteria (di cui uno, talvolta, meccanizzato o corazzato), un reggimento di artiglieria (comprendente gruppi da campagna, artiglierie pesanti campali e artiglierie contraeree), un gruppo esplorante corazzato, reparti del genio e aliquote dei vari servizi. Ne risultava un complesso assai potente, ma alquanto pesante (oltre 15.000 uomini, 2500 automezzi, 100 carri armati, un ragguardevole numero di rimorchi e di motocicli) che in genere si articolava in tre gruppi tattici misti di fanteria e di artiglieria. Da quest’ultimo ordinamento trae origine la tendenza, affermatasi negli eserciti della NATO, di dare fisionomia permanente a tali raggruppamenti, costituendoli sotto forma di unità organiche multiarma (brigate), raggruppate in numero di almeno due per divisione.
Accanto alle normali d. di fanteria vi sono d. di speciale composizione: divisione di cavalleria, di origine napoleonica, formate da reggimenti di cavalleria e gruppi di artiglieria a cavallo; divisioni alpine, composte da reggimenti alpini e da artiglieria da montagna; divisioni motorizzate, completamente montate su automezzi e perciò ridotte negli effetti per evitare eccessivi ingombri; divisioni corazzate, costituite essenzialmente da carri armati, ma con cospicue aliquote di artiglierie semoventi e fanterie meccanizzate; divisioni aviotrasportabili, costituite da unità alleggerite per più facile trasporto su aeromobili; divisioni paracadutisti; divisioni aeromobili, largamente dotate di elicotteri sia da trasporto sia di attacco; divisioni anfibie, dotate di mezzi di sbarco e destinate ad agire in stretta unione con forze navali leggere.
Nella Marina militare si chiama divisione un gruppo di navi dello stesso tipo o di tipo diverso, al comando di un ammiraglio, riunite secondo criteri organici, in modo tale da costituire un’unità combattente, adatta a specificare azioni.
Nell’Aeronautica militare, divisione aerea è l’unità costituita di due o più brigate aeree e di un comando.
Sull'impugnazione dei provvedimenti pronunciabili nel giudizio di divisione: novità nella giurisprudenza della Cassazione di Livia Di Cola