Stato dell’Europa occidentale, confinante a NE con la Francia e Andorra e a O con il Portogallo. La S., bagnata a NO e a SO dall’Atlantico, a S e a E dal Mediterraneo, comprende la maggior parte (85%) della Penisola Iberica, gli arcipelaghi delle Baleari nel Mediterraneo e delle Canarie nell’Atlantico (quest’ultimo fisicamente pertinente all’Africa), l’exclave costituita dalla cittadina di Llivia, nel Rossiglione, circondata da territorio francese, nonché le cosiddette plazas de soberanía in territorio africano, lungo la costa marocchina (le città di Ceuta e Melilla e gli isolotti Peñón de Vélez de la Gomera, Peñón de Alhucemas, Chafarinas).
La Spagna condivide con il Portogallo la configurazione unitaria della Penisola Iberica, caratterizzata dal nucleo geologicamente più antico della Meseta, dalle due regioni montuose, settentrionale (composta dall’allineamento dei Monti Cantabrici e dei Pirenei) e meridionale (Cordigliera Betica), e dalle aree intermedie, percorse e in parte colmate da fiumi (Ebro a N e Guadalquivir a S, mentre Duero, Tago e Guadiana drenano le alte terre centrali). I rilievi terziari settentrionali (Pirenei, sezione orientale dei Monti Cantabrici) sono l’elemento di contatto e insieme di separazione rispetto alla regione francese, dotata di ben diverse caratteristiche.
La Meseta occupa circa la metà della penisola e si configura come un insieme di alte terre (in media, 660 m s.l.m.), per gran parte spianate, ma attraversate e distinte in due grandi bacini (Meseta settentrionale e Meseta meridionale, corrispondenti all’incirca alle regioni storiche della Vecchia e della Nuova Castiglia) da una serie di antichi rilievi, principali dei quali la Sierra de Gredos (che raggiunge i 2592 m nell’Almanzor) e la Sierra de Guadarrama (Peñalara, 2430 m), che insieme costituiscono lo spartiacque tra Duero e Tago. Altri corrugamenti, anche notevoli, sottolineano i bordi esterni della Meseta: a N i citati Monti Cantabrici (massima altitudine: Picos de Europa, 2648 m), incombenti sul Golfo di Biscaglia; a NE ed E i rilievi del Sistema Iberico (Sierra del Moncayo, 2313 m), che per buon tratto segnano lo spartiacque fra Mediterraneo e Atlantico; a S la Sierra Morena (Sierra Madrona, 1323 m). Fra il Sistema Iberico e la Sierra Morena, la Meseta si spinge fino alla costa. Verso SO e O la Meseta è più aperta, percorsa dai fiumi che tributano all’Atlantico, e digrada più dolcemente verso le basse terre costiere dell’Andalusia e del Portogallo, mentre a NO torna ad accostarsi (con il massiccio della Galizia) alla riva oceanica, sulla quale si aprono le profonde incisioni delle rías (➔). Il paesaggio in certo senso dominante, e tipico della S., è proprio quello della Meseta: ampio, tabulare o lievemente ondulato, arido, a clima continentale, sfruttato a pascolo (ovino) o a cereali (e in qualche parte olivi), privo di insediamento sparso e complessivamente poco popolato. Quanto ai rilievi non correlati direttamente alla Meseta, il versante spagnolo dei Pirenei presenta una pendenza contenuta, pur raggiungendo altitudini notevoli sia lungo il crinale (Pico de Aneto, 3404 m; Monte Perdido, 3355; Puigmal, 2913) sia nelle digitazioni, spesso subparallele alla catena principale, che si susseguono verso S (Sierra del Cadí, 2638 m; Sierra de la Peña, 1769); nell’insieme, le masse montuose sono disposte compattamente, e i pur numerosi valichi risultano malagevoli in quanto si trovano a quote relativamente elevate, salvo alle estremità della catena. La Cordigliera Betica presenta un carattere alpino ancora più accentuato dei Pirenei, con forti pendenze e la massima elevazione della S. e della Penisola Iberica (Cerro de Mulhacén, 3478 m, nella Sierra Nevada). Ancora degni di nota sono i rilievi che compongono il Sistema Costiero Catalano, non tanto per l’imponenza (altezza massima, 1712 m), quanto perché sbarrano la via all’Ebro ormai prossimo al mare, costringendolo a un tortuoso percorso incassato. A fronte di questa vasta e complessa disposizione di masse montuose, le pianure vere e proprie (al di sotto dei 200 m di quota) coprono appena l’11% del territorio spagnolo: parte della Depressione Iberica (o Aragonese), cioè la sinclinale colmata dalle alluvioni dell’Ebro; una sottile striscia costiera orientale, che si fa più profonda in corrispondenza di Valencia e di Alicante; e un’ampia parte della Depressione Betica (o Andalusa), drenata dal Guadalquivir, l’unica notevole pianura della Spagna.
È possibile distinguere, in prima approssimazione, fra un’ampia area centrale a clima continentale e arido e frange costiere dove si fa più o meno sensibile l’incidenza della marittimità. Le differenze sono tuttavia molto più sfumate ed è opportuno individuare vari tipi climatici. L’area nord-occidentale, distesa lungo l’Atlantico, presenta condizioni tipiche di clima oceanico, con precipitazioni frequenti, temperature moderate e con escursioni contenute. Caratteristiche analoghe di piovosità interessano il versante pirenaico, dove le temperature sono, però, più basse e le escursioni più ampie. Nella Meseta, come si è ricordato, il clima è nettamente continentale, con minimi e massimi termici accentuati e precipitazioni modeste o modestissime, al di sotto dei 1000 mm, ma per larghi tratti (Vecchia e Nuova Castiglia, La Mancia, Estremadura meridionale), inferiori ai 500 mm. Queste caratteristiche sono poi presenti, ancora accentuate, nella regione circostante Saragozza (Depressione Aragonese). In Andalusia il clima è sostanzialmente subtropicale, con precipitazioni non abbondanti e temperature elevate: condizioni che non differiscono molto da quelle della S. sud-orientale, a clima mediterraneo, con più accentuata siccità e alte temperature estive.
La forte sproporzione fra l’estensione del bacino atlantico e di quello mediterraneo, dovuta sia all’inclinazione verso O della Meseta, sia alla distribuzione delle masse montuose, fa sì che nella maggior parte dei casi i fiumi più lunghi sono quelli diretti a O, benché il loro regime risulti instabile sia per l’alimentazione modesta e irregolare, legata ai soli periodi di pioggia, sia per la forte evaporazione. Il principale per lunghezza (1008 km) è il Tago, ma il Duero (895 km) ha un bacino (quasi 100.000 km2) e una portata notevolmente maggiori; entrambi, come anche la Guadiana, di modesta importanza nonostante la lunghezza (800 km), sono condivisi con il Portogallo. Più costanti e proporzionalmente ricchi d’acqua sono i corsi della regione cantabrica e quelli che dall’altopiano della Meseta scendono sul versante mediterraneo. L’Ebro (910 km, il maggiore fiume esclusivamente spagnolo) rappresenta un caso particolare tra i fiumi mediterranei, giacché dispone di un bacino molto ampio e riceve da numerosi affluenti, specialmente pirenaici, grandi quantità di acqua, che però perde attraversando l’arida Depressione Aragonese, così da giungere alla foce con portate assai modeste. Nell’insieme, il fiume di maggiore rilevanza risulta il Guadalquivir, per quanto abbia un corso meno sviluppato dei precedenti (657 km) e dreni un bacino non vastissimo, nel quale ricade però anche il versante settentrionale della Sierra Nevada, nella Cordigliera Betica, sicché il fiume ha un regime misto: l’alimentazione pluviale degli affluenti provenienti dalla Sierra Morena e quella nivale, differita, della Sierra Nevada determinano una portata relativamente ricca, ma soprattutto costante, che ne consente la navigabilità da Siviglia alla foce (85 km ca.) e un ampio sfruttamento a fini irrigui. Quasi tutti gli altri fiumi, invece, sono soggetti a magre a volte totali e a piene che possono essere catastrofiche.
Povero di laghi naturali, se si eccettuano lagunas e marismas che interessano le frange litoranee, il territorio spagnolo è fittissimamente cosparso di bacini artificiali (embalses), la cui funzione primaria è quella di costituire riserve d’acqua sia a fini direttamente irrigui sia per regolarizzare le portate dei fiumi, ma che spesso vengono sfruttati anche per la produzione di energia elettrica. Un cenno va fatto anche ai numerosi canali di derivazione (assai frequenti in Aragona, La Mancia, Valencia, Murcia, Andalusia) e a imponenti opere di diversione di acque fra bacini distinti, sempre a scopi irrigui: attraverso il Canal Trasvase Tajo-Segura (lungo quasi 300 km, entrato in servizio nei primi anni 1980) sono stati connessi i bacini del Tago e della Guadiana con il fiume Júcar, che sfocia nella piana di Valencia, e con il Segura, che percorre la regione di Murcia, dove sono stati realizzati nuovi ampi perimetri irrigui.
Alla varietà climatica corrisponde una discreta varietà biologica, nonostante le alterazioni dovute all’azione antropica. Tra le formazioni vegetazionali sono presenti quelle di tipo alpino, sui Pirenei, con prevalenza di conifere, mentre notevoli estensioni di foreste a latifoglie e prati spontanei interessano la regione atlantica; le regioni centro-meridionali sono invece ricoperte da formazioni di tipo mediterraneo (macchie e boschi sempreverdi di querce, carrubi, oleastri) che sfumano, nelle sezioni meno umide, nel tipo steppico o addirittura subdesertico. Le specie animali più diffuse corrispondono a quelle tipiche del bacino mediterraneo, con una particolare relazione con l’Africa settentrionale: esempi ne sono le bertucce di Gibilterra (le sole scimmie europee, forse introdotte dall’uomo), alcuni Viverridi (genetta, mangusta), Rettili (camaleonte), Uccelli acquatici (fenicotteri), consistenti gruppi di Invertebrati; altre peculiarità faunistiche possono essere individuate nella larga presenza di Rapaci (aquile, avvoltoi), lupi, linci e alcune specie di Artiodattili, come il camoscio dei Pirenei.
Nel 1857 (data del primo censimento ufficiale) la popolazione era di 15,5 milioni di abitanti. Nel corso del 19° sec. agirono due tendenze principali: l’industrializzazione e la polarizzazione urbana, che riguardarono in modo particolare le regioni settentrionali (Galizia, Paesi Baschi, Catalogna), e l’emigrazione verso l’America Latina; quest’ultima si è mantenuta costante e sostenuta fino alla metà del 20° sec., per essere poi sostituita da flussi intraeuropei verso Francia, Germania e Svizzera; a partire dagli ultimi decenni del secolo, poi, la S. è divenuta anche paese di immigrazione. La popolazione complessiva è quasi raddoppiata nel giro di un secolo (1955: 28,9 milioni di ab.), nonostante gli effetti della guerra civile (1936-39, un milione di morti) ed è ulteriormente cresciuta del 35% fino agli anni 1990, a partire dai quali ha seguito tendenze demografiche analoghe a quelle degli altri paesi europei, registrando un forte contenimento del tasso di incremento medio annuo (0,1%), a fronte di un tasso di natalità che si è ridotto a circa il 9,7‰ e uno di mortalità intorno al 9,9‰, e avviandosi, quindi, a una fase di stazionarietà demografica. L’accrescimento che ha portato la popolazione spagnola a superare i 40.000.000 di ab. nel primo decennio del nuovo millennio è pertanto dovuto all’immigrazione che ha via via interessato quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale e che, per quanto riguarda la S., è stata costituita prevalentemente da flussi provenienti dal Marocco e da Stati latinoamericani.
La distribuzione territoriale continua a essere fortemente squilibrata, e il dato della densità media dell’intera S., molto basso in confronto al resto dell’Europa occidentale, non ha che un valore puramente indicativo: infatti, si va da una densità minima di 9 ab./km2 nella provincia di Soria (Castilla y León) e di 10 in quella di Teruel (Aragona) ai valori più elevati (intorno ai 600 ab./km2) delle province di Vizcaya, Barcellona e Madrid, dove è la presenza di grandi centri urbani a determinare l’addensamento. Per grandi linee, rimane netta la tradizionale divaricazione fra le aree strettamente costiere, così atlantiche come mediterranee, dove si registrano le maggiori densità (oltre che nella provincia di Madrid e nei due arcipelaghi), e le aree interne, dove è assente il popolamento sparso e gli abitanti sono raggruppati in centri più o meno cospicui, ma generalmente molto radi.
Anche la S., come gli altri paesi europei, ha vissuto una forte spinta all’inurbamento e, più recentemente, fenomeni di decongestionamento. La popolazione urbana ha superato il 77% del totale (ma il dato risente anche del popolamento accentrato nelle regioni rurali, e non solo della crescita delle grandi città) e si è addensata soprattutto in un numero relativamente ristretto di grandi agglomerazioni. La regione madrilena ospita quasi 6 milioni di ab., distribuiti nella capitale e in una serie di centri (Alcalá de Henares, Alcorcón, Getafe, Leganés, Móstoles i principali) che le fanno immediatamente corona e che si sono sviluppati in funzione di Madrid stessa, del suo assorbimento di attività amministrative e produttive. Una situazione analoga si riscontra per la seconda città della S., Barcellona, che è oggi il cuore di un’assai più vasta conurbazione che incorpora le città di Badalona, L’Hospitalet de Llobregat, Sabadell, Santa Coloma de Gramenet, Sant Boi de Llobregat, Terrasa e altre, per un totale di circa 4 milioni di abitanti. Dimensioni minori ha l’agglomerazione di Bilbao, fulcro di un fitto allineamento di centri urbani lungo il fiume Nervión e la ría che ne prolunga la foce in mare, che nell’insieme ospita oltre 900.000 abitanti. Relativamente monocentriche sono Valencia e Siviglia, che pure hanno un immediato intorno fittamente urbanizzato, cosparso di centri medi e piccoli, e così, in misura maggiore o minore, Malaga, Murcia, Vigo, Granada, Alicante, Gijón, e La Coruña, mentre Saragozza, Valladolid e Cordova appaiono decisamente isolate in regioni rurali e poco popolate (ma sono, queste ultime tre città, le più interne fra quelle citate). Il quadro urbano della S. non si risolve nelle città ricordate: un’altra trentina di centri si distribuisce fra i 100.000 e i 200.000 ab., in gran parte città con funzioni amministrative. Al di sotto di questa dimensione demografica, le caratteristiche urbane si diluiscono rapidamente, i centri sono piuttosto grosse borgate, in genere, ma non necessariamente, rurali, o villaggi (pueblos), le une e gli altri più radi nelle aree interne. Dopo che un intenso esodo rurale ha alimentato il bipolarismo Madrid-Barcellona, le altre principali città sono state investite della funzione di poli di sviluppo regionale, su cui dirottare iniziative economiche e, di conseguenza, popolazione, nell’intento di riequilibrare l’assetto demografico e produttivo del paese.
Lingua ufficiale è il castigliano, mentre sono riconosciute le lingue parlate in ambiti regionali: catalano, basco e gallego. La religione è cattolica, con esigue minoranze di protestanti, ebrei e musulmani.
La S., attraverso il graduale processo di democratizzazione, la piena applicazione dell’ordinamento regionale (con l’istituzione di 17 comunità autonome) e l’oculata gestione delle proprie risorse e degli aiuti eurocomunitari, ha compiuto progressi assai più cospicui di quelli che si potevano immaginare nella seconda metà degli anni 1980, allorché il paese, fatto il suo ingresso nella CEE, ne veniva considerato un’ingombrante appendice mediterranea, in condizioni appena migliori di quelle dei due ‘fanalini di coda’, Portogallo e Grecia. La crisi globale del 2009 ha tuttavia fortemente inciso sull’economia spagnola, che dopo 16 anni di crescita ha registrato una contrazione del 3,9%. I problemi più pressanti che il paese oggi si trova a dover affrontare e risolvere sono quelli del debito pubblico (7,9% del PIL nel 2009), della disoccupazione (oltre il 19% nel 2009) e delle disparità regionali. La disoccupazione, assai squilibrata tra i sessi (altissima per quello femminile) e nelle diverse parti del paese, presenta valori particolarmente elevati nella Cornice Cantabrica (l’insieme delle tre comunità autonome della Cantabria, delle Asturie e dei Paesi Baschi), a causa della dismissione di molte industrie pesanti. Le disparità regionali disegnano una netta dicotomia: da una parte, una S. modernizzata e prospera, rappresentata dalla comunità autonoma urbana della capitale e, soprattutto, dalla Catalogna, che, avvalendosi largamente dei vantaggi offerti da uno statuto di autonomia utilizzato nel migliore dei modi e di un’antica tradizione industriale, si colloca tra le regioni più avanzate di tutta l’UE; dall’altra, una S. arretrata, comprendente le sezioni meridionale (essenzialmente l’Andalusia, che, nonostante le sue risorse agricole e turistiche mediterranee continua ad accusare un malessere accentuato, rivelato dall’elevatissimo tasso di disoccupazione e dai valori di altri indicatori socioeconomici) e nord-occidentale del paese e, soprattutto, le vaste zone interne. Altri aspetti negativi dell’economia spagnola sono rappresentati dal deficit energetico che pesa gravemente sulla bilancia commerciale e che determina un rilevante aumento dell’inflazione.
Nell’insieme, la produttività dell’agricoltura spagnola rimane alquanto distante da quella registrata dagli altri paesi membri dell’Unione Europea: l’assetto fondiario, ancora caratterizzato dalla frammentazione che non consente innovative applicazioni dei fattori di produzione, e la scarsità di acqua sono i principali limiti strutturali. Attraverso una saggia gestione dei consistenti aiuti erogati dall’Unione Europea, si è tuttavia dato avvio a un’organica politica di pianificazione dell’uso delle acque e alla costruzione di serbatoi. Nonostante la netta diminuzione del numero di addetti (4,2% della forza-lavoro nel 2008), la S. resta comunque un importante paese agricolo. La cerealicoltura, in particolare, contrassegna tuttora il paesaggio agrario della S. arida (secanos), fornendo grandi quantità di prodotto (116 milioni di q di orzo; 63 di frumento; 36 di mais). Ma sono altre le produzioni che hanno rilevanza a livello mondiale e che garantiscono redditività e competitività anche ad aziende medio-piccole: gli agrumi (in assoluta prevalenza arance e mandarini: 51,4 milioni di q nel 2007, primo produttore europeo e sesto mondiale), prodotti nelle regioni mediterranee; l’olivo, coltivato su estensioni vastissime e razionalmente organizzate, spesso di impianto recente e quindi ad alta produttività, soprattutto in Andalusia, Estremadura e Nuova Castiglia (57 milioni di q di olive; 12 di olio, maggiore produzione mondiale); la vite, diffusa un po’ ovunque, sia nelle varietà da uva da tavola (celebre la produzione di Malaga) sia in quelle da vinificazione (34 milioni annui di hl di vino, terzo posto nel mondo, in gran parte di qualità commerciale elevata: Navarra, La Rioja, La Mancia, Valencia, Andalusia); altra frutta da tavola (mele, pesche, pere, banane), ortaggi (primizie) e fiori, sempre più spesso a coltura forzata o nelle huertas di tradizione araba e mediterranea o, ancora, nei comprensori irrigui (regadíos) di recente realizzazione, che hanno aggiornato e diffuso il modello della huerta anche nelle regioni centrali e settentrionali. All’ortofruttifloricoltura, in particolare, sono stati rivolti i maggiori sforzi di potenziamento e di riconversione colturale, grazie alla costituzione di nuovi perimetri irrigui, ma sono state potenziate anche le colture industriali (barbabietola da zucchero, tabacco, cotone e girasole) che non si adattano alle condizioni colturali dominanti nella penisola. Dagli anni 1990 si segnalano notevoli successi di nuove colture, come quella del kiwi. Nell’ambito dell’economia rurale, specialmente in alcune regioni, è rilevante l’apporto della selvicoltura (14 milioni di m3 di legname all’anno), praticata nella parte nord-occidentale del paese, mentre Catalogna, Andalusia e soprattutto Estremadura sono le aree di produzione del sughero (di cui la S. è il principlae produttore mondiale insieme con il Portogallo).
Forte di una tradizione molto radicata, l’allevamento ovino (21 milioni di capi) continua ad avere un’importanza notevole nell’ambito europeo; la S. è inoltre tra i maggiori allevatori mondiali di suini (26 milioni). L’allevamento bovino (6 milioni) viene praticato nelle regioni settentrionali, umide e dotate di pascoli naturali di buona qualità, e copre il fabbisogno di latte e carne. Ancora alle regioni settentrionali va ascritta una lunga tradizione di attività peschereccia, un tempo motore delle economie portuali della fascia atlantica, oggi vivace anche nei porti andalusi: con 1,1 milioni di t annue di pescato (principalmente dalla pesca oceanica) e un assetto organizzativo moderno, sia nell’armamento della flotta, sia nel trattamento del prodotto, il settore peschereccio spagnolo è uno dei più sviluppati d’Europa.
Il settore industriale occupa il 24% della popolazione attiva. In seguito all’ingresso nell’Europa comunitaria, la S. ha dovuto accelerare il processo di riconversione del suo vecchio apparato produttivo, chiudendo molte delle miniere di carbone e di ferro e dismettendo molti degli impianti siderurgici e cantieristici, specialmente nella Cornice Cantabrica. Nel suo complesso, comunque, il sistema industriale spagnolo risulta piuttosto sviluppato e ben equilibrato fra i vari settori di produzione e sostiene un consistente flusso di esportazioni.
La disponibilità di minerali, all’origine dell’industrializzazione della S., già nota e ampiamente sfruttata nell’antichità, costituisce ancor oggi una risorsa ragguardevole. Il minerale di ferro, che si estrae soprattutto nella provincia di Vizcaya e nelle Asturie, insieme con il carbone fossile (11 milioni di t annue nel 2008, e inoltre 6 t di lignite) ugualmente ricavato nell’area asturiana, nonché in minori giacimenti altrove, costituì il fattore localizzativo per l’industria siderurgica atlantica, ancora ben rappresentata nella Vizcaya, nelle Asturie (Avilés, Gijón), a Santander ecc., mentre quella catalana, nell’area barcellonese, è orientata alla produzione di acciai speciali. Complessivamente, la produzione di ghisa è pari a 4 milioni di t, quella di acciaio a 19 milioni (2008). Interessante anche la presenza di altri metalli relativamente pregiati (piombo e zinco) e quella di piriti ad alto tenore di zolfo, di fluorite, magnesite e sali potassici, materie prime per le produzioni chimiche di base, che hanno conosciuto uno sviluppo notevolissimo (Catalogna). Sulla siderurgia si innestarono le produzioni cantieristiche, ancora relativamente vivaci nonostante la recente generalizzata contrazione del settore in Europa (El Ferrol, Cartagena, Bilbao, Barcellona, Cadice), e quelle meccaniche (Barcellona, Madrid, Valencia), nel cui ambito uno sviluppo tutto particolare ha realizzato la fabbricazione di autoveicoli, ben distribuita in svariati centri di produzione, che, a sua volta, sostiene un’industria della gomma assai sviluppata (Barcellona). Conservano l’importanza tradizionale il comparto tessile catalano e quello alimentare, molto diffuso sul territorio, mentre un buon dinamismo mostrano le più recenti attività legate alle telecomunicazioni e all’elettronica. Resta piuttosto pesante il ricorso all’importazione per quanto riguarda le fonti energetiche convenzionali, malgrado siano in funzione diverse centrali termonucleari. Nel suo complesso, il sistema industriale spagnolo risulta piuttosto sviluppato e ben equilibrato fra i vari settori di produzione e sostiene un consistente flusso di esportazioni.
Il settore dei servizi assorbe circa il 71% della forza-lavoro (in buona parte impiegata nelle attività connesse con il turismo). A partire dall’ultimo decennio del 20° sec. si è assistito, quasi esclusivamente nelle comunità culturalmente ed economicamente più evolute, e in specie nella Catalogna, a una rilevante crescita e diffusione del terziario avanzato. Il turismo rappresenta una delle più importanti fonti di introiti e la S. si colloca a uno dei primi posti della graduatoria mondiale degli arrivi (59 milioni di unità nel 2008).
Uno degli elementi strutturali che maggiormente ricevono interventi di potenziamento è il sistema delle comunicazioni terrestri. La rete ferroviaria (15.288 km nel 2008, per poco più della metà elettrificati), senz’altro in parte ancora inadeguata alle necessità del paese e del resto seriamente vincolata alle caratteristiche morfologiche, ha subito un’importante ristrutturazione: è in corso il completamento della rete ad alta velocità a scartamento europeo. La rete stradale si avvale di circa 14.600 km di autostrade. Il trasporto aereo, largamente basato sui collegamenti internazionali, appare ben collocato sul mercato mondiale. I principali porti sono quelli di Barcellona e Bilbao.
Nell’insieme, il commercio estero della S. fa registrare un costante deficit, in parte per l’aumento delle importazioni di prodotti energetici, ma forse in misura maggiore a causa della diversificazione e della crescita rapidissima dei consumi, nonché degli sforzi per accelerare l’adeguamento dell’economia ai livelli europei. Il deficit, peraltro, è parzialmente compensato dall’imponente afflusso di valuta estera prodotto dal turismo internazionale, che mantiene da molti anni una tendenza positiva. I principali partner sono i paesi dell’Unione Europea (Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna) e gli Stati Uniti.
La presenza dell’uomo in S. è attestata nel Paleolitico inferiore (Abbevilliano, Acheuleano) e medio (Musteriano). Tra i resti più antichi sono le forme arcaiche di Homo sapiens provenienti da giacimenti del Pleistocene medio della Sierra di Atapuerca (Burgos). Durante il Paleolitico superiore, nel nord della Penisola Iberica si ebbe una successione culturale con gli aspetti aurignaziano, solutreano e maddaleniano.
In questo lungo spazio di tempo nella S. settentrionale si sviluppò l’arte franco-cantabrica (➔) diffusa anche nel Levante spagnolo (Grotta del Parpalló), e nel Mezzogiorno si infiltrarono aspetti industriali ad affinità nord-africane, come nella caverna della Pileta, dove si hanno figurazioni parietali di animali di uno stile naturalistico vicino a quello franco-cantabrico. Questa pittura rupestre naturalistica si trasformò poi gradualmente in un’arte schematica, con stilizzazione di figure umane e animali.
Agli inizi dell’Olocene, nella parte settentrionale della S. si diffuse l’industria mesolitica aziliana. Mesolitici e neolitici sono i køkkenmøddinger (cumuli di rifiuti, in gran parte gusci di molluschi, che indicano gli insediamenti costieri) estesi in prossimità dell’Atlantico, dalla regione di Baiona al Portogallo, in parte collegati con l’aspetto industriale asturiano.
Durante il Neolitico la Penisola Iberica ebbe sviluppi originali (civiltà di Almería) e influenze europee e mediterranee (correnti della ceramica impressa ed epicardiale, facies di Chassey). Nel periodo di transizione dal Neolitico all’età del Bronzo si sviluppò la civiltà megalitica, con tombe dolmeniche e costruzioni che avevano origine dal dolmen: le celle megalitiche, precedute da corridoio di accesso, e le celle coperte da una specie di cupola alzata con blocchi di pietra sovrapposti ad aggetto, precedute da corridoio. Questo periodo di transizione, detto anche Eneolitico iberico, fiorì nella S. meridionale con la città di Los Millares nell’Almería, costituita da abitazioni con muri di pietra, difese da aggere e fossa; nei pressi erano tombe dolmeniche con cupola ad aggetto. Dall’Almería e dalle regioni finitime provengono idoli femminili di scisto, alabastro e osso, nei quali la figura umana è ridotta a due triangoli uniti al vertice, rappresentazione che si osserva anche nell’arte schematica rupestre coeva. Cospicua la quantità di armi e strumenti litici; scarsi gli oggetti di rame e oro. Nella ceramica d’arte è tipico il bicchiere campaniforme, che si diffuse nell’Europa occidentale e centrale.
Alla breve facies culturale successiva, detta argarica, seguirono in tutta la Penisola Iberica molti secoli in cui si svilupparono vari aspetti locali. A un periodo recente della civiltà del Bronzo datano i talaiots (➔) delle Baleari, affini ai nuraghi sardi; alle prime fasi dell’età del Ferro rinviano le ceramiche della civiltà dei Campi di Urne, nel nord-est della S.; appare infine la cultura iberico-celtica, con un elevato grado di civiltà.
Il territorio dell’attuale S. fu colonizzato nel 1° millennio a.C. da Fenici, Celti, Greci, Cartaginesi, e infine conquistato dai Romani (3°-2° sec. a.C.) grazie alle campagne di P. Scipione Africano (210-206 a.C.). Durante l’età repubblicana vi furono numerose sollevazioni delle popolazioni indigene; le province furono pacificate sotto Augusto, e, grazie all’intensa colonizzazione, furono profondamente romanizzate ed ebbero un grande sviluppo economico. Cristianizzate nel 2°-3° sec., all’inizio del 5° sec. subirono le invasioni di Vandali, Svevi e Alani (409), poi dei Visigoti (415), che vi organizzarono un vasto regno romano-barbarico con capitale Toledo. Tuttavia non riuscirono del tutto nell’opera di consolidamento dello Stato. Seguirono la conversione di re Recaredo (586-601) dall’arianesimo al cattolicesimo con la conseguente partecipazione dell’alto clero al governo (Concili di Toledo), e l’unificazione legislativa operata dal re Recesvindo (649-72) con la promulgazione di una Lex Wisigothorum, che aboliva la tradizionale dualità dei diritti tra vinti e vincitori: l’alta nobiltà, padrona di vasti latifondi, mantenne un elevato grado di autonomia di fronte al potere regio. Negli ultimi decenni del 7° sec. divenne palese che il re non era in grado di tenere sotto controllo l’alto clero e la nobiltà neanche con la forza.
Nel 710 la S. fu travolta da Arabi e Berberi di religione musulmana provenienti dall’Africa settentrionale, che condotti da Ṭāriq ibn Ziyād posero fine al dominio dei Visigoti, ormai indebolito, e conquistarono gran parte del territorio spagnolo (711), dando inizio a una dominazione destinata a durare fino al 1492.
I conquistatori, chiamati poi dagli Spagnoli Mori e anche, più tardi, con significato spregiativo, Moriscos, furono accolti bene dalla popolazione indigena, insofferente dell’esoso fiscalismo visigotico; la larga tolleranza religiosa agevolò la trasformazione dell’occupazione del paese in conquista stabile (nel 713 il califfo di Damasco fu proclamato, in Toledo, sovrano della regione occupata). La rivolta dei Berberi (732-756), malcontenti di aver avuto le regioni più povere (Galizia, Asturie, León), repressa nel sangue, ne provocò l’emigrazione verso sud. La linea di frontiera della S. musulmana divenne così una linea che toccava Coimbra, Coria, Talavera, Toledo, Guadalajara, Tudela e Pamplona e, nei Pirenei centrali, non oltrepassava Alquézar (Sobrarbe), Roda (Ribagorza), Ager (Pallás), lasciando fuori le regioni nord-occidentali della Penisola Iberica.
L’omayyade ‛Abd ar-Raḥmān I, fattosi riconoscere emiro di Cordova (756), organizzò saldamente il paese, sottraendolo di fatto alla sovranità del califfo di Baghdad. Le gravi crisi che successivamente sconvolsero la S. (le rivolte di ‘rinnegati’, cioè i cattolici convertiti all’islam, e di cattolici contro i potenti fuqahā’ o giureconsulti; l’attrazione esercitata sui cattolici sudditi degli Arabi dai minuscoli Stati cristiani salvatisi dall’invasione; le insurrezioni di nobili Arabi e rinnegati; scorrerie dei Normanni iniziate nell’844; la lotta fra Berberi e Arabi) non riuscirono a spezzare lo Stato creato da ‛Abd ar-Raḥmān, che resistette fino all’11° secolo. Dopo un periodo di quasi generale anarchia (9° sec.), infatti, l’unità fu salvata da ‛Abd ar-Raḥmān III, il più grande degli Omayyadi spagnoli (912-61) che assunse il titolo di califfo a Cordova (929). L’epoca del califfato di Cordova fu il periodo più splendido della S. musulmana: fiorì una grande civiltà, mirabile per lo sviluppo economico (agricolo, ma anche industriale), fastosa per costruzioni e per il tono culturale; l’apice della potenza politica fu toccato, sotto il califfato di Hishām II (976-1008), con il generale al-Manṣūr, che invase il regno di León e conquistò Barcellona, giungendo fino a Santiago de Compostela (997). Morto al-Manṣūr (1002), lotte civili e razziali, rivolgimenti sociali a sfondo religioso ecc. sconvolsero il califfato, che crollò quindi per crisi interna nel 1031 e fu frazionato in piccoli Stati, i cosiddetti regni di Taifas, governati da potenti famiglie.
Di questa divisione approfittarono i regni cristiani del nord per iniziare la reconquista (fig. 2). Tali Stati si erano costituiti per il ritiro, al momento dell’invasione musulmana, di non pochi indigeni sui monti delle Asturie dove, secondo una incerta tradizione, il re Pelagio avrebbe battuto gli Arabi (718) e organizzato il primo regno cristiano di Oviedo, divenuto nel 740 regno delle Asturie; nel 9° sec. la frontiera meridionale fu portata fino al fiume Duero e la capitale trasportata a León (dal 918 Regno di León). La vittoria di Ramiro II (931-51) sui musulmani a Simancas (939) ebbe risonanza europea. Nel periodo seguente, però, il conte di Castiglia si rese indipendente dal re di León e presto altri potenti feudatari seguirono il suo esempio: nel 10° sec. esistevano i regni cristiani di Navarra (presto marginalizzato), di Castiglia e Léon (uniti nel 1037) e di Aragona (che nel 1137 si unì alla contea di Barcellona), le cui forze riunite si spinsero fino a Cordova (1010); ma, dopo le prime vittorie, la penetrazione cristiana nella S. musulmana subì un arresto.
Invocati dai re di Taifas, i Berberi almoravidi passarono in S. sconfiggendo Alfonso VI di Castiglia a Zallāqa (1086) e tra il 1091 e il 1110 riconquistarono gran parte delle antiche terre musulmane, instaurando un nuovo regime di intolleranza religiosa. Il dominio almoravida crollò per opera degli Almohadi (Maiorca, ultimo baluardo degli Almoravidi, cadde nel 1202) che, meno intolleranti dei loro predecessori, riuscirono per qualche tempo a frenare l’avanzata dei re cristiani di Castiglia e di Aragona (1195) ma, indeboliti da lotte dinastiche, subirono una sconfitta decisiva nella battaglia di Las Navas de Tolosa (1212). Apertasi la via del sud, le forze cristiane, verso il 1270, ridussero il dominio musulmano al solo regno di Granada (➔), che durò tuttavia fino al 1492.
L’ultima fase della lotta contro i musulmani mostra chiaramente che tutta la Penisola Iberica era sotto l’effetto di due grandi forze motrici: il regno di Aragona e quello di Castiglia. L’Aragona, staccatasi dalla Navarra, aveva finito con l’aggregarsi nel 1076 la stessa Navarra, conservandola fino al 1134; nel 1137, il matrimonio tra Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, e Petronilla, erede del trono aragonese, aveva consentito l’unione fra Catalogna e Aragona nella confederazione catalano-aragonese, nota in seguito con il nome di regno d’Aragona. Raimondo Berengario IV (1131-62), Alfonso II (1162-96) e Giacomo I (1213-76) conquistarono i regni di Valencia, di Murcia, delle Baleari e sistemarono i confini aragonesi. La monarchia di Castiglia e León, le cui due corone, unite dal 1037, si scissero nuovamente nel 1065-72 e nel 1157-1230, fu invece l’erede dell’opera della monarchia asturiana: raggiunta la linea del Tago, minacciò la S. meridionale e infine, sotto Ferdinando III (1217-52), conquistò Cordova, Jaén, Siviglia, l’Andalusia e si spinse fino a Cadice (1236-48); contemporaneamente il centro di gravità si spostava verso il Sud (nel 1085 la capitale era stata trasferita a Toledo) e, nel 1230, l’unità era saldamente costituita: essendo la Castiglia la parte più importante del regno, questo fu ben presto chiamato regno di Castiglia.
Questi due regni, divenuti politicamente marginali il regno di Navarra (territorialmente ridotto ed entrato nella sfera d’influenza francese) e quello di Portogallo (indipendente dalla Castiglia-León nel 1263), rimasero a contendersi l’egemonia. Mentre la monarchia castigliana continuava la politica di espansione territoriale verso sud, quella aragonese, costretta nel 1213 dalla sconfitta di Muret, dove morì lo stesso re Pietro II, a rinunciare alla politica di espansione verso la Francia, avviò una politica mediterranea in grande stile (Sicilia, Sardegna, imprese della Compagnia catalana in Grecia e in Asia Minore). L’uno e l’altro regno tuttavia furono travagliati (sec. 14°-15°) da violente discordie interne, spesso degenerate in guerre civili, nel cui corso mutarono anche le dinastie: sul trono di Castiglia, nel 1369, si ebbe l’avvento dei Trastamara con Enrico II; su quello di Aragona, nel 1412, morto senza eredi Martino I, per il compromesso di Caspe, salì il nipote Ferdinando d’Antequera, figlio di Giovanni I re di Castiglia: l’insediamento di una dinastia castigliana sul trono di Aragona costituì un primo passo importante verso l’unità spagnola.
Nella seconda metà del 15° sec., alla morte di Enrico IV (1474), scoppiò una nuova guerra civile in Castiglia fra la sorella di lui Isabella I, dal 1469 moglie di Ferdinando il Cattolico, futuro re di Aragona, e i sostenitori di Giovanna del Portogallo (la Beltraneja). Con la vittoria definitiva di Isabella (1479) iniziò una nuova fase nella storia spagnola: essendo in quello stesso anno salito al trono di Aragona il marito Ferdinando, si venne a realizzare un’unione fra i due regni fino a quel momento divisi. Si trattava ancora di un’unione puramente personale, destinata a diventare definitiva nella persona del nipote Carlo (Carlo V).
L’epoca di Ferdinando e di Isabella fu l’età d’oro della storia spagnola: caduta Granada (1492) e conclusasi così la reconquista, la guerra contro i musulmani fu portata sul litorale nord-africano (presa di Orano e Bugia [od. Béjaïa], 1509; di Tripoli, 1511; sottomissione di Algeri e di Tunisi). Ferdinando d’Aragona intervenne nella grande contesa europea per il predominio in Italia, conquistandone il Mezzogiorno (1504); nel 1512 con l’annessione della Navarra spagnola venne a compiersi l’unità anche dal lato dei Pirenei. Sullo scorcio del 15° sec. fu gradualmente introdotta l’Inquisizione spagnola, che colpì con particolare durezza le minoranze religiose ebraiche e musulmane, considerate estranee alla cultura spagnola e perturbatrici della riconquistata unità cristiana: nel 1492 gli Ebrei furono espulsi dal paese; molti marrani e loro discendenti furono condannati al rogo; proscritto l’islamismo (1502), i Moriscos saranno anch’essi espulsi, fra il 1609 e il 1614, per ordine di Filippo III.
Le scoperte di C. Colombo offrirono alla S. nuovi domini: fra il 16° e il 18° sec., sarebbe stata posta sotto la sovranità spagnola tutta l’attuale America Latina continentale (escluso il Brasile, colonizzato dai Portoghesi, e altre piccole zone). Il sorgere dell’impero coloniale in America rafforzò anche la posizione europea del paese, che sembrò diventare di assoluta egemonia sotto il regno di Carlo V (1516-56) per l’accomunarsi della Castiglia e dell’Aragona con l’Impero e con i domini ereditari degli Asburgo; anche quando, con l’abdicazione di Carlo V e l’avvento di Filippo II (1556), ritornò a essere una individualità politica distinta, la S. poté ancora per alcuni decenni essere alla testa della politica europea, realizzare l’assoluta unità peninsulare (1581, conquista del Portogallo) e associare i propri interessi egemonici al moto religioso della Controriforma.
Ma in questo splendore si celavano motivi di profonda e rapida decadenza: sotto Carlo V, l’associazione con Stati dalla struttura totalmente diversa costrinse la S. ad alimentare, con le ricchezze del Nuovo Mondo, conflitti che la distraevano dai suoi immediati interessi (guerre con la Francia, crollo del dominio in Africa, lotta ai movimenti religiosi luterani). Sotto Filippo II l’accentramento statale, l’intolleranza religiosa (1566, rivolta dei Moriscos), l’accentuarsi della crisi economica, comune a tutta l’Europa e provocata dall’eccessivo affluire dei metalli preziosi americani, colpirono a morte la stessa potenza spagnola. La politica di Filippo II falliva in Francia (avvento di Enrico IV, ex calvinista, e pace di Vervins del 1598), nei Paesi Bassi, ribellatisi da un trentennio, in Inghilterra (1588, distruzione della Invencible Armada).
I successori Filippo III (1598-1621) e Filippo IV (1621-65) furono costretti a riconoscere l’indipendenza dei Paesi Bassi e quella del Portogallo (1640) e invano, dopo il trattato di Vestfalia (1648), cercarono di proseguire per proprio conto la guerra dei Trent’anni: con la pace dei Pirenei (1659) furono costretti ad abbandonare alla Francia l’Artois, il Lussemburgo, alcune piazzeforti delle Fiandre, il Rossiglione e la Cerdaña. Carlo II (1665-1700) dovette cedere alla Francia altre piazzeforti delle Fiandre e la Franca Contea e, alla sua morte senza eredi maschi, la guerra di successione di S. rivelò come il paese, un secolo prima potenza dominante in Europa, fosse scaduto a semplice ‘oggetto’ di politica internazionale.
I domini americani della S. furono organizzati nelle loro linee generali entro la metà del 16° sec., secondo il modello centralizzato che si andava affermando nella madrepatria. Il Consejo de Indias era il massimo organo legislativo, amministrativo e giudiziario del governo coloniale. Rispettivamente nel 1535 e nel 1542 furono costituiti i vicereami della Nuova S. (Messico, America Centrale e costa venezuelana) e del Perù (Istmo di Panamá e tutti i domini spagnoli a S di questo), alla testa dei quali furono posti i viceré, funzionari nominati (dal Consejo de Indias con l’assenso del re) per un periodo determinato e revocabili, cui era conferita la suprema autorità civile e militare. Subordinati ai viceré, i capitani generali esercitavano le stesse prerogative su entità territoriali più ristrette. Viceré e capitani generali erano assistiti dalle Audiencias, organi collegiali dotati di competenze giudiziarie e consultive; le Audiencias non direttamente presiedute da un viceré o da un capitano generale erano guidate da un magistrato (presidente) ed esercitavano il potere su entità territoriali minori. L’amministrazione provinciale era ordinata nei corregimientos o alcaldías mayores, retti da un corregidor o da un alcalde; a livello municipale fu trasferito nel Nuovo Mondo il cabildo (o ayuntamiento), sorta di consiglio cittadino, unico istituto coloniale del quale potevano far parte i Creoli (Spagnoli nati in America), essendo le principali cariche politiche, militari ed ecclesiastiche riservate agli Spagnoli.
Nel 18° sec., dopo l’avvento della dinastia dei Borbone, furono costituiti i vicereami di Nueva Granada (attuali Panamá, Colombia, Venezuela ed Ecuador) e di Río de la Plata (Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia), vennero create nuove Audiencias e fu introdotto il sistema delle intendenze, che sostituì le antiche ripartizioni provinciali. Dopo il 1756 fu abolito il monopolio di Cadice e Siviglia, i soli porti autorizzati al commercio con l’America ispanica, e furono autorizzati gli scambi commerciali intercoloniali.
Le paci di Utrecht (1713) e di Rastatt (1714) diedero il trono al francese Filippo V di Borbone. Con la nuova dinastia ebbe inizio per la S. un periodo di ripresa; la politica dinastica di Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V, portò all’insediamento dei figli Carlo a Napoli e in Sicilia nel 1734, e Filippo a Parma e Piacenza nel 1748. Con Carlo III (1759-88) proseguirono e si estesero le riforme e nella politica ecclesiastica si affermò il giurisdizionalismo, qui detto regalismo.
Le ferite provocate dalla guerra di successione non poterono essere tutte rimarginate: Gibilterra restò in mano inglese, né a farla riavere alla S. valse il patto di famiglia del 1761, che legò la politica spagnola a quella francese con finalità antinglese e trascinò la S. nella guerra dei Sette anni e in quella per l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
L’alleanza franco-spagnola si spezzò con la Rivoluzione francese; dopo un primo periodo di aperte ostilità, chiuse dalla pace di Basilea nel 1795, seguì, un ritorno all’antica alleanza e a una politica antinglese rivelatasi fallimentare (1805, sconfitta di Trafalgar). Infine, anche in seguito ai contrasti scoppiati tra Carlo IV (1788-1808) e suo figlio Ferdinando, la S. divenne uno Stato vassallo della Francia con Giuseppe Bonaparte come re (1808).
Contro lo straniero il paese insorse compatto e il popolo combatté a fianco delle truppe britanniche inviate nella Penisola Iberica per liberarla dai Francesi (1808-14). Nella parte della S. non occupata fu eletta un’assemblea nazionale (Cortes), che nel 1812 promulgò a Cadice una Costituzione marcatamente liberale. La S. fu affrancata dall’occupazione francese grazie alle vittorie riportate, a partire dal 1812, dal duca di Wellington. Nel frattempo, l’insurrezione scoppiata nel vicereame del Rio de la Plata (1810) aveva segnato l’inizio del processo che avrebbe portato in pochi anni le province dell’impero coloniale americano alla conquista dell’indipendenza (➔ America).
Salito al trono nel 1814, Ferdinando VII di Borbone abolì la Costituzione del 1812 e perseguì una politica reazionaria. Nel 1820 la S. fu teatro di un importante moto liberale che impose il ritorno alla Costituzione del 1812, represso nel 1823 dalle armi francesi per conto della Santa Alleanza. Da allora la vita politica spagnola fu per molti anni contrassegnata da uno stato d’instabilità interna, dovuto al profondo dissidio politico fra tendenze liberali e reazionarie, al ruolo preminente assunto dall’esercito; l’abrogazione nel 1829 della legge salica a favore di Isabella II diede origine alle guerre carliste (➔ carlisti) con la conseguente guerra civile, conclusasi nel 1839 con la vittoria della reggente Maria Cristina.
Intorno alla metà del 19° sec. la S. attraversò un periodo di relativa espansione economica: grazie ai crediti dall’estero (Francia soprattutto), fu potenziata la rete ferroviaria, si svilupparono l’industria tessile catalana e quella della lana nei Paesi Baschi, furono gettate le basi per una moderna industria siderurgica e mineraria. Le vecchie strutture agrarie frenarono però il processo di sviluppo e il latifondo uscì addirittura rafforzato dalla vendita dei beni ecclesiastici e di quelli comunali (1854-55), acquistati in massima parte dai grandi proprietari terrieri, che con le gerarchie ecclesiastica e militare e la nascente borghesia della finanza e dell’industria costituivano il gruppo di potere dominante.
Nel 1868 una ribellione di ufficiali liberali costrinse Isabella II a lasciare il paese e una nuova Costituzione (1869) introdusse il suffragio universale maschile e una completa libertà religiosa. Il trono di S. fu offerto ad Amedeo di Savoia (1870), al cui breve regno, segnato dalla ripresa della guerra carlista e dall’opposizione repubblicana, fece seguito la proclamazione della Repubblica (1873), travolta l’anno dopo da un colpo di Stato militare; la dinastia borbonica fu restaurata nella persona di Alfonso XII (1874-85) e una nuova Costituzione (1876) reintrodusse il suffragio censitario e le posizioni di privilegio per la Chiesa cattolica.
Nel 1898 la sconfitta patita nel corso della guerra ispano-americana (➔ ispano-americana, guerra) e la perdita di Cuba, di Puerto Rico e delle Filippine ebbero enormi ripercussioni su tutta la nazione: le strutture politiche e sociali del paese furono sottoposte a profonda critica da parte di un gruppo di intellettuali, sul piano politico ripresero vigore la propaganda repubblicana e le rivendicazioni autonomistiche basche e catalane, mentre l’indirizzo reazionario assunto dalla monarchia e il perdurare degli squilibri nella distribuzione della proprietà terriera spinsero gli anarchici a ricorrere sempre più spesso al terrorismo.
Neutrale durante la Prima guerra mondiale (1914-18), la S. attraversò negli anni successivi, anche in conseguenza dello sviluppo del movimento socialista e anarchico, una fase di profonde tensioni, che nel 1923 con il sostegno di Alfonso XIII (1886-1931) portarono alla dittatura militare di M. Primo de Rivera. 8. La S. repubblicana
Nel 1931, in seguito alla vittoria elettorale alle municipali dei repubblicani e dei socialisti, Alfonso XIII fu deposto e, istituita la Repubblica, fu promulgata una Costituzione di carattere democratico-sociale avanzato. Varato uno statuto di ampia autonomia per la Catalogna (1932), il governo del repubblicano M. Azaña cercò di limitare il peso della Chiesa e dell’esercito nella vita politica del paese, introdusse una più avanzata legislazione del lavoro, ma non riuscì ad arginare la crescente disoccupazione né a soddisfare la richiesta di terra proveniente dal proletariato agricolo. Le elezioni legislative del 1933 furono vinte dal partito radicale di A. Lerroux García e da una coalizione di partiti di destra. Il predominio delle destre fu interrotto nel 1936 dalla vittoria del Frente popular (coalizione elettorale di repubblicani di sinistra, socialisti e comunisti), che poté contare anche sul tacito sostegno delle organizzazioni anarchiche. 8.2 La guerra civile. Mentre si moltiplicavano gli scontri tra formazioni paramilitari di destra e organizzazioni operaie, le occupazioni di terre da parte di contadini poveri, gli incendi e i saccheggi ai danni di chiese e monasteri, e il nuovo governo varava nuovi provvedimenti riformistici e anticlericali, il 17 luglio 1936 scoppiò in Marocco l’insurrezione del generale F. Franco, propagatasi il giorno seguente nella madrepatria. Proclamato capo dello Stato da una giunta riunita a Burgos nel settembre, Franco consolidò il suo potere fondendo tutti i gruppi di destra in un’unica formazione (la Falange), quindi assunse il titolo di capo del governo e delle forze armate (caudillo). Seguì una violentissima guerra civile (1936-39; fig. 3), durante la quale gli insorti fecero affidamento su consistenti aiuti in uomini e materiali da parte di Italia e Germania, nonostante i due paesi avessero formalmente aderito agli accordi di non intervento promossi da Francia e Gran Bretagna; il governo legittimo, oltre all’aiuto di migliaia di volontari accorsi da tutto il mondo e organizzati nelle Brigate internazionali, poté contare sul sostegno dell’URSS.
Caduta la Catalogna (gennaio 1939), sul fronte repubblicano si produsse una spaccatura tra militari, favorevoli a trattare la resa, e comunisti, decisi a resistere a oltranza e dal 7 marzo 1939 infuriarono a Madrid violenti combattimenti tra esercito e comunisti; il 28 marzo Franco, il cui governo era già stato riconosciuto anche da Francia e Gran Bretagna, entrò in città e il 1° aprile 1939 annunciò la fine del conflitto, costato alla S. incalcolabili danni materiali, circa un milione di morti e centinaia di migliaia di esuli. 8.3 Il regime franchista. Terminato il conflitto, Franco instaurò un regime autoritario (soppressione dei partiti politici, a eccezione della Falange), corporativo (sindacato unico) e centralista (abolizione degli statuti di autonomia). Nella Seconda guerra mondiale il paese rimase neutrale, nonostante le ripetute richieste di intervento da parte delle potenze dell’Asse. Un certo ridimensionamento del ruolo della Falange, l’istituzione di Cortes consultive (1942) e la concessione di una carta delle libertà individuali (1945) non impedirono nell’immediato dopoguerra l’isolamento internazionale della S., che per la natura antidemocratica del suo regime vide respinta la domanda di adesione all’ONU.
Restaurata nominalmente la monarchia con la legge di successione del 1947, che gli assegnava il ruolo di reggente a vita, Franco riportò il paese nel consesso internazionale approfittando dei contrasti tra gli Alleati e dell’avvento della guerra fredda. Nel 1955 la S. fu infine ammessa all’ONU. Parallelamente, l’autarchia economica e il controllo statale della produzione lasciarono posto al liberismo economico propugnato dagli influenti tecnocrati dell’Opus Dei (➔); grazie agli aiuti internazionali e ai proventi di un settore turistico in espansione, a partire dal 1960 la S. conobbe un notevole sviluppo industriale, mentre il settore agricolo rimaneva stagnante.
Nello stesso decennio, a fronte di una ripresa di vigore dell’opposizione e delle istanze separatiste in Galizia, Catalogna e nei Paesi Baschi, dove si costituì nel 1959 l’ETA (➔), furono varate timide riforme, tra cui il riconoscimento del diritto di sciopero per motivi economici (1965) e una legge più permissiva sulla stampa (1966); inoltre nel 1966 Franco separò le cariche di capo dello Stato e capo del governo (primo chiamato all’incarico sarebbe stato nel 1973, l’ammiraglio L. Carrero Blanco, poi vittima nello stesso anno di un attentato organizzato dall’ETA), stabilì l’elezione diretta di un sesto delle Cortes e proclamò il principio della libertà religiosa, pur restando il cattolicesimo religione di Stato; designò infine quale suo successore e futuro re di S. il principe Juan Carlos di Borbone, nipote di Alfonso XIII.
Sul piano della politica estera, tra il 1956 e il 1975 la S. rinunciò pacificamente ai suoi possedimenti africani (tranne le enclaves di Ceuta e Melilla).
Franco morì il 20 novembre 1975 e due giorni dopo Juan Carlos divenne re di Spagna. La transizione alla democrazia fu opera soprattutto del governo presieduto da A. Suárez González (1976-1981); nel 1981, il rifiuto del re di collaborare con i ribelli fece fallire un tentativo di colpo di Stato attuato da militi della guardia civile con il sostegno di settori delle forze armate. Con il ritorno alla democrazia per la S. iniziò un rapido processo di modernizzazione economica, sociale e politica, che rafforzò anche la sua immagine di Stato emergente nel consesso delle nazioni più sviluppate. Il sistema politico assunse i tratti di una democrazia dell’alternanza, con il succedersi al governo di forze di centro e di centro-destra e di centro-sinistra: le prime alla guida del paese dal 1977 al 1982 con A. Suárez González e L. Calvo-Sotelo Bustelo e poi dal 1996 al 2004 con J.M. Aznar López; le seconde dal 1982 al 1996 con il socialista F. González Márquez. Già membro della Comunità Economica Europea (CEE) dal 1986, la S. fa parte dell’Unione Europea. Nella primavera 2003 è stata tra i paesi europei che hanno appoggiato con l’invio di un contingente militare l’invasione dell’Iraq.
L’11 marzo 2004, alla vigilia delle elezioni legislative, sanguinosi attentati di matrice islamica hanno provocato a Madrid circa 200 vittime e migliaia di feriti. Dichiarazioni di Aznar tese a incolpare della tragedia il terrorismo basco si sono ritorte contro il partito popolare e il voto ha visto la vittoria dei socialisti. Il governo di J.L. Rodríguez Zapatero (rieletto nel 2008), che tra i suoi primissimi atti ha deliberato il ritiro completo delle truppe dall’Iraq, ha intrapreso una riforma in senso laico del codice civile, scontrandosi con le forze conservatrici e con la Chiesa cattolica su questioni quali il matrimonio, l’aborto e i diritti delle coppie omosessuali. Ciò nonostante, a fronte di dati sempre più allarmanti dei sondaggi sul crollo del consenso elettorale e alla pressione di una grave crisi economica, nel luglio 2011 il premier ha annunciato la remissione del mandato quattro mesi prima della scadenza della legislatura. Alle elezioni politiche che si sono tenute nel novembre dello stesso anno - con una partecipazione al voto di poco superiore al 70%, frutto anche degli inviti all'astensione del movimento di protesta degli indignados - si è registrata una netta affermazione del Partito popolare di M. Rajoy, che ha raggiunto la maggioranza assoluta in Parlamento ottenendo il 44% dei consensi e 186 seggi su 350 al Congresso dei deputati, mentre al Partito socialista guidato da A. Pérez Rubalcaba è andato il 28,7% delle preferenze, peggior risultato di sempre della sinistra che ha determinato anche una considerevole crescita dei partiti minori. Nel corso del 2012 non è andata comunque arrestandosi la grave crisi economica che interessa il Paese: la riforma del mercato del lavoro propugnata da Rajoy e la manovra finanziaria annunciata nel mese di marzo, che ha comportato tagli alla spesa pubblica per oltre 27 miliardi di euro, hanno provocato scioperi e manifestazioni di piazza, mentre la produzione industriale denuncia decrementi del 5,1% a causa di una minore attività nei settori edilizio e automobilistico. La tensione sociale è andata intensificandosi nel mese di luglio, a seguito dell'erogazione da parte dell'Eurozona di un pacchetto di aiuti da 100 miliardi di euro per la ricapitalizzazione delle banche, che ha evitato il rischio di un fallimento del Paese ma ha costretto Rajoy a decidere nuovi tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici e un aumento dell’Iva; tali misure di austerità sono state accolte con gravi disordini di piazza in numerose città. Nuove ondate di proteste si sono sollevate nell'autunno dello stesso anno, a fronte del varo per la finanziaria del 2013 di ulteriori misure di austerità per un totale di 40 miliardi di euro: i manifestanti hanno chiesto le dimissioni del governo di Rajoy, lo scioglimento del parlamento e l'emanazione di una nuova costituzione. Alle elezioni amministrative tenutesi nel maggio 2015 i movimenti antiausterity Podemos (partito di sinistra fondato nel gennaio 2014 da attivisti legati al Movimiento 15-M, noto anche come il movimento degli indignados, e già impostosi alle europee del 2014) e Ciudadanos hanno ottenuto numerosi seggi a danno del Pp (27% dei suffragi), che pur restando il primo partito del Paese ha perso la maggioranza assoluta, e del PSOE (25% dei voti). La progressiva erosione dei consensi in favore delle forze governative si è nettamente delineata alle consultazioni politiche del dicembre 2015, alle quali il Pp del premier Rajoy ha ottenuto una vittoria di misura (28,7% dei consensi) non raggiungendo la maggioranza assoluta e assicurandosi 123 seggi del Congresso, un terzo in meno rispetto alle elezioni del 2011, contro i 90 dei socialisti (22% dei voti, peggior risultato nella storia del partito): forza politica emergente si è confermata Podemos (20%, 60 seggi), terzo partito del Paese, seguito da Ciudadanos (14%), mentre i due partiti indipendentisti catalani Democracia i Llibertat ed Erc hanno ottenuto 17 seggi. Nel gennaio 2016 Rajoy ha rifiutato la proposta di tentare di ottenere l'investitura del Congresso dei deputati avanzatagli da Re Felipe VI, il quale nello stesso mese ha conferito al socialista P. Sánchez l’incarico di formare il nuovo esecutivo entro due mesi dal primo dibattito di investitura, pena il ritorno alle urne; appoggiato solo da Podemos, il candidato premier Sánchez è stato però respinto dal Congresso di Madrid. Ad aprile, constatata l'impossibilità di formare un nuovo governo, Felipe VI ha indetto elezioni anticipate, svoltesi nel mese di giugno, ma le consultazioni non hanno scongiurato il persistere di una situazione di ingovernabilità, riproponendo sostanzialmente lo stesso quadro prodotto dalle elezioni di dicembre: primo partito si è confermato il Pp di Rajoy - che anzi ha rafforzato la sua posizione ottenendo il 33% dei consensi e crescendo di 13 deputati, seguito dal PSOE (22,7%), da Podemos (21,7% e 71 seggi) e Ciudadanos (12,9% e 32 seggi) -, ma a settembre il premier ad interim Rajoy non ha ottenuto la fiducia dalla Camera alla prima e alla seconda votazione del dibattito d'investitura. Nell'ottobre 2016, dopo dieci mesi di stallo e grazie all'astensione del PSOE, il Congresso dei ministri ha approvato l'investitura dell'uomo politico per il suo secondo mandato.
Le richieste di maggiore autonomia da parte della Catalogna si sono concluse con l’approvazione di un nuovo Statuto (2006) che ha esteso l’autogoverno della Comunità autonoma e sancito il suo diritto a definirsi nazione, e un processo simile si è svolto in Andalusia (2007), mentre una grave crisi tra poteri locali e governo centrale si è aperta nell'ottobre 2017 dopo il referendum indetto dalla Catalogna e vinto dai separatisti e la costituzione della Repubblica catalana come “stato indipendente e sovrano di diritto democratico e sociale”, cui il premier M. Rajoy ha risposto con fermezza, attivando le procedure per l'applicazione dell'articolo 155 della Costituzione, che prevede il commissariamento e il passaggio a Madrid delle competenze della Generalitat, sciogliendo il Parlamento catalano e destituendo il presidente C. Puigdemont. Le consultazioni regionali svoltesi nel dicembre successivo hanno comunque registrato una netta vittoria del fronte indipendentista, che ha riconquistato insieme la maggioranza assoluta, con 70 seggi su 135 nel nuovo Parlamento di Barcellona, mentre i partiti unionisti hanno ottenuto complessivamente 57 seggi; nel maggio 2018 è stato eletto presidente della Generalit l’indipendentista Q. Torra, sollevato dall'incarico nell'ottobre 2020 dal Tribunale supremo spagnolo a seguito di una condanna per disobbedienza, e sostituito ad interim dal vicepresidente P. Aragonès i Garcia. Nel giugno 2018, a seguito dell'approvazione di una mozione di censura presentata dal PSOE dopo la condanna per corruzione del Partito popolare, il premier Rajoy si è dimesso, subentrandogli nella carica il socialista P. Sánchez. Nel febbraio 2019 il premier è stato costretto a sciogliere le camere e a indire nuove elezioni, a seguito della bocciatura della legge di bilancio, respinta dal Partito popolare, da Ciudadanos e dagli indipendentisti catalani, che avevano posto come condizione per non votare contro la legge che il governo acconsentisse a negoziare per l’autodeterminazione della Catalogna. Le consultazioni, svoltesi nel mese di aprile con un'affluenza alle urne del 75,7%, hanno assegnato la vittoria al PSOE (28,7% dei voti, 123 seggi), seguito dal secondo partito di sinistra, Unidas podemos (14,3%, 42 seggi), per un totale di 165 seggi, comunque non sufficienti al raggiungimento della maggioranza assoluta; sconfitto il blocco delle destre costituito dal Partido popular (16,7%, 66 seggi), da Ciudadanos (57 seggi) e dal partito nazionalista e sovranista Vox (10%, 24 seggi), con il quale l'estrema destra filo-franchista rientra in Parlamento per la prima volta dal 1982. Le elezioni europee svoltesi nel maggio 2019 hanno confermato l'affermazione del socialismo spagnolo, registrando la netta vittoria del PSOE di Sánchez, che ha ottenuto il 32,8% dei suffragi, seguito dal Partito popolare (20,1%), dai centristi di Ciudadanos (12,2%) e dalla sinistra radicale di Unidas Podemos (10%), mentre l'estrema destra di Vox si è attestata al 6,5% delle preferenze. Nel luglio 2019 il premier Sánchez non è comunque riuscito a ottenere la fiducia necessaria a formare un governo; ribadita da un'altra tornata di consultazioni svoltasi nel mese di settembre l'impossibilità di dare vita a un nuovo esecutivo, le nuove elezioni tenutesi a novembre hanno confermato lo stallo, con il PSOE che si è affermato come primo partito (28% dei suffragi) ma non ha ottenuto la maggioranza, mentre l'estrema destra di Vox si è aggiudicata il 15,1% dei voti. Pochi giorni più tardi Sánchez e il leader di Unidas Podemos P. Iglesias hanno firmato un’intesa per la formazione di un governo di coalizione; il nuovo esecutivo, guidato da Sánchez e con Iglesias come vicepresidente, è stato approvato dal Parlamento nel gennaio 2020. Nel marzo 2021 Iglesias ha rassegnato le dimissioni per opporsi all'avanzata delle destre, confermata dalle elezioni regionali svoltesi nel maggio successivo, dove si è registrata la netta vittoria del Pp, che ha ottenuto 65 dei 136 seggi nel Parlamento, mentre il PSOE di Sánchez ha perso 13 dei 37 seggi e Unidas podemos ha ricevuto il 7,2% dei consensi, pari a 10 seggi, ciò che ha indotto Iglesias a lasciare ogni incarico istituzionale e nel partito; nel giugno successivo gli è subentrata alla segreteria del partito il ministro per i Diritti sociali I. Belarra. La progressiva erosione del consenso accordato alle forze di governo è stata confermata alle consultazioni regionali del giugno 2022, che nella regione a tradizione socialista dell'Andalusia hanno visto la netta affermazione del PP (43%) sul PSOE (24%), seguito dall'ultradestra di Vox (13,5%), mentre alle regionali tenutesi nel maggio 2023 le formazioni di centrosinistra hanno ceduto il controllo di alcuni centri urbani simbolo del loro modello di gestione, quali Valencia e Siviglia, al centrodestra e a Vox, inducendo il premier Sánchez a rassegnare le dimissioni e a indire elezioni anticipate. Svoltesi a luglio, le consultazioni hanno registrato la vittoria del PP (33% dei voti, +47% rispetto al 2019, 136 seggi), che non ha comunque ottenuto la maggioranza assoluta, il forte ridimensionamento dell'ultradestra di Vox (12,3%, -19%), che si è collocata come terza forza del Paese, preceduta dai socialisti di Sánchez (122 seggi , 31,7%, +2% rispetto al 2019) e affiancata alla nuova formazione di sinistra Sumar (12,3%). Nel settembre 2023, dopo il fallimento dei tentativi del presidente del PP A. Núnez Feijóo di formare un nuovo esecutivo, il re Felipe VI ha affidato l'incarico al premier uscente Sánchez.
Resta drammatico e ancora in parte irrisolto il problema del separatismo basco: messo fuori legge nel 2003 il Partito indipendentista Batasuna, ritenuto il braccio politico dell’organizzazione terrorista ETA, quest’ultima aveva annunciato nel 2006 una tregua permanente, ma si è resa poi responsabile di altri attentati che hanno precluso ogni dialogo con il governo. Dopo la definitiva rinuncia alla violenza da parte dell’ETA nell'ottobre 2011, alle elezioni politiche del novembre successivo ha trionfato la sinistra radicale indipendentista (bandita dalle politiche del 2008), che con il partito Amauir è entrata in Parlamento con sette deputati, divenendo la quinta forza parlamentare spagnola. Alle amministrative svoltesi nell'ottobre 2012 si è registrata la vittoria del Partido popular (PP) di Rajoy in Galizia, che ha ottenuto il 46% dei voti aggiudicandosi 41 dei 75 seggi, mentre nei Paesi Baschi si è confermata prima forza il Partido nacionalista vasco (PNV) con il 34% dei voti; risultati ribaditi dalle consultazioni tenutesi nel settembre 2016, con il PP che resta il partito di maggioranza in Galizia, contenendo le perdite nel Paese Basco, dove l’assemblea legislativa permane dominata dal PNV. Nel maggio 2018 l'ETA, che nell'aprile dell'anno precedente aveva rinunciato formalmente alla lotta armata e avviato il processo di disarmo, ha annunciato il suo scioglimento definitivo.
Il 2 giugno 2014 il sovrano Juan Carlos di Borbone ha annunciato la sua volontà di abdicare a favore del figlio, il principe ereditario Felipe; dopo l’approvazione della legge che ha autorizzato la trasmissione del potere, il 19 giugno 2014 questi gli è succeduto sul trono di Spagna, assumendo il nome di Felipe VI.
Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea dal 1° luglio al 31 dicembre 2023.
La lingua spagnola è la lingua nazionale, letteraria e colta della S., delle Repubbliche sudamericane (esclusi il Brasile e le Guiane) e centro-americane. Ha per base il sistema dialettale castigliano, e in particolare il dialetto di Toledo, elevato a lingua ufficiale della Castiglia con l’editto di Toledo del 1253. Ma nella denominazione spagnolo rientrano anche gli altri sistemi dialettali della S., e cioè l’aragonese e il leonese, che un tempo costituivano unità linguistiche autonome ed erano parlati in una zona molto più vasta dell’attuale. Nella S. sono inoltre parlate lingue estranee al sistema ibero-romanzo, e cioè il catalano, affine alle parlate provenzali, e il basco, lingua non indoeuropea dei Pirenei occidentali e della Navarra.
Il castigliano si è imposto agli altri sistemi dialettali della S. per il suo prestigio letterario e culturale, alle cui origini è il Cantar de mio Cid del 12° sec. e l’opera culturale di Alfonso X (1221-84); e quindi per il prestigio politico, specialmente dopo l’unione delle corone di Castiglia e d’Aragona (1469). La lingua castigliana, che già nel 14° e 15° sec. era stata arricchita, disciplinata e avviata ad alte capacità di espressione artistica dall’opera di scrittori e teorici come J. Ruiz e I. López de Mendoza, trova una precisa norma nella Gramática sobre la lengua castellana di E. A. de Nebrija (1492) e dal 16° sec. diviene la lingua di una grande letteratura, non più castigliana ma spagnola, che culmina nel periodo della maggiore potenza politica della S. con il Don Quijote di M. de Cervantes. Nel 16° e 17° sec. lo spagnolo esercitò la funzione di lingua della diplomazia e della cultura in gran parte dell’Europa occidentale, funzione poi ereditata, nel 18° sec., dal francese.
Lo spagnolo si individua all’interno delle lingue romanze per alcuni caratteri fondamentali: nella fonetica, la dittongazione di ĕ e ŏ tonici in ie e ue sia in sillaba aperta sia in sillaba chiusa (piedra «pietra», fuego «fuoco»), la palatalizzazione dei nessi consonantici pl e cl in ll ‹l’› (llamar, lat. clamare), e di ct in ch ‹č› (dicho, lat. dictus), la lenizione delle consonanti intervocaliche sorde in sonore e delle sonore in spiranti (vida ‹bìd✂a›, lat. vita), e la frequente scomparsa delle spiranti (oír da audire), la riduzione di f- iniziale a h- tranne davanti a ue, r e spesso anche ie (hablar da fabulare, ma fuego, frágil); nella morfologia, la conservazione della -s finale (hombres da homines), la formazione del comparativo con más (lat. magis), a differenza dell’italiano e del francese che continuano il latino plus (it. più bella, fr. plus belle, sp. más hermosa). Il lessico è caratterizzato dalla sopravvivenza di alcune voci iberiche prelatine (es., zorra «volpe»), da conservazioni e innovazioni all’interno del patrimonio latino (ave «uccello» da avis, comer da comedere, yegua da equa, hermano da germanus, di fronte a avicellus, manducare, caballa, fratellus continuati dalle altre lingue romanze occidentali), dalla presenza di termini germanici diffusi dagli Svevi e soprattutto dai Visigoti, diversi dai germanismi delle altre lingue romanze, e infine da un’alta percentuale di parole d’origine araba, che riguardano istituzioni giuridiche e sociali (alcaide «castellano» e alcalde «podestà», achaque «accusa»), artigianato, commercio e agricoltura (adobe «mattone», azúcar «zucchero»), scienza e tecnica (azimut, nadir, alquimia).
Nell’ultimo Medioevo penetrarono nel lessico spagnolo molte parole portoghesi, galleghe e catalane, e anche provenzali e francesi, per l’influsso esercitato dalle rispettive letterature; nel Rinascimento invece sono notevoli i prestiti dall’italiano (soneto, carroza, banca).
La khargia mozarabica risalente alla metà dell’11° sec., sorta di ritornello inserito come elemento essenziale nella struttura della muwashshaḥa di origine araba (➔ Mozarabi), rappresenta il più antico documento della letteratura spagnola. Ma sono i cantares de gesta del 12° sec. a offrire la prima vera testimonianza di una cultura della S.: una cultura che, nascendo a ridosso della vicenda guerriera, trasmessa oralmente da giullari, non può che essere incentrata sulla glorificazione delle imprese e degli eroi più famosi: Bernardo del Carpio, Fernán González, assedio di Zamora, Cid ecc. Il Cantar de mio Cid (1140, secondo la datazione di R. Menéndez Pidal e della critica tradizionalista, ma 1207 per i sostenitori della tesi individualista) è l’unico cantar pervenutoci quasi integro, fra i molti di cui si conosce l’esistenza attraverso le Crónicas. Sebbene i cantares siano per certi aspetti vicini all’epica francese, tuttavia vi si registra una maggiore obiettività storica e un carattere decisamente realista, estraneo ai modelli francesi.
La poesia cambia rapidamente volto fin dai primi anni del 13° sec., quando operette isolate, come la Razón de amor, testimoniano di una sensibilità francesizzante, che si precisa poco più tardi in vari centri della Castiglia con il mester de clerecía. Questo, pur non riflettendo propriamente una ‘scuola’, rappresenta il primo tentativo di poesia tecnicamente regolata (strofe monorime di alessandrini) e ora si volge a esprimere la sommessa religiosità dei Milagros e dei poemetti agiografici di G. de Berceo (13° sec.), ora si rifà pedissequamente ai miti classici in voga nel Medioevo (Apolonio, 1250 ca.; Alexandre, 1230-50 ca.) o canta eroi già celebrati dall’epica (Fernán González, 1250 ca.).
All’urgenza della guerra e della leggenda subentra, nei letterati, nei giuristi, nei poeti, il bisogno di darsi una fisionomia culturalmente concreta e stabile. Nascono le università (Palencia, 1208; Salamanca, poco più tardi); mentre Toledo con la sua scuola di traduttori, attiva già dai primi anni del 12° sec., e che si giova di personalità sempre più eminenti (Giovanni Ispano, D. Gundisalvi), diviene il centro della cooperazione fra cristiani, arabi ed ebrei e il veicolo per la conoscenza e la diffusione europea del pensiero greco e di quello musulmano. La figura di Alfonso X il Saggio (re dal 1252 al 1284) è in certo modo compendio e sintesi di queste aspirazioni. Egli fissa il diritto medievale nelle Partidas, giovandosi dell’insegnamento romano, cristiano e goto: continua l’attività storiografica iniziata in latino dai vescovi di Toledo e di Tuy e, mentre ambisce a un’opera che sia storia di tutto lo scibile (General estoria, iniziata nel 1272), vuole tramandare nei particolari la reconquista (Estoria de España o Primera crónica general, secondo il titolo attribuito da Menéndez Pidal). Pur mostrando, nelle Cantigas de Santa María, che il gallego è sempre la lingua romanza della lirica, Alfonso fa del castigliano il veicolo della potenza cristiana e della nuova cultura.
La percezione della crisi degli istituti medievali, quando non si è ancora perduta la fiducia nella loro sopravvivenza, che anzi si fa più aspra e aristocratica, è forse il carattere più intimo della cultura trecentesca. Due poemi – il Libro de buen amor (probabilmente 1334) di J. Ruiz el Arcipreste de Hita e, nella seconda metà del secolo, il Rimado de palacio (composto tra il 1378 e il 1407) di P. López de Ayala – sanno elevarsi a espressione matura e felicemente immaginosa di tale inquietudine. Con queste opere, con la residua produzione epica e, in prosa, con le prime rifusioni e traduzioni dei romanzi brettoni (portoghesi in prevalenza, ma poi anche castigliane), giunge a compimento anche una grande crisi di forme tradizionali. Da un lato nel Libro de buen amor e nel Rimado il mester de clerecía si presenta già disgregato, obbediente a un senso descrittivo nuovo; dall’altro l’epica primitiva metricamente irregolare si avvia verso le forme del romance ottosillabico e assonanzato (Cantar de Rodrigo, Poema de Alfonso XI, 1348); mentre una struttura narrativa più complessa, di gusto in parte francesizzante (Gran Conquista de Ultramar, Historia del caballero Zifar, 1300 ca.), accompagna la decadenza del tradizionale apologo e delle forme didattico-narrative medievali.
Nel Quattrocento, sotto l’impulso di cortigiani sapienti e di poeti, come il Marqués de Santillana e J. de Mena, nasce un Umanesimo programmatico e per lo più italianizzante. Fin da P. López de Ayala, traduttore di Livio e di Boezio, e poi con E. de Villena, che volgarizza l’Eneide e la Rhetorica ad Herennium e traduce e glossa intorno al 1428 la Divina Commedia, con A. de Cartagena traduttore di Seneca, e infine con J. de Mena, che dà un riassunto di Omero (Iliada en romance), letto in traduzione latina, l’attenzione dei letterati è rivolta ai modelli classici sull’esempio dei trecentisti italiani, ma le rimane estraneo il senso dell’interpretazione rigorosa dei testi, giacché appare più forte il fascino di una retorica aulica, latineggiante, ed è assai ridotto il numero dei letterati veramente conoscitori del latino. Oltre che nei classici, si cercano insegnamenti retorici e morali anche nei trecentisti italiani (lo dimostra la fortuna del De casibus e del De mulieribus claris di G. Boccaccio, e del De remediis di F. Petrarca), mentre via via si fa strada un tentativo d’imitazione della prosa italiana, più concretamente tecnico. Nei vari Cancioneros dell’epoca, di J.A. de Baena, di L. de Stúñiga, di H. del Castillo (sec. 15°-16°) ecc., e nei poeti che vi parteciparono, da A. Álvarez de Villasandino (sec. 14°-15°) e F. Imperial ai maggiori, Santillana, Mena, F. Pérez de Guzmán (sec. 14°-15°), si sente il dissidio tra un italianismo ambizioso e programmatico e l’inadeguatezza dei mezzi tecnici e della lingua letteraria allo sforzo dell’imitazione. E perciò in molti il gusto della stilizzazione dei temi cortesi, quel gótico florido che si compiace di giochi formali preludenti quasi l’espressione barocca, si rivela più prossimo a una tradizionale lirica francese e, mediamente, trovadorica, che non a Petrarca o allo stil novo; così come sono più vicine, forse, al romanzo brettone che non a Boccaccio, malgrado le apparenze, le novelle di un J. Rodríguez de la Cámara (El siervo libre de amor, 1440 ca.) o di un D. de San Pedro (Cárcel de amor, composto attorno al 1488 ma pubblicato nel 1492).
Esiste poi una produzione di tono diverso, che sembrerebbe contrapporsi, per il suo realismo, alla letteratura colta, mentre in realtà si accompagna a questa e appare tra le pagine stesse dei retori e dei poeti cortigiani: lo dimostrano, fra gli altri, Santillana, che raccoglie serie di proverbi e compone leggiadre serranillas (tipico esempio di popolarismo stilizzato e finemente ricostruito); e il colto biografo di s. Ildefonso, l’Arcipreste de Talavera, cui si devono le popolari charlas della Reprobación del amor mundano (1438). Quanto ai romances, l’anonimità e la difficile collocazione nel tempo conferiscono loro un indubbio attributo di popolarismo. Creduti, durante l’Ottocento, la forma primitiva dei poemi epici, essi rappresentano invece il frutto di una lenta disgregazione delle gestas in frammenti autonomi. Ma al di là del generico popolarismo, esiste una sostanziale analogia fra i romances più tardi e la produzione colta del primo Quattrocento, poiché i romances operano una stilizzazione su infiniti temi tradizionali, che si accentua nelle più tarde collezioni cinquecentesche e secentesche.
In misura anche maggiore questo accade nella letteratura colta della fine del secolo e nell’ambiente culturale che fiorisce sotto i Re cattolici tra il 1474 e il 1516: A. Montesino, J. de Padilla, J. del Encina (considerato il fondatore del teatro spagnolo), J. Manrique sono caratterizzati dall’incontro fra un’accentuata propensione umanistica e la persistenza di freschi e trasparenti motivi popolari e tradizionali. Tanto le bellissime Coplas a la muerte de su padre di Manrique, come alla fine del secolo la tragicommedia Celestina (1499), capolavoro della letteratura spagnola attribuito a F. de Rojas, sono opere legate ancora in parte a schemi medievali e cortesi, anche se a ogni passo un soffio di modernità tende a superarli.
Negli stessi anni l’opera dell’erudito e grammatico E.A. de Nebrija sintetizza il passaggio a un Umanesimo tecnicamente più vigile; mentre i contatti più frequenti con gli umanisti italiani fanno sì che l’influenza di Petrarca e di Boccaccio passi dalla fase della suggestione retorica a quella di un’assimilazione veramente narrativa e metrica. In questa spinta verso un cosmopolitismo letterario ha effetti decisivi anche l’unità politica di Aragona e Castiglia (1479), che permette a quest’ultima di cogliere l’eredità del più avanzato e disinvolto Umanesimo catalano, imponendo però, di qui in avanti, la propria supremazia linguistica. Castigliana sarà, dunque, la letteratura spagnola nell’età moderna.
Sebbene una parte della critica abbia negato l’esistenza di un vero Rinascimento spagnolo, è indubbio che una sensibilità rinascimentale maturò negli Spagnoli intorno agli anni 1450-1550 e oltre, configurandosi come un moto di adeguamento alla cultura italiana, al classicismo, ai movimenti europei di riforma religiosa. Ma si tratta di un adeguamento indocile. I contatti con Erasmo da Rotterdam, i viaggi e i soggiorni in Italia di umanisti e poeti spagnoli (J. de Valdés; G. de la Vega), gli incontri fra umanisti dei due paesi, che segnano tappe importanti nel rinnovamento della poesia (A. Navagero e J. Boscán), l’influenza che esercita sul costume Il Cortegiano di B. Castiglione nella versione di Boscán, sono le prime testimonianze del nuovo cosmopolitismo. È il momento in cui prende forma (soprattutto nel Diálogo de la lengua di J. de Valdés, 1534) il concetto di ‘selezione’ linguistica, che sancisce il primato del castigliano sulle altre lingue iberiche; sui poeti, più tardi sugli autori di novelle pastorali, l’unica teoria sull’amore è quella neoplatonica e idealizzante, riflesso più o meno diretto delle versioni platoniche di M. Ficino e di Leone Ebreo.
Anche il solco, che ora si fa più profondo rispetto al Quattrocento, fra letteratura colta e letteratura di divulgazione, è un segno dei tempi nuovi: tipiche le accuse di J. de Valdés e di L. Vives ai libri di cavalleria. Ma si tratta di un Umanesimo prevalentemente formale: tale è anche l’imitazione italiana, persino in J. Boscán e in G. de la Vega, che introducono e divulgano l’uso dell’endecasillabo e della metrica italiana, e che pure partecipano al Rinascimento italiano in modo personale. Soprattutto de la Vega, con le egloghe e i sonetti, raggiunge toni di originalità e di purezza, mentre nei suoi scolari, G. de Cetina, F. de Aldana, H. de Acuña, la stessa materia ha ceduto a una maniera, in cui già si prospetta una crisi delle forme rinascimentali.
Lo sforzo di classicità, più o meno limpidamente risolto nella lirica, si fa accademia negli altri generi, soprattutto nella letteratura aulica a ridosso delle mitiche imprese di Carlo V. Anche in una prosa di eccezionale valore documentario, come le cronache della scoperta dell’America, influisce la tendenza alla celebrazione, e accanto alle testimonianze puntuali della scoperta e della guerriglia (C. Colombo; H. Cortés) non manca la storia aulica dei conquistatori (F. López de Gómara); ma tanto più il genere riguadagna in interesse quanto più l’angolo visuale si sposta dall’epopea distaccata alla cronaca della quotidiana impresa soldatesca (B. Díaz del Castillo), all’osservazione incuriosita di una natura ignota (G. Fernández de Oviedo), infine alla riabilitazione degli indigeni avviliti da una conquista brutale (B. de Las Casas). Gli interessi di A. de Guevara, didattici e narrativi, sono strettamente legati alla figura di Carlo V e con intenti celebrativi, ma si precisano fuori del classicismo: il suo Relox de príncipes (1529) è opera legata piuttosto a una tradizione didattica medievale che a un Umanesimo all’italiana. Alle censure degli umanisti l’Amadís de Gaula (1ª ed. nota 1508) e gli altri libri di cavalleria, così diffusi in S. e in Europa, oppongono una fiducia ingenua nella mera avventura, nell’eroismo magniloquente e nell’amore cortese. Al contrario, un’opera come il Lazarillo de Tormes (1554), che appare anonima alla fine del regno di Carlo V, rivela la sensibilità e le preoccupazioni stilistiche di un umanista, probabile lettore di Erasmo, che si volge a un’attenta e ironica osservazione del costume.
L’influenza di Erasmo. Assai istruttiva è la parabola dell’influenza di Erasmo. Al principio del 16° sec., le tendenze a una riforma dell’ordinamento ecclesiastico e a un’interpretazione dei Vangeli attraverso la conoscenza diretta dei testi, l’idea imperiale di una supremazia che deve nutrirsi all’inizio anche di argomenti contro il potere temporale (Diálogo de las cosas ocurridas en Roma, 1527, di A. de Valdés) e lo stesso antiluteranesimo trovano in Erasmo un appoggio teorico, che non suscita, almeno in principio, sospetti di eterodossia. Il grande olandese esercita un’influenza indubbia sui fratelli A. e J. de Valdés, su P. Mexía, su L. Vives, sul movimento religioso degli alumbrados ecc. Anche il teatro del tempo, legato a precetti oraziani e incline a imitazioni gustose della commedia palliata latina, si fa interprete di questi motivi con la Jacinta (1517) di B. Torres Naharro e con la trilogia de Las barcas (1517-19) del portoghese G. Vicente, impegnate in una satira amara della corruzione della corte papale. Ma già alla morte di Erasmo (1536), la sua fortuna spagnola è in pieno declino. Il regno di Filippo II dimostra subito l’impossibilità che attecchisse in S. un Umanesimo effettivamente laico, una riforma religiosa profonda. Fin dalla metà del 16° sec. con l’Abecedario espiritual di F. de Osuna, pubblicato in 6 parti (le prime delle quali apparse quando la fortuna di Erasmo era all’apice), e in seguito, con gli Ejercicios espirituales (1548) di I. de Loyola, con le opere rigidamente neoscolastiche (Tratado de la victoria de sí mismo, 1550) di M. Cano, con le predicazioni di L. de Granada (Guía de pecadores, 1556; Introducción al símbolo de la fe, 1583-85) e di J. de Ávila (Audi, filia, 1557), si assiste a un graduale ricomporsi del pensiero cattolico all’interno del dogma.
La nuova età, tuttavia, non è priva di debiti nei confronti dell’Umanesimo erasmiano o del classicismo del tempo di Carlo V, anzi l’interesse forse più spiccato della nuova produzione religiosa è proprio nel suo combinarsi con le forme rinascimentali. Certe sfumature del rapporto fra vita terrena e ultraterrena, presenti nei mistici, non s’intenderebbero senza l’idealismo platonico dei primi anni del secolo: ne è pervasa l’ansia conoscitiva di L. Ponce de León, ne trae ispirazione la dottrina di Giovanni degli Angeli (Triunfos del amor de Dios, 1590; Manual de vida perfecta, 1608). Intorno all’opera di Ponce de León la predicazione ascetica già trasforma le forme classiche in un linguaggio più complesso e mutevole, che deve adattarsi ai fini pratici della divulgazione, tradurre in parole il rapimento mistico, comunicare il fervore e il languore dell’estasi, e ancora piegarsi alle speculazioni sottili delle dispute dottrinali. Si creano, in tal modo, due esperienze continuamente intrecciate fra loro, l’una, per così dire, profondamente umanistica, l’altra insofferente di precetti, tesa a nuove forme di retorica e di effusione, non meno determinanti per l’affermarsi di un linguaggio barocco di quanto possa esserlo la lirica amorosa degli stessi anni.
Anche la trasposizione in sacro di motivi profani (letteratura a lo divino) è un aspetto di questo dinamismo di forme creato dalla nuova religiosità: in virtù di esso, verso la metà del Cinquecento, vengono tramutati in difensori della fede gli eroi della cavalleria e viene divinizzato il linguaggio dell’amore pagano. Uno degli aspetti dell’arte di s. Teresa d’Ávila (Libro de su vida, composto tra il 1562 e il 1565; Castillo interior o Libro de las siete moradas, 1577) e di s. Giovanni della Croce (Cántico espiritual, Noche oscura del alma, scritti tra il 1577 e il 1584), i due maggiori riformatori e mistici del Cinquecento, è proprio la trasformazione di una materia profana, spesso rinascimentale, e il suo plasmarsi alle esigenze della poesia e della didattica religiosa. Questo continuo rifluire e modificarsi di espressioni rinascimentali è motivo dominante nella lirica profana, eroica e amorosa, che in questi anni ha il suo centro più fecondo nella scuola di Siviglia e il suo maestro in F. de Herrera. È una poesia nella quale il petrarchismo ha raggiunto la piena maturità formale, ma contiene precisi germi di dissolvimento, chiudendosi in un travaglio di continuo perfezionamento.
Quasi del tutto indipendente dalla storia della poesia è la storia dell’aristotelismo in Spagna. Imitazioni delle poetiche italiane non appaiono che dopo il 1570; il primo trattato veramente aristotelico, la Filosofía antigua poética (1596) di A. López Pinciano, appare solo negli ultimi anni del secolo; e singole precoci conoscenze della Poetica di Aristotele o di opere di aristotelici italiani non impediscono di affermare che la cultura spagnola resta neoplatonica sino alle soglie del Seicento. Non che l’opera di Herrera, di Ponce de León o dei loro scolari, F. de Figueroa, F. de Medrano, F. Pacheco, obbedisca puntualmente a teorie neoplatoniche; ma nel neoplatonismo si riflettono le vaghe aspirazioni idealistiche proprie del linguaggio petrarchesco e arcadico da un lato, dell’ansia amorosa dei mistici dall’altro.
Frattanto, nell’età di Filippo II, il poema narrativo si esaurisce negli esperimenti accademici di J. Rufo, di L. Zapata, di A. de Ercilla (Araucana, 1569-89), mentre la novella pastorale, nata in ritardo sul tronco della letteratura arcadica e del neoplatonismo, non va oltre i limiti dell’esercitazione retorica anche in un’opera fortunata come la Diana (1559) di J. de Montemayor e più tardi cederà al preziosismo, cui la vecchia materia bucolica è condannata, in G. Gil Polo, in G. Suárez de Figueroa.
Non dissimile la situazione del teatro, in cui non si è ancora risolto il dissidio, che era già di Torres Naharro e di Vicente, fra un’ispirazione di fondo popolare e il conformismo rispetto alla commedia classica, tanto che, per es., il ricordo di un autore come L. de Rueda è ancora vivo non per le complicate imitazioni della commedia italiana del Rinascimento, ma per la vena burlesca dei pasos, piccoli intermezzi popolari, mentre J. de la Cueva ritrova una certa libertà di invenzione quando si allontana dagli Aiaci, dalle Virginie, dagli Scevola, e si volge al Romancero e alle cronache medievali per mettere in scena le popolari imprese degli Infanti di Lara e di Bernardo del Carpio, su una linea che sarà quella di L. de Vega e del teatro secentesco.
Agli inizi del nuovo secolo apparve una delle opere più importanti della letteratura europea, il Quijote (1605-15) di M. de Cervantes y Saavedra. Cervantes non è un innovatore. Tradizionalista per istinto, dinanzi alla riforma teatrale di L. de Vega, al concettismo e al culteranismo di L. de Góngora, egli fu uomo culturalmente impegnato, senza per questo essere un ideologo specificamente preoccupato di problemi religiosi ed estetici. Prima è narratore, ancora non convinto, nella giovanile Galatea (1585), secondo gli schemi del romanzo pastorale; poi drammaturgo di stretta osservanza classicista e aristotelica nella Numancia (scritta tra il 1582 e il 1587); più tardi si va sciogliendo dall’iniziale accademismo delle prime Novelas ejemplares (1613), pur obbedendo alla letterarietà del tramite narrativo italiano e cinquecentesco, ai cui temi resta fedele sempre, anche nelle novelle inserite nel Quijote. Non è un caso che proprio il Quijote nasca dallo spunto che un entremés popolare offre allo scrittore, per una diversione satirica su uno dei generi più in voga fino a tutto il Cinquecento, il romanzo cavalleresco; e non è un caso che nell’ultimo periodo della sua vita Cervantes s’immerga in quell’intrico di avventure amorose e di peripezie che è Persiles (1617), proprio seguendo i moduli della vecchia novella ‘bizantina’, animato dall’assillo di costruire un altro romanzo, tipologicamente diverso dal Quijote, sulla scia di determinati canoni, con ciò dimostrando una sicura propensione al realismo.
Nel Seicento la S., pur decadendo politicamente, si affranca dalla cultura italiana, trasferendo i motivi rinascimentali sopravviventi, attraverso l’esperienza dell’età di Filippo II, nel vivo di una forma barocca, che li restituisce, profondamente ispanizzati, a una vasta cerchia di lettori europei. La maturità della coscienza letteraria coincide con una delimitazione degli orizzonti culturali: tramonto delle inquietudini eterodosse nell’irrigidirsi della Controriforma cattolica; declino del neoplatonismo e dell’idealismo ascetico dinanzi al nuovo teologismo d’ispirazione scolastica, con propaggini fino alla produzione teatrale e alla precettistica, che si fa tutta aristotelica; ridimensionamento, infine, dell’utopia imperiale di Carlo V e del sogno di difesa armata della cattolicità, che animava Filippo II. La letteratura spagnola del Seicento è, nella maggioranza dei suoi aspetti, fondata sull’intuizione di una crisi in atto.
L’espressione di questo periodo, più colta, più vincolata alla nuova poetica barocca, più innovatrice sul terreno del linguaggio, è la poesia che risponde ai canoni del cultismo o culteranismo, legata, e in certo modo identificata, con l’opera di L. de Góngora y Argote, tanto da essere anche chiamata gongorismo. Preannunciatasi in F. de Herrera e nei suoi scolari, precocemente teorizzata nel Libro de la erudición poética (postumo, 1611) di L. Carrillo y Sotomayo, è già manifesta, in parte, nell’antologia curata da P. de Espinosa nel 1605 (Flores de poetas ilustres de España). La ricerca linguistica di Herrera diventa nel Góngora del Polifemo (1613) e delle Soledades (1613), e nei suoi scolari, una scelta espressiva che si traduce, nei sonetti, nei brevi poemi narrativi di Góngora, nell’uso di cultismi lessicali, di latinismi e neologismi, nel ricorso a violenti iperbati e ad ardite metafore e immagini iperboliche. Accanto a questo linguaggio volutamente aristocratico e chiuso si afferma in Góngora anche il filone popolaresco e antiretorico delle letrillas e dei romances; non esiste, tuttavia, una vera contrapposizione fra i due momenti, neppure cronologicamente: le due ispirazioni continuamente si avvicendano, aspetti diversi di un’unica esperienza barocca. A eccezione di R. Caro, di F. de Rioja, di M. Villegas, dei fratelli B. e L. Argensola e di pochi altri attardati classicisti conservatori, la poesia secentesca è tutta gongorina, e perfino L. de Vega, Tirso de Molina e J. Ruiz de Alarcón, nella lirica come nel teatro, finiscono per far proprio il lessico e i modi instaurati da Góngora.
Tutta esteriore è anche l’antinomia tra culteranismo (o gongorismo) e concettismo, poiché quest’ultimo, che ebbe in F. de Quevedo, il più illustre animatore, è in realtà un’altra forma dell’unica spiritualità barocca. Al contrario di Góngora, che cerca nella lettura di Ovidio la sorgente del suo tardivo e rinnovato paganesimo, per Quevedo il mondo classico si identifica soprattutto in Seneca, Marziale, Giovenale. Più che nel Buscón (1626), esperimento di romanzo picaresco condotto all’estremo della crudeltà rappresentativa, le inquietudini di Quevedo si esprimono nei sonetti e soprattutto nei Sueños (1627), bozzetti satirici che nella precisione crudele del dettaglio, nel descrittivismo minuzioso, si riallacciano in sostanza a una salda tradizione di realismo medievale e cinquecentesco. Ma la nuova prosa, se respinge da un lato gonfiezze e allusività cultiste, si risolve poi in eccessi non meno sconcertanti (antitesi violente, parallelismi, iperboli, grovigli sintattici), che sono via via suggeriti dall’urgenza descrittiva di personaggi e di cose, dal nuovo gusto satirico e sentenzioso dell’oratoria, dalla stessa casistica morale, in cui l’acutezza si fa spesso sottigliezza involuta e stravagante.
L’intuizione di una crisi politica e sociale diviene materia di un’intera produzione romanzesca che prolifera velocemente: il tentativo sporadico del Lazarillo si amplifica quasi in un vero e proprio genere letterario con determinati ingredienti strutturali. L’ambiente della malavita cittadina, della cosiddetta germanía, il personaggio del picaro, vengono colti in un’infinità di scorci; persino il lessico dei malviventi è riscoperto con letteraria spregiudicatezza e non senza una punta di curioso naturalismo e, in fondo, di ricercatezza stilistica. Ma forse la novità più tipica del genere è rappresentata dall’incombenza di un moralismo che non toccava neppure esteriormente il primo Lazarillo. È appunto la coscienza della crisi. Nel Guzmán de Alfarache (1599-1604) di M. Alemán, alle imprese del picaro si mescola appunto l’apprezzamento morale, che tempera, senza intaccarla, la visione pessimistica del mondo, e in ultima analisi restituisce il romanzo alla cerchia della vecchia letteratura didattico-romanzesca. Si tratta, del resto, di un moralismo piuttosto esteriore, come appare sempre più evidente nei successivi tentativi, che riguardano sia i casi in cui il narratore si dedica a trame più agili e svelte, come in qualche novella di tono picaresco di Cervantes e nel Diablo cojuelo (1641) di L. Vélez de Guevara, sia romanzi di maggiore impegno o di maggiore mole, come La pícara Justina (1605) di F. López de Úbeda, o il Marcos de Obregón (1618) di V. Espinel, nel quale il gusto con cui sono seguite le vicende di Marcos prevale sull’insegnamento che se ne può trarre; in lui, come in J. de Salas Barbadillo, in A. de Castillo Solórzano, in J. de Alcalá l’avvicendarsi degli episodi si dilata nel gusto dell’intreccio. Finché l’eroe può anche non essere un picaro, ma, per es., un soldato, come nella Vida de Estebanillo González (1646). Le ultime generazioni di scrittori preferiscono volgersi a una modesta narrativa di costume, e si dà vita ai gustosi quadri, ancora esteriormente picareschi, di F. Santos e di J. de Zabaleta.
Se si eccettuano i precettisti, quasi tutti aristotelici, come F. Cascales e J.A. González de Salas, e gli eruditi e bibliofili come N. Antonio, autore della preziosa Bibliotheca hispana vetus (postumo, 1696), la letteratura didattica si esprime in una prosa in cui si spiega e si esaurisce ogni sfumatura del concettismo. Nel 17° sec., quella letteratura religiosa che fa seguito alle correnti ascetiche del Cinquecento, e che pur conta ancora personalità di rilievo come J.E. Nieremberg, M. de Agreda, M. de Molinos, non trova più gli accordi della grande poesia: valgono gli esempi dello stesso Quevedo, di D. de Saavedra Fajardo, di B. Gracián y Morales. L’antimachiavellismo, che già animava la Política de Dios di Quevedo e che, con rinnovata esplicitezza e affinità di argomenti, sostiene la Idea de un príncipe cristiano (1640) di Saavedra Fajardo, giunge da questa fino a Gracián, la cui opera, nella seconda metà del secolo, rappresenta il culmine del compromesso tra Umanesimo e Controriforma. Ma Machiavelli, respinto nella teoria, è accolto nell’adozione di singoli atteggiamenti. In Gracián è quasi costante il dualismo fra l’intelligenza dei comportamenti umani, della morale pratica e le conclusioni metafisiche: in opere come El Héroe (1637), El Político (1640), El Discreto (1646), soprattutto nelle sentenze dell’Oráculo manual (1647), in effetti l’altra vita è quasi un corollario astratto dell’osservazione di quella terrena. Solo più tardi, quando il gesuita lascia le massime e gli aforismi dei primi trattati per ricostruire il suo pensiero in un grande romanzo allegorico, El Criticón (1651), il dissidio fra vita pratica e finalità religiosa si compone, e subentra un pessimismo più accorato e un senso premonitore della morte. In Gracián, più che negli altri saggisti o narratori del Seicento, il concettismo asseconda l’architettura del pensiero: il trattato sull’Agudeza y arte de ingenio (1642; 2ª ed. ampliata, 1648) offre un compendio di norme che racchiude uniformemente la duplice esperienza del concettismo e del culteranismo.
Il teatro spagnolo del Seicento possiede anzitutto una straordinaria capacità assimilativa rispetto agli altri generi letterari e nello stesso tempo esercita una grande funzione divulgatrice. L’ampia fioritura teatrale del periodo è possibile perché non nasce solo dal dramma del Cinquecento, ma dal concorso di tutti i generi e di ogni espressione letteraria tradizionale. In questo senso, è assolutamente sorprendente in L. de Vega non solo la varietà e la molteplicità dell’invenzione, ma anche la capacità continua della rifusione e dell’adattamento. Egli tuttavia non elabora una vera e propria precettistica teatrale: il famoso poemetto sull’Arte nuevo de hacer comedias en nuestro tiempo (1609) è più satira che teoria, testimonianza del bisogno di concretezza e di contatto con il pubblico su cui si fonda l’intero teatro secentesco. Indubbiamente, il mondo spirituale di L. de Vega è elementare, immobilmente dogmatico, la sua obbedienza ai principi della Controriforma è istintiva e psicologica prima che religiosa e meditata. Ma L. de Vega e i suoi imitatori trovano la loro indipendenza di poeti nell’immaginazione scenica, nel gusto delle grandi ricostruzioni storiche, e perciò nella leggenda e nel mito liberamente rivissuti. Solo in un senso il teatro secentesco può dirsi popolare: in quanto esso tende al leggendario, al religioso, all’eroico, e sa coglierli nella loro elementarità; ma non è per questo meno intellettuale nell’ambizione letteraria e nel gusto della rievocazione barocca. Quel L. de Vega che ha così vivo il senso della modernità del dramma, non esita a immergersi nelle forme letterarie più accademiche, passando dalle più fresche commedie (Fuenteovejuna, Peribánez, El Caballero de Olmedo) e dai romances alla poesia epica della Dragontea (1598) o della Hermosura de Angélica (1602) e della Jerusalén conquistada (1609). A questo profilo non si sottrae la sua grande produzione drammatica, altrettanto varia e ambiziosa. Già a ridosso delle prime creazioni di L. de Vega, in L. de Vega stesso e nei suoi scolari, buona parte del teatro spagnolo non è altro che mero intreccio, non vive che di continue variazioni su tema. Fanno eccezione, per es., taluni entremeses, atti unici dall’azione rapida e uniformemente impostata sul comico e talvolta sul farsesco, come quelli di Cervantes, e di L. Quiñones de Benavente, o autos dallo spunto religioso candidamente ripreso dalla tradizione biblica, come quelli di J. de Valdivielso e dello stesso L. de Vega; o ancora, nella cerchia della commedia storica più vicina al maestro, alcuni artisti che si svincolano felicemente da lui, pur riprendendo suoi temi, come G. de Castro, L. Vélez de Guevara, F. de Rojas Zorrilla. Più spiccatamente originale la breve produzione di J. Ruiz de Alarcón (Las paredes oyen, La verdad sospechosa); e soprattutto la vasta opera di Tirso de Molina, celebre come autore del Burlador de Sevilla (1627), con cui ha inizio il mito di don Giovanni.
Anche P. Calderón de la Barca prende le mosse da L. de Vega, ma ben presto se ne discosta. C’è in lui una maggior precisione e stringatezza dell’architettura drammatica: il gusto della singola caratterizzazione, debole in L. de Vega, pronunciato in Tirso de Molina, si fa perentorio in ogni sua commedia. Nella sua maturità, ormai lontano da L. de Vega, Calderón tende a cimentarsi con forme speculative intorno ai problemi fondamentali dell’uomo e della religione: tipico l’impegno sul problema del peccato, del libero arbitrio e della grazia. La vida es sueño è il dramma tipico di uno stato di coscienza che sottintende la crisi di una cultura e di un’epoca; dramma nel quale i personaggi, i luoghi e gli elementi della natura assumono un valore simbolico della condizione umana. Negli ultimi decenni della sua carriera, fino alla morte (1681), Calderón non scrisse più che rappresentazioni sacre, generalmente in un atto, i famosi autos, caratterizzati da una religiosità pensosa e predicatoria.
Il cristallizzarsi dell’esperienza barocca coincide con l’insediamento della dinastia borbonica a Madrid e con il conseguente trapianto in S. di costumi e precetti francesi. L’influenza francese più immediata penetra facilmente nelle classi elevate e opera soprattutto attraverso le nuove varie accademie, che lentamente danno un assetto razionale e una norma alla conoscenza della storia, del costume, della lingua: per quest’ultima in particolare, la creazione dell’Academia española de la lengua (1713) segna l’inizio di un’attività codificatrice e sistematrice. I circoli più desiderosi di rinnovamento sono tenacemente neoclassici: ne è prova la lunga polemica sul teatro del Seicento, che nasce nell’Academia del buen gusto e viene condotta a fondo, verso la metà del secolo, soprattutto da N. Fernández de Moratín e da J. Clavijo y Fajardo, i quali oppongono al teatro barocco il modello della tragedia classica francese. Si sente tuttavia inautentico il puntiglio anti-lopiano e anti-calderoniano pervaso di accademismo, portato goffamente sul piano dell’ufficialità fino a culminare nella proibizione degli Autos sacramentales del 1765.
In un paese come la S., la cultura settecentesca non può edificarsi al di fuori di un certo spirito conservativo: lo dimostrano, fin dalla prima metà del secolo, nel campo della filologia e della critica, G. Mayáns y Siscar e I. de Luzán e soprattutto pensatori come B.J. Feijoo, la cui opera è tutta spiritualmente tesa a una mediazione tra razionalismo e cattolicesimo in cui si avvicendano forse più echi di didatticismo secentesco, più ricordi di Gracián, che anticipazioni rigorose dell’illuminismo settecentesco. È singolare che in un’età in cui la letteratura scopre il gusto della scienza, l’espressione narrativa più genuina venga da una prosa stravagante, inquieta, niente affatto scientifica, come quella di D. de Torres Villarroel. La Vida (1743-58) di Torres, come anche il popolare Fray Gerundio de Campazas (1758) del gesuita J.F. de Isla, non hanno di picaresco altro che il ricordo letterario e l’uso di qualche ingrediente esteriore. Isla, d’altronde, accoglie intimamente il risveglio della coscienza critica ma non fa concessioni, almeno apertamente, al francesismo; anzi è caratteristico della sua opera e di quella di molti gesuiti, verso la metà del secolo, un nazionalismo puntiglioso e polemico, dietro a cui si nasconde una sorta di complesso della cultura francese. E alcuni dei gesuiti espulsi nel 1767 in seguito all’editto di Carlo III oppongono all’illuminismo il proprio conservatorismo tenace, accompagnato in effetti da uno spirito critico più vivo di quello che anima in patria i circoli francesizzanti. Salvo i casi sporadici di Clavijo, di N. Fernández de Moratín, la tendenza conciliativa tra illuminismo e tradizione spagnola affiora sempre, in artisti della più varia provenienza: come il drammaturgo V. García de la Huerta, che scrive tragedie improntate al più severo classicismo (Raquel, 1778), eppure rivaluta Calderón de la Barca; come P. Montengón, autore di un romanzo fallito, l’Eusebio (1786-89), imitazione dell’Émile di Rousseau e tuttavia obbediente a una morale di stretta osservanza cattolica; e ancora in polemisti e letterati come J.P. Forner, dalla satira incisiva e crudele (Exequias de la lengua castellana, 1782), come G.M. de Jovellanos (Informe de la ley agraria, 1795), che si sforza di armonizzare l’indagine concreta dei problemi nazionali con i dettami dell’enciclopedismo; come J. Cadalso y Vázquez (Cartas marruecas, 1788-89, dov’è forte il ricordo di Montesquieu), che filtra l’illuminismo attraverso il suo umanitarismo e la sua spregiudicatezza sociale, particolarmente attenta alle debolezze della tradizione spagnola; come L. Fernández de Moratín, la cui commedia di gusto molieresco El sí de las niñas (1805) è l’unica che risalti nel panorama teatrale dell’epoca.
È il momento in cui, fra l’austerità della tragedia neoclassica, rispettosa delle norme aristoteliche, fra la poesia celebrativa di J.M. Quintana (Poesías patrióticas, 1808) e di Jovellanos e quella moralistica e freddamente costruita delle Fábulas (1781) di F.M. Samaniego e di T. de Iriarte, a stento si fa luce un’autentica commedia di successo, una poesia francamente ispirata; e tuttavia si rintracciano qua e là i segni di un mutamento generale del gusto. Già nel teatro colto e borghese di L. Fernández de Moratín e in quello, che vuole essere popolare e farsesco, di R. de la Cruz, l’arte drammatica ha preso un’intonazione nuova, un certo avvio di galante leggerezza rococò. Ed è il tono che caratterizza soprattutto la lirica di J. Meléndez Valdés, nel cui carattere bucolico è facile riconoscere accenti preromantici.
I movimenti romantici europei, pur cominciando a penetrare in S., soprattutto quelli francese ed inglese, fin dai primi anni del 19° sec., esercitano la loro vera influenza solo più tardi. All’inizio dell’Ottocento, le rivolte popolari antinapoleoniche e le aspirazioni costituzionali hanno come correlativo letterario ondate d’inquietudine e non una vera e propria coscienza romantica. Anzi, non solo il classicismo può coesistere con il patriottismo (Quintana), ma esso è addirittura il linguaggio della nuova retorica patriottica e irredentista, e prevale in molti autori che vivono fino all’Ottocento inoltrato (J. Gómez Hermosilla; J.N. Gallego; A. Lista y Aragón). Ciò che più interessa individuare in questi autori è quel criticismo settecentesco che tende a concentrarsi sui problemi nazionali e che, continuando a fiorire durante l’Ottocento, dà origine a una varia letteratura di costume.
Fra gli iniziatori della stagione romantica si annovera M.J. Larra, morto suicida. Ma più che nei toni cupi del dramma (Macías, 1834) o del romanzo storico (El doncel de don Enrique el doliente, 1834), la sua sensibilità disordinata trova il giusto equilibrio nella critica letteraria e di costume. Essenziale nell’Ottocento sarà l’alternativa fra l’osservazione felice del costume, il costumbrismo, e la retorica e il provincialismo in cui cadrà invece ogni tentativo di aderire alle forme universali e ai toni umanitari della letteratura dell’Ottocento europeo, prima con il Romanticismo, poi con il naturalismo.
Nel complesso, il Romanticismo in S. stenta a fissarsi in opere degne di ricordo. Il suo atto di nascita avviene sui palcoscenici spagnoli: appaiono successivamente La conjuración de Venecia (1830) di F. Martínez de la Rosa e il Macías (1834) di Larra, il Don Álvaro (1835) di A. Saavedra duca di Rivas, El trovador (1836) di A. García Gutiérrez (fonte d’ispirazione per il melodramma Il trovatore di G. Verdi), Los amantes de Teruel (1837) di J.E. Hartzenbusch e più tardi la prima edizione delle Poesías (1840) di J. Espronceda e il Don Juan Tenorio (1844) di J. Zorrilla. Questo ritorno al Medioevo e ai temi epico-lirici non è però semplicemente l’effetto di un circuito interno di valori nazionali; in realtà, i poeti spagnoli che hanno vissuto da emigrati politici in Francia fra il 1830 e il 1840 (Rivas, Martínez de la Rosa, Espronceda) e hanno avuto la sorpresa di trovarvi una S. già in parte riscoperta, risentono nelle loro opere di questa prima esperienza straniera ed esotica.
Gli scrittori spagnoli non sono tuttavia dei semplici ripetitori. Nel duca di Rivas (nei Romances históricos, 1841, più che nel Don Álvaro) e soprattutto in Zorrilla (nelle ‘leggende’ medievali più che nel popolare Don Juan) si avverte un graduale lavorio, per restituire agli usuali temi romantici quel sapore di originalità che può conferire loro solo una certa aderenza alla tradizione. A ciò si deve se il Romanticismo spagnolo, inizialmente (quando non è stato satirico con Larra), ha dato il meglio di sé nelle forme descrittive del romance, mentre si è dimostrato goffo nei tentativi di lirismo, dove un nuovo adeguamento ai temi europei (individualismo, malinconia, infelicità e totalità dell’amore ecc.) è sfociato nella troppo languida e lacrimosa poesia di Espronceda.
L’unico, autentico poeta spagnolo dell’Ottocento è G.A. Bécquer, che si esprime al di fuori da ogni impegno ideologico e patriottico. Ma, a parte l’esempio di Bécquer e quello della lirica di R. de Castro, la poesia del secondo Ottocento non offre che il caso di un talento disordinato come quello di R. de Campoamor. Né la poesia più modesta, e più autentica, di G. Núñez de Arce, per la quale si è soliti parlare di gusto parnassiano, va oltre un descrittivismo un po’ esteriore, ancora punteggiato di luoghi comuni romantici.
Per quel che riguarda il teatro, la nascita di un genere costumbrista, più che borghese, era stata con M. Bretón de los Herreros assai precoce. Dopo di lui, con V. de la Vega, M. Tamayo, A. López de Ayala, si fa strada un realismo dai toni moralizzanti, che mantiene un certo interesse quando s’immerge in forme di costume precise, come la zarzuela, messa in scena finemente da Tamayo e da López de Ayala, o come il género chico, versione borghese e ottocentesca del modello dell’atto unico. Il naturalismo spagnolo, d’altro canto, nasconde una patetica eredità di modi romantici, come accade all’ultimo e più famoso drammaturgo ottocentesco, J. de Echegaray.
Ma la forma nella quale la società spagnola della seconda metà dell’Ottocento esprime più compiutamente, nel suo tono medio, le diverse inquietudini di marca liberale e borghese, è la narrativa realistica, la quale, anche e soprattutto nell’ambito del costumbrismo, raggiunge una dignità costante di stile, un’aderenza più facile al reale, una ricca osservazione di tipi umani. Ciò era già avvenuto nella prima metà del secolo nelle Escenas andaluzas (1847) di S. Estébanez Calderón e nelle Escenas matritenses (1842), ambientate a Madrid, di R. de Mesonero Romanos. Ma non era ancora il romanzo. Questo, tra il fiorire delle mediocri novelas históricas, nasce nel 1849 con La gaviota di Fernán Caballero (pseudonimo della scrittrice C. Böhl de Faber y Larrea). Non si tratta di una nuova imitazione di forme straniere: l’influenza di H. de Balzac, di Stendhal, più tardi di G. Flaubert, pur acuendosi verso gli ultimi anni del secolo, rimarrà sempre come un fatto marginale rispetto al prevalente costumbrismo e regionalismo.
Il regionalismo è forse il limite di questa letteratura, ma è anche la condizione perché maturi una prosa attenta, sicuramente e discretamente evocatrice. In P.A. de Alarcón, la prevalenza di fattori come il paesaggio, l’impressione locale danno luogo, nel romanzo di fantasia, a ricostruzioni garbatamente satiriche di vita provinciale, come quella, famosissima, di El sombrero de tres picos (1874). E, ancora, è assai forte l’andalusismo in un narratore ambizioso come J. Valera, dalla disciplina stilistica insolitamente accurata nel romanzo realistico. Anche quando, nel suo più impegnativo romanzo, Pepita Jiménez (1874), Valera affronta il caso psicologico, a convincere è ancora la combinazione fra il quadro di provincia e ciò che si sente di tipicamente spagnolo nel cattolicesimo, nella crisi stessa del protagonista. Lo stesso si può dire dell’ambiente gallego di alcune novelle di E. Pardo Bazán e di quello, montañés di J.M. de Pereda, tipico ‘regionalista’ sia nelle Escenas montañesas (1864), sia nei romanzi d’ambiente (Sotileza, 1885; Peñas arriba, 1895).
E in B. Pérez Galdós, il maggior narratore spagnolo dell’Ottocento, nella varietà dei suoi tipi umani, nel senso storico con cui vengono precisati personaggi e ambienti, il costumbrismo trova, non già il superamento, ma la sua migliore caratterizzazione. In esso consiste il pregio di alcuni dei romanzi più famosi (Marianela, 1878; Nazarín, 1895; Misericordia, 1897) e dell’ampia galleria degli Episodios nacionales (5 serie pubblicate tra 1873 e 1912), grande affresco di vicende storiche.
Nell’ambito di una cultura che si va liberalizzando, e grazie all’influsso di una particolare corrente di pensiero, il krausismo (dal nome del filosofo tedesco K.C.F. Krause), comincia a imporsi anche fra i letterati un’ondata di spregiudicatezza e di rigore critico. Detto anche racionalismo armónico per la sua componente razionalista e ottimista, il krausismo, che ebbe grande influenza tra il 1854 e il 1874, fu la fonte di ispirazione ideologica ed etica degli intellettuali liberali della seconda metà del 20° sec., configurandosi in uno stile di vita basato sulla dignità, la tolleranza e la fiducia nella ragione e nel progresso. Qui sono le premesse della saggistica contemporanea, vi sono oratori e politici di talento diverso come E. Castelar e A. Cánovas del Castillo, educatori di tendenza liberale come F. Giner de los Ríos, giornalisti e narratori di costume come L. Alas y Ureña (noto con lo pseudonimo di Clarín) e Á. Ganivet, eruditi come M. Menéndez y Pelayo.
Il rinnovato e autonomo fervore di attività e di ricerca che caratterizzò la letteratura spagnola a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento deve essere visto come parte di quel processo generale di trasformazione del gusto e delle forme letterarie che è stato definito decadentismo, in S. indicato con il termine di provenienza latino-americana modernismo. A partire poi dagli anni 1940 si è imposta, in concomitanza o in opposizione rispetto al termine modernismo, la formula Generación del ’98 (➔ Generazione del ’98), coniata nel 1913 da J. Martínez Ruiz (noto con lo pseudonimo di Azorín). Tale formula può servire a indicare una tra le molte componenti che concorsero alla formazione degli scrittori del Novecento spagnolo, e cioè la partecipazione al processo di ripensamento critico che investì la società spagnola quando, dopo la guerra coloniale, si trovò ridotta alle sue dimensioni europee, e cioè all’ormai ineludibile realtà della lotta di classe e alle contraddizioni di un’economia sottosviluppata. Di fronte a questo processo critico solo alcuni scrittori, come lo stesso Azorín, in parte M. de Unamuno, e R. de Maeztu con totale coerenza, diedero una soluzione in senso nazionalista, mentre per altri fu l’avvio al riconoscimento e all’espressione della sostanziale vitale conflittualità sia della storia di S. sia della società contemporanea. L’elemento che li unifica tutti è invece un mutato atteggiamento di fronte ai problemi della creazione letteraria, un comune bisogno di contestazione di vecchi linguaggi e di invenzione di forme nuove.
Di modernismo invece, come termine indicante appunto un nuovo gusto e una nuova poetica, si cominciò a parlare e a discutere fin dal 1896 nei circoli artistici e letterari che si andavano formando nelle grandi città. Uno dei centri più attivi della diffusione del gusto modernista fu Barcellona, la città più borghese di S., dove cioè più facilmente si poteva sviluppare quel movimento di contestazione dall’interno che era appunto il decadentismo.
Il soggettivismo e il pessimismo ricompaiono però non più nelle forme del sentimentalismo e titanismo ottocenteschi, ma in quelle dell’estetismo esotico e del sensualismo esasperato. S’imponeva la ricerca di un nuovo linguaggio, che ebbe il suo punto culminante nella concezione e nella pratica simbolista. Anche a Madrid si moltiplicarono le riviste banditrici dell’arte ‘nuova’ e ‘giovane’: Vida nueva, Revista nueva, Juventud, Arte joven. Vennero poi iniziative più mature come Helios (guidata da J.R. Jiménez, G. Martínez Sierra, R. Pérez de Ayala); e infine iniziò le sue pubblicazioni Renacimiento (1907), che vedeva raccolte le firme di S. Rueda, F. Villaespesa, J.R. Jiménez, i fratelli A. e M. Machado, G. Martínez Sierra ecc.
In questa già nutrita schiera di scrittori nuovi si cominciarono ben presto a delineare diverse scelte. Nella poesia si possono distinguere da una parte i modernisti minori come Rueda, Villaespesa, M. Machado, poeti cioè legati a una interpretazione più epidermica della nuova poetica, e quelli invece che, come Unamuno, Jiménez e A. Machado, portarono molto più avanti la ricerca di un nuovo linguaggio poetico, o che, come R. del Valle-Inclán, affidarono all’estetismo il compito di esprimere una rivolta complessa e profonda contro l’attuale condizione dell’uomo. I primi contatti con le avanguardie e il conflitto mondiale segnano la fine di questa prima fase della letteratura del Novecento in Spagna.
Gli anni della guerra significarono per scrittori come Unamuno e P. Baroja riflessione e angoscia, ma per tutti e due il maggior periodo creativo si chiudeva in quegli anni e rimaneva così legato al ‘rifiuto’ decadente. Per altri scrittori quegli anni significarono, invece, la scoperta di una nuova fiducia creativa, che caratterizzò il decennio successivo. In quegli anni fu eliminato quell’anticosmopolitismo che R. Darío criticava nella cultura spagnola dei primi del secolo come residuo di una mentalità provinciale e di vecchio individualismo, e si svilupparono forme creative che di volta in volta possono essere definite cubiste, cubofuturiste, surrealiste, espressioniste. La prima rivista su cui si portò avanti un esplicito contatto con il mondo del futurismo fu Prometeo, revista social y literaria, diretta da colui che fu protagonista e solitario interprete dello spirito dell’avanguardia, R. Gómez de la Serna. Nel 1909 uscirono su Prometeo il primo Manifesto futurista e un Proclama futurista a los españoles. Più importanti e profondi furono i rapporti con il cubismo. Mediatore dell’influenza dei cubofuturisti francesi sugli ambienti letterari spagnoli fu V. Huidobro, il giovane poeta cileno che soggiornò a Madrid dal giugno al dicembre 1918, reduce da Parigi dove aveva lavorato con G. Apollinaire. Nel clima creato dal soggiorno madrileno di Huidobro nacque l’ultraismo (1918) e cioè l’unico, e fallito, tentativo di dar vita a un movimento d’avanguardia in Spagna.
Il Novecento è stato particolarmente ricco di poesia. La prima fase di questa stagione poetica è rappresentata dai due poeti che elaborarono e superarono in forme originali sia l’esperienza di Bécquer sia la lezione di Darío e dei simbolisti, e cioè J. R. Jiménez e A. Machado, veri maestri dei poeti delle generazioni successive e in primo luogo della Generazione del ’27 (➔). Durante gli anni 1920 la letteratura spagnola si andò sviluppando intorno a due grandi centri di attività culturale: la Residencia de estudiantes di Madrid e la Revista de Occidente. La Residencia dal 1910 al 1936 fu punto d’incontro di giovani intellettuali spagnoli e stranieri in un ambiente aperto a tutte le esperienze. La Revista de Occidente, fondata nel 1923 da J. Ortega y Gasset, fu fino al luglio del 1936 organo di espressione dei settori evoluti dell’intellettualità borghese spagnola sulla base di un preciso e chiaro programma: aprirsi senza diffidenza al contatto con la cultura ‘occidentale’ e ‘nuova’ e contribuire al suo sviluppo con autonoma ricerca. Agli scrittori spagnoli degli anni 1920 la rivolta e l’ottimismo dei surrealisti e la loro poetica arrivarono come stimoli vivificatori, rispondenti a una disposizione, già presente in alcuni di loro, a superare il perfezionismo di Jiménez e il vitalismo di Ortega. La narrativa intellettualistica ed ermetica di quegli anni, invece, non raggiunse mai i risultati della lirica.
La Generazione del ’27 fu una generazione di critici e di poeti, i quali, contrariamente ai rappresentanti della Generazione del ’98, ebbero la coscienza di appartenere a un gruppo e rivendicarono l’esistenza di un legame tra loro, un’affinità, un’amicizia, un incontrarsi sul piano di una passione comune: la poesia. Nella complessiva unità della Generazione del ’27 si possono individuare diversità di tendenze. Il 1927 serve anche a delineare due periodi nell’attività del gruppo: un primo periodo (1920-27), di relativa omogeneità sulla linea (che risale all’opera di Jiménez) della ‘poesia pura’, antipatetica, difficile fino all’oscurità; e un secondo periodo (1927-36), in cui si delinea la divisione fra coloro che, come Guillén e Salinas, continuarono sulla stessa linea e coloro che, come Lorca e Alberti, si mossero verso una poesia ‘umana’, profetica, in parallelo sviluppo rispetto al surrealismo. P. Salinas sviluppa nelle sue raccolte fondamentali la tematica dell’amore; J. Guillén investe invece con uno sguardo gioiosamente creativo tutte le cose, anche le più triviali, mirando a cogliervi ogni possibile tendenza estetica.
Rappresentanti minori di questa generazione sono G. Diego, che pubblicò nel 1931 la sua Antología, e J. Larrea, il quale, scoperto il surrealismo, si trasferì definitivamente a Parigi e cominciò addirittura a scrivere in francese. Il primo periodo dell’attività poetica della Generazione del ’27 si chiude con due straordinari libri di poesia: Romancero gitano (1928) di F. García Lorca e Sobre los ángeles (1929) di R. Alberti.
Nel 1931 nasceva, dalla dissoluzione del regime di Primo de Rivera e dai contraccolpi della crisi generale del capitalismo, la seconda Repubblica spagnola. Il gruppo dirigente del nuovo regime fu costituito per lo più da intellettuali repubblicani e socialisti. La ‘Repubblica degli intellettuali’ diede grande importanza all’attività culturale, come momento essenziale nella formazione del consenso all’azione del governo. Gli scrittori spagnoli furono assai sensibili al mutamento del clima sul piano internazionale e nazionale. Grande impulso ricevette il teatro, tra gli altri J. Benavente, premio Nobel per la letteratura (1922). Nella narrativa s’inaugurava un filone di romanzo sociale e impegnato che tentò di collegarsi direttamente allo scontro sociale in atto. Prima J. Arderius, J. Díaz Fernández, C.M. Arconada e altri, verso la fine del 1928, scrissero, in aperta polemica con il gruppo della Revista de Occidente, romanzi direttamente usati come denuncia della retorica patriottarda e dell’assurdità delle guerre coloniali; poi, agli inizi degli anni 1930, A. Carranque de Ríos, I. Acevedo e altri interpretarono la presenza del proletariato con romanzi che hanno per protagonista questa entità superindividuale incarnata in eroi ‘positivi’.
La guerra civile spezzò in due questo gruppo di scrittori, nel senso che divise la loro attività di narratori sociali degli anni 1930 da quella che essi svolsero poi come scrittori in esilio a partire dal 1939. È il caso di R.J. Sender, il più autentico e ricco tra questi narratori. Ma la poesia restò il terreno più fertile e significativo dell’attività letteraria degli anni 1930 in Spagna. Tre riviste caratterizzarono questo periodo: Cruz y raya, Octubre e Caballo verde para la poesía. Cruz y raya uscì dall’aprile del 1933 al giugno del 1936 per iniziativa di un gruppo di scrittori di varia provenienza. Dal giugno del 1933 all’aprile del 1934 uscirono i sei numeri di Octubre a opera di R. Alberti, M.T. León e altri, tra cui E. Prados, A. Serrano Plaja, L. Cernuda, A. Machado. E infine Caballo verde para la poesía, sorta nel 1935 per iniziativa di M. Altolaguirre, s’inquadra nella presenza in S. di P. Neruda a partire dal 1934, presenza destinata a influenzare fortemente i giovani poeti. L’esito della guerra civile era destinato a spegnere il fervore creativo che aveva caratterizzato fino al 1939 il Novecento letterario spagnolo.
L’età di Franco. Verso la fine degli anni 1940 cominciarono a uscire nell’ambito delle organizzazioni del regime, con la copertura dei falangisti più liberali (J. Ruiz Giménez; P. Laín Entralgo), alcune riviste giovanili di tono anticonformista: a Madrid La hora (1948-49) e a Barcellona Laye (1950-54). Lentamente le fila del discorso letterario si andavano rianimando. Anche nella lirica la guerra rappresentò una interruzione del processo creativo. Della Generazione del ’27 erano rimasti in patria solo V. Aleixandre y Merlo (premio Nobel per la letteratura nel 1977) e D. Alonso, entrambi maestri per i giovani poeti. Nei primi anni 1940 si ebbe una regressione rispetto alla ricchezza e all’originalità dei decenni precedenti. La poesia pubblicata tra il 1943 e il 1946 dal gruppo di Juventud creadora sulla rivista Garcilaso diretta da J. García Nieto appare tutta di buona fattura, sia pure priva di originalità. Ma nel 1944 uscirono due libri importanti, Sombra del Paraíso di Aleixandre e Hijos de la ira di D. Alonso, che inaugurarono una nuova tendenza, allontanandosi dal formalismo di Garcilaso e aprendosi a problematiche esistenziali. Dal 1944 al 1951 uscì a León la rivista Espadaña, rivista che si fece portavoce di questa nuova tendenza esistenzialista. Nel 1952 si pubblicò una Antología consultada de la joven poesía española che presentava come migliori poeti di quel periodo C. Bousoño, G. Celaya, V. Crémer, V. Gaos, J. Hierro, R. Morales, E. de Nora, B. de Otero e J.M. Valverde.
Negli anni 1950 la poesia fu caratterizzata complessivamente da un forte accentuarsi della tematica sociale. Tra i poeti di questi anni si possono citare quelli della cosiddetta scuola di Barcellona, J.A. Goytisolo, C. Barral, J. Gil de Biedma, per i quali il valore strumentale della poesia tende però ad affievolirsi a favore di una più profonda conoscenza dell’uomo e della realtà. Nel romanzo la ripresa fu più lenta; in esilio continuavano a scrivere R.J. Sender, F. Ayala, e uscivano romanzi sulla guerra, come quelli di M. Aub: Campo cerrado (1943), Campo abierto (1944, pubblicato nel 1951), Campo de sangre (1945). Queste opere, tuttavia, non circolavano in Spagna. A partire dal 1945, il premio barcellonese Nadal e poi altri premi letterari stimolarono i narratori a scrivere, presentare, pubblicare le loro opere. Il primo premio Nadal andò a Nada (1944) di C. Laforet, un romanzo che fece impressione per l’asciuttezza con cui la giovane autrice vi descrive un’esperienza femminile. Intanto, nel 1942, con La familia de Pascual Duarte si era rivelato quello che sarà uno dei maggiori scrittori spagnoli del dopoguerra, C.J. Cela, premio Nobel per la letteratura nel 1989.
Subito dopo il 1950, cessati gli effetti immediati della guerra civile, in S. si tradusse e si pubblicò molto di più, dando origine a una ripresa della vita culturale in ogni campo (figurativo, cinematografico, narrativo), mentre il romanzo rivelava influssi del romanzo nordamericano e del neorealismo italiano. Nel 1951 La colmena di Cela segnava l’inizio di questa ripresa. Nel 1952 uscì Juegos de manos di J. Goytisolo, seguito da Duelo en el Paraíso (1954). A Barcellona vivevano e operavano in quegli anni L. Goytisolo, fratello di Juan, e A.M. Matute, autrice di Los Abel (1948) e Pequeño teatro (1954) nonché di altri numerosi e notevoli romanzi. A Madrid vivevano e pubblicavano I. Aldecoa, M. Delibes, che dopo La sombra del ciprés es alargada (1947), Aún es de día (1949), El camino (1951), continuerà a pubblicare quasi un romanzo all’anno; la scrittrice C. Martín Gaite; J. Fernández Santos. Nel 1955 R. Sánchez Ferlosio vinse il premio Nadal per El Jarama, romanzo tra i più validi della narrativa spagnola del dopoguerra. Verso la fine degli anni 1950 un gruppo di narratori madrileni (A. López Salinas, J. López Pacheco, A. Ferres) cominciò a scrivere e teorizzare un ‘romanzo realista’, in cui si fa esplicita la denuncia delle condizioni di vita operaie e la condanna morale della borghesia. Il realismo critico perdurò a lungo come dimostrano ancora nel 1966 i romanzi Señas de identidad di J. Goytisolo e Últimas tardes con Teresa di J. Marsé. Negli anni 1960 nascono in S. nuove riviste (Cuadernos para el diálogo, 1964; Ruedo ibérico, 1965; la nuova serie della Revista de Occidente, 1963), si intensificò l’attività dei saggisti e dei filosofi (E. Tierno Galván; J.L. Aranguren; J. Ferrater Mora). Nel 1962, Tiempo de silencio, il bel romanzo dello psichiatra L. Martín Santos (morto due anni dopo) sembra la rivelazione di un nuovo tipo di narratore.
Nel teatro F. Arrabal scrive per lo più in francese e negli ambienti teatrali spagnoli l’influenza di A. Artaud si alterna a quella di P. Weiss. Scrivono negli anni 1960, senza però spesso riuscire a vedere rappresentate né pubblicate le proprie opere, anche L. Olmo, J. Martín Recuerda, e F. Nieva, forse una delle voci più innovatrici di questi anni. Verso la fine del decennio appaiono autori di teatro propriamente sperimentale: sono A. Miralles e J. Ruibal.
Nella poesia, gli anni 1970 si aprono con l’antologia Nueve novísimos poetas españoles (1970) di J.M. Castellet, il quale offre un panorama della rivolta dei giovani contro la ‘poesia impegnata’. Tra i poeti di maggior rilievo: P. Gimferrer, F. de Azúa, L.M. Panero, promotori di una lirica fortemente estetica e intellettuale. Nella narrativa, che rivela una forte influenza della letteratura ispano-americana, tra coloro che iniziarono a pubblicare nei primi anni 1960 e che hanno dato il meglio della loro produzione nei decenni successivi, sono da segnalare G. Torrente Ballester, A. Cunqueiro, detto il Borges gallego, e J. Benet, creatore di un mondo narrativo faulkneriano di grande complessità. Tra le narratrici, accanto alle citate Martín Gaite, Matute ed E. Soriano, già affermatesi negli anni 1950, si distinguono M. Mayoral, L. Ortiz, S. Puértolas. Nel complesso, la produzione letteraria degli ultimi decenni del Novecento è caratterizzata in S. da una serie di esperienze che sarebbe arduo ricomporre in un quadro unitario.
Negli anni 1980-1990, la poesia dal tono colloquiale e dall’impostazione realista, che riportava l’uomo in primo piano e non rifuggiva dalle forme tradizionali, documentabile nell’opera di M. d’Ors, F. Ortiz, L.A. de Cuenca, L. García Montero e F. Benítez Reyes, trova sfumature e accenti nuovi nella direzione più astratta e metafisica, aperta alla riflessione e a toni meditativi, propria di autori come C. Marzal e J. Riechmann, o nel realismo duro di R. Wolfe. Su un altro versante, la lirica neopurista di R. Romojaro, A. Sánchez Robayna e J. Navarro, che affonda le sue radici nel simbolismo e nella tradizione della poesia pura, si affianca alle tendenze più marcatamente sperimentali, sulla scia della poesia degli anni 1970, di J.M. Bonet, A. Trapiello e B. Andreu. Particolarmente feconda, negli ultimi anni del 20° sec., è anche la raffinata poesia erotica di scrittrici come A. Rossetti e J. Castro. Ma è soprattutto nella linea della poesía de la experiencia che si avvertono le innovazioni di maggior interesse: questa lirica realista e figurativa tratta di temi quotidiani e universali, ma sempre dal punto di vista del singolo individuo, ed è aliena da ogni impostazione ideologica. Tra gli esponenti di tale tendenza: A. García; A. Paniagua; L. Plana; L. Muñoz; A. Tesán; C. Pardo.
Nell’ambito della narrativa, uno dei filoni più fecondi è quello che unisce la riflessione sul processo della scrittura al tentativo di ordinare la caotica esperienza della realtà: A. Muñoz Molina, Á. Pombo, la scrittrice Martín Gaite, J. Marías (Negra espalda del tiempo, 1998; Tu rostro mañana, 3 vol., 2002-07). La riscoperta del romanzo d’impianto tradizionale spiega anche, in particolare, il successo della novela negra, in cui la struttura del giallo si combina felicemente con l’analisi sociologica: per tutti gli anni 1980-1990 e oltre si consolida la fama del detective Pepe Carvalho inventato da M. Vázquez Montalbán (El premio, 1996; Quinteto de Buenos Aires, 1997) e sulla sua scia appaiono numerosi romanzi che tentano di emularne il successo. Queste storie dal taglio poliziesco sconfinano spesso in romanzi non propriamente ascrivibili alla categoria del ‘giallo’, ma che si aprono piuttosto all’indagine sociopolitica e alla riflessione sull’attualità (Galíndez, 1990, di Vázquez Montalbán; Plenilunio, 1997, di Muñoz Molina; La piel del tambor, 1995, di A. Pérez Reverte). Un altro genere rivalutato è il romanzo d’azione e d’avventura, talora a sfondo storico (si pensi ai romanzi di Pérez Reverte El Capitán Alatriste, 1996, e Limpieza de sangre, 1997). Ma il tratto forse più significativo della narrativa dall’ultimo ventennio del 20° sec. in poi è da ricercarsi nella dirompente presenza di intime storie esistenziali, talora dal taglio psicanalitico, che invadono romanzi e racconti: Corazón tan blanco (1992) e Mañana en la batalla piensa en mí (1994) di Marías; Donde las mujeres (1996) di Pombo; La mirada del alma (1997) di L.M. Díez. In questa linea è rilevante la presenza femminile, con opere in cui, accanto a una spiccata vena intimista, trovano spazio problematiche femministe o questioni sentite come peculiari dell’universo femminile (E. Tusquets; R. Montero; la citata Martín Gaite; P. Díaz-Mas; M. Soriano; A. Grandes; L. Castro). Un mutamento di rotta sembra, invece, caratterizzare le opere degli scrittori più giovani, dove, sotto le spoglie di un recupero del realismo attento alla disperazione e alla ribellione del mondo giovanile, affiora una vena di marcato sperimentalismo (A. Cerezales; D. Múgica; J.A. Mañas).
Infine, per quanto riguarda le innovazioni sperimentali, grande importanza hanno avuto alcuni gruppi teatrali, sorti tra gli anni 1960 e 1970, specie in Catalogna, dediti spesso al teatro di strada, che hanno privilegiato l’elemento plastico, sonoro e gestuale rispetto alla parola: tra questi il più celebre è senz’altro La Fura dels Baus.
Per un panorama delle più importanti letterature di espressione castigliana ➔ ispano-americana, letteratura.
Si conservano numerosi monumenti di età romana, in prevalenza opere pubbliche, come ponti, acquedotti, cinte murarie, vestigia di fori, circhi, templi, oltre che a Mérida, Tarragona e Segovia, città particolarmente fiorenti in età augustea, ad Alcántara, a Salamanca ecc. I maggiori centri archeologici della S. sono Ampurias, Numanzia e Tartesso.
Tra i rari monumenti cristiani (posteriori al 4° sec.: battistero sotto la cattedrale di Barcellona ecc.) che presentano caratteristiche dell’architettura e della scultura paleocristiane comuni a tutta l’area mediterranea, emerge il mausoleo, con ricca decorazione musiva, di Centcelles, presso Tarragona.
Più complessa e originale è l’arte della S. visigota, con chiese caratterizzate da paramenti murari a grandi blocchi squadrati, absidi rettangolari e uso dell’arco a ferro di cavallo: S. Juan de Baños, presso Palencia, basilica fondata da Recesvindo (653-672); S. Pedro de la Nave, presso Zamorra (7° sec.), S. Comba de Bande presso Orense (7° sec.), S. Maria de Quintanilla de las Viñas presso Burgos (7°-8° sec.), che conserva il più importante complesso scultoreo visigoto.
La conquista islamica della Penisola Iberica (al-Andalus) porta alla grande fioritura della civiltà ispano-moresca che originalmente combina tradizioni iberico-visigote con quelle siriache e iraniche (➔ Cordova; islam).
Dell’arte delle Asturie e della monarchia asturiana, che stabilisce la sua capitale a Oviedo, rimangono importanti testimonianze: al regno di Alfonso II risale S. Julián de los Prados (Santullano; dell’812-842, basilica a tre navate, imponente transetto e tre absidi rettangolari), che conserva una decorazione ad affresco, con temi essenzialmente architettonici; del regno di Ramiro I (842-850) sono S. Miguel de Lillo (notevole decorazione scultorea), la cappella di S. Cristina de Lena e il palazzo del Naranco, trasformato in S. Maria di Naranco (a due piani, quello inferiore voltato a botte). Un’ultima fase di arte asturiana è rappresentata da chiese, come S. Salvador de Valdediós (fine 9° sec.), a tre navate e tre absidi rettangolari.
La presenza araba in S. trova una particolare espressione nell’arte mozarabica (➔ Mozarabi), legata a nuclei cristiani che sussistono nei territori sottoposti al dominio musulmano: sola testimonianza di architettura mozarabica in territorio islamico è la chiesa di Bobastro presso Malaga (899-917) ma già dall’inizio del 9° sec., con il venire meno della tolleranza, cominciano le migrazioni verso le regioni settentrionali di Mozarabi, che portano motivi architettonici tipici, come l’arco a ferro di cavallo, nelle Asturie, nel León e nella Galizia (S. Miguel de Escalada, 913 ca.; S. Miguel di Celanova, 936; S. Baudel di Berlanga, 11° sec.). L’arte mozarabica si manifesta anche nelle arti applicate (oreficeria, scultura in avorio, miniatura).
Nei territori nord-orientali più intensi sono i contatti con i linguaggi artistici sviluppati al di là dei Pirenei (➔ Catalogna). Nell’11° sec. cominciano a penetrare largamente nella S. influssi lombardi e francesi. I più importanti edifici romanici (sec. 11°-12°) sono la cattedrale di Palencia, che ha strette relazioni con l’architettura asturiana; la grandiosa cattedrale di Jaca; S. Isidoro a León; S. Martín di Frómista (Palencia); S. Domingo de Silos e la cattedrale di Santiago de Compostela, monumento principale dell’architettura romanica spagnola. In tutti ha grande importanza la ricca decorazione plastica. Imponente la serie degli affreschi catalani (cattedrale di Urgel; S. Clemente di Tahull). Con la riconquista dei territori dominati dai musulmani prende avvio, dal 12° sec., lo stile mudéjar (➔), di cui si hanno esempi a Arévalo (Ávila), Cuellar, Sahagún, Toledo ecc.
Opere di transizione al gotico, degli ultimi decenni del 12° sec., sono: Pórtico de la Gloria nella cattedrale di Santiago de Compostela; cattedrale di Ávila; navata della cattedrale di Zamora. Da monaci cistercensi furono costruiti i monasteri a Poblet e a Santas Creus in Catalogna, dove sorse, nello stile gotico di transizione, anche la cattedrale di Tarragona. Nella Castiglia, il monastero di Huerta influisce sulla cattedrale di Sigüenza, cui si collegano la cattedrale di Cuenca e il monastero di Las Huelgas presso Burgos. Un aspetto militare distingue la cattedrale di Tuy (Galizia).
La grande architettura gotica si afferma all’inizio del 13° sec. (cattedrali di Burgos, Toledo e León) e perdura nei secoli seguenti (cattedrali di Siviglia e Gerona, 15° sec.; Salamanca e Segovia, 16° sec.). Moreschi sono, tra l’altro, il chiostro di Guadalupe (Cáceres) e il castello di Coca. Strettamente dipendente dalla Francia è la grandiosa decorazione plastica delle facciate delle cattedrali di León e di Burgos.
La scultura ebbe ricca fioritura nel 15° sec., con contributi di artisti francesi, fiamminghi, tedeschi e italiani, soprattutto nei grandi altari scolpiti (di Tarragona, di S. Nicolás di Burgos, quello colossale della cattedrale di Siviglia e quello di Toledo dell’inizio del 16° sec.), e negli stalli corali (in stile gotico fiorito a S. Tomás di Ávila, nella certosa di Miraflores ecc.).
La pittura italiana penetra in S. già nella prima metà del Trecento. Reminiscenze fiorentine e senesi si trovano in F. Bassa e nei fratelli Serra (14° sec.); elementi senesi insieme a quelli della miniatura d’oltre Pirenei si notano nella pala dell’altare maggiore della cattedrale di León (maestro Nicola Francese). La pittura fiamminga caratterizzò quella spagnola del 15° sec. (L. Dalmau; J. Baço).
Nel 14° sec. emerse lo splendore decorativo dell’arte musulmana: esempi senza pari ne sono le meraviglie di Granada (Alhambra e Generalife). La sua influenza penetrò anche in Castiglia. Fiorente, già dal 13° sec., la produzione di maioliche (➔ azulejo). Prima dell’introduzione del Rinascimento italiano, l’architettura seguì nella prima metà del 15° sec. lo ‘stile Isabella’, che partecipa del gotico fiorito e di motivi moreschi (S. Giovanni de los Reyes, Toledo; palazzo dell’Infantado, Guadalajara; castello del Real de Manzanares, Madrid ecc.). Nella pittura l’influsso fiammingo divenne quasi esclusivo (F. Gallegos). Fusero variamente elementi fiamminghi e italiani R. Osona il Vecchio, attivo a Valencia, B. Bermejo, che dipinse in Aragona e Catalogna, A. Fernández, che lavorò principalmente a Siviglia, e P. Berruguete, castigliano, operoso anche in Italia, a Urbino. La pittura catalana negli ultimi decenni del 15° sec. conta maestri come J. Huguet e i Vergós.
Sulla fine del sec. 15°, e soprattutto nel 16°, l’arte italiana influenza l’architettura, la scultura e la pittura (D. Fancelli, B. Ordóñez, P. Torrigiano, Iacopo l’Indaco). Non pochi sono gli artisti di formazione italiana (F. Yáñez de la Almedina, F. de los Llanos, A. Berruguete, P. Machuca, V. J. Macip, suo figlio Juan de Juanes, F. Vigarny ecc.). Elementi architettonici del Rinascimento italiano si sovrappongono a un fondo stilistico gotico, trattati con tecnica e reminiscenze moresche (sala capitolare della cattedrale di Toledo; cappella dell’Annunziata nella cattedrale di Sigüenza; sala ‘dei Grandi’ nell’università di Alcalá ecc.). La diffusione del Rinascimento italiano assunse caratteri spagnoli nello stile plateresco (➔): tra i maggiori architetti del periodo, A. de Covarrubias, P. Gumiel e Diego de Siloe; successivamente, A. de Vaudelvire e J. de Herrera. Tra gli scultori, oltre a A. Berruguete, notevoli Filippo di Borgogna, Vasco de Zarza, D. Forment, Juan de Juní, G. Becerra e gli italiani L. e P. Leoni.
Il regno di Filippo II segnò una reazione classicistica, espressa nel maggior monumento dell’epoca, l’Escorial (➔).
Filippo II iniziò anche le maggiori collezioni di opere d’arte, raccogliendole nel Prado e nell’Alcázar di Madrid. Alla sua morte (1598) esistevano in S. centri artistici importanti: la corte, Toledo, Siviglia e Valencia e, per la scultura, Valladolid e Granada. Nella corte (Madrid; Escorial) dominavano due tendenze: decoratori italiani e italianeggianti (attivi all’Escorial F. Zuccari, L. Cambiaso, P. Tibaldi) e ritrattisti seguaci di A. Sánchez Coello e, attraverso questo, di Tiziano e di A. Moro. A Toledo si affermava la grande figura del Greco, a Valencia nasceva una maniera d’ispirazione caravaggesca (F. Ribalta). A Siviglia lavoravano F. de Herrera il Vecchio, F. Pacheco del Río e J. de las Roelas. Nella scultura, a Valladolid G. Fernández iniziava la scuola della statuaria realistica castigliana, mentre a Siviglia svolgeva un ruolo analogo J. Martínez Montañés.
La prima metà del 17° sec. è dominata da D. Velázquez; primeggiano a Valencia J. de Ribera, a Siviglia F. Zurbarán e A. Cano (pittore, architetto e notevole scultore: decisiva la sua influenza nella scultura). La tradizione realistica fu continuata a Madrid dal pittore portoghese M. Pereira.
Tra gli architetti di questa fase barocca emergono S. Herrera Barnuevo, Pedro de la Torre, F. de Herrera il Giovane. Nella seconda metà del 17° sec. J. Carreno, F. Ricci, F. de Herrera il Giovane e C. Coello si distinguono tra i pittori di corte; a Valencia operavano seguaci di Ribera e di J.J. Espinosa; a Siviglia, B.E. Murillo e J. de Valdés Leal. L. Giordano, chiamato nel 1692 a Madrid da Carlo II, ripartì nel 1702, lasciando un vuoto nella pittura spagnola. La scultura, specie in Andalusia, seguiva a Granada la scuola di A. Cano (P. de Mena y Medrano e J. Mora); a Siviglia P. Roldán sviluppava il valore pittorico della scultura barocca.
Nel campo dell’architettura, a Siviglia, a Granada, a Santiago de Compostela, a Salamanca, a Valencia, a Saragozza e a Madrid si formano tendenze tipiche. Dai Churriguera (➔) deriva l’aggettivo churrigueresco che definisce lo stile della fine del 17° sec. e dell’inizio del 18°. L’architettura churrigueresca continuò a dominare il 18° sec. (P. de Ribera a Madrid, F. Hurtado a Granada, F. Casa y Novoa a Santiago de Compostela). L’arrivo di F. Juvarra, chiamato per dare i progetti del nuovo palazzo reale, segna il principio di un nuovo sviluppo.
La scultura di carattere tradizionale è rappresentata dalle terrecotte della Roldana (figlia di P. Roldán) e soprattutto dalle statue del murciano F. Salzillo. La pittura, con l’opera erudita di A.A. Palomino (più importante come scrittore d’arte), riempiva soffitti e volte o prolungava stancamente la maniera di Murillo in Andalusia. Giunsero pittori stranieri, soprattutto dall’Italia: I. Amigoni, C. Giaquinto e, specialmente, G.B. Tiepolo (coi figli Lorenzo e Gian Domenico) e A.R. Mengs, i quali esercitarono un profondo influsso sui pittori spagnoli. Tra gli imitatori di Mengs è da ricordare F. Bayeu y Subias. La pittura iniziò a ispirarsi ai costumi contemporanei, cui si rivolse, in una prima fase, anche la fabbrica di arazzi di Madrid, diretta da Mengs.
Il neoclassicismo ebbe nella S. tre grandi architetti: V. Rodríguez Tizón, di tendenze ancora baroccheggianti, F. Sabatini e J. de Villanueva. Nella scultura si distinsero M. Álvarez, e F. de Castro. Tracce della tradizione degli statuari religiosi restano nelle opere di L.S. Carmona e del gallego J.J. Ferreiro.
Nella prima metà del 19° sec. l’architettura continuò nello stile neoclassico, mentre nella seconda ottenne qualche successo un ritorno nazionalistico alle vecchie tradizioni. Fu soprattutto la pittura ad avere uno sviluppo originale. Il primo trentennio fu dominato dalla personalità di F. Goya, e dai suoi imitatori (L. Alonso y Nieto). Nel movimento postromantico si distinsero E. Rosales, che trattò soggetti storici e ritratti, e M. Fortuny. Chiude la pittura spagnola del 19° sec. la figura di J. Sorolla.
Al volgere del secolo si afferma in Catalogna una corrente che partecipa in modo originale alle istanze internazionali per un’arte nuova, e in architettura i suoi maggiori esponenti sono L. Domenech i Montaner e A. Gaudí i Cornet (➔ modernismo). La pittura dei primi decenni del Novecento si mantiene fedele alla tradizione rifacendosi a Goya e ai grandi maestri del Seicento spagnolo (I. Zuluaga, J. Gutiérrez Solana, i fratelli Zubiaurre), ma uno straordinario contributo all’avanguardia europea è dato da artisti come P. Picasso, J. Gris, J. Gonzales, J. Miró, S. Dalí. Il GATCPAC (➔) è tra le punte più avanzate dell’avanguardia architettonica e artistica in S. prima della guerra civile.
Dopo un periodo di stasi, seguito all’instaurazione del regime franchista, nel 1948 si assiste a un nuovo sorgere di iniziative estremamente vivaci con un gruppo di pittori astratti a Saragozza (F. Aguayo), con la fondazione a Barcellona di Dau al Set, che unisce tendenze surrealiste e astratte (A. Tapies, J.J. Tharrats, M. Cuixart, J. Ponç) e con la cosiddetta scuola di Altamira che raggruppa intorno a M. Goeriz artisti come P. Palazuelo, A. Ferrant, M. Millares e organizza congressi (1949 e 1950) e una prima esposizione di arte astratta (1953) a Santander. Sempre nel 1953 si tiene a Madrid un’importante esposizione di «Arte fantastica»; l’Istituto Hispanico fonda a Puerto de la Cruz (Tenerife) il Museo d’Arte Astratta Westerdhal, e a Barcellona si istituisce il Salon de Majo e nasce il gruppo Taüll (1955) con Tapies, Tharrats, Cuixart, J. Guinovart. Di grande interesse è a Valencia l’attività del gruppo Parpalló (1956) che con M.J. Perez, F. Perez Pizarro, J. Gil, J. Genoves, S. Montesa, S. Soria, cura la pubblicazione Arte vivo e si ispira all’integrazione fra le arti; analoghi intenti persegue il gruppo Forma di Barcellona (M. Benet, J. Oteiza). Nel 1957 nasce a Cordova Equipo 57 con J. Duarte, J. Serrano, J. Cuenca, di impostazione costruttivista, mentre a Madrid il gruppo El Paso riunisce M. Millares, A. Saura, L. Feito, R. Canogar, M. Chirino.
La pittura materica e gestuale è rappresentata dal gruppo Silex (1964) di Barcellona. Reagiscono a ricerche puramente formali J. Genovés e il gruppo Crónica de la realidad con M. Valdés e R. Solbes (Equipo Crónica), che per un maggiore impegno politico e sociale e una più interessante invenzione formale si distacca dai vari gruppi di Estampa Popular. All’impostazione di Crónica de la Realidad si riallaccia la vivace personalità di E. Arroyo. Esponenti della ricerca ottico-cinetica sono E. Sempere e F. Sobrino.
Per la scultura interessanti le esperienze di E. Chillida, M. Berrocal, J.M. Subirachs, J. Haro, A. Gabino, A. Alfaro, X. Corberó, F. Hernández e L. Lugan (opere plastico-elettroniche). Alle varie connotazioni dell’arte concettuale (dalle installazioni ‘cerimoniali’ di A. Miralda, alle video-installazioni di A. Muntadas) si contrappone, dagli anni 1980, anche in S. un ritorno alla figurazione (L. de la Cámara, L. Arraz Bravo, M. Barceló, dedicatosi dal 1995 anche alla ceramica, G. Pérez Villalta).
Negli ultimi anni del 20° sec. la politica culturale ufficiale ha assunto un ruolo fondamentale nella vita artistica del paese, con la creazione di centri e musei dedicati all’arte contemporanea. Tra gli artisti già affermati: F. García Sevilla, che da una ricerca concettuale giunge a una pittura astratta; J.M. Broto, astrattista; S. Sevilla, che elabora allusive pitture e installazioni. Si affermano i pittori J. Maria Sicilia, J. Uslé, Perejaume, che opera con pittura e fotografia; il gruppo dei pittori sivigliani (R. Cardenas, G. Paneque, F. Guzmán).
Nella scultura, notevoli J. Muñoz, autore di sculture e installazioni; M. Navarro; S. Solano; C. Iglesias. Sono ancora da ricordare J. Plensa, M. Paz, B. Bergado, M. Arenzana, R. Catania, nel campo della scultura e dell’installazione; gli assemblaggi di A. Abad. Coltivano un’arte del corpo E. Ferrer e N. Canal; C. Guerra e D. Gutiérrez, tra pittura e installazione; T. Giro con ricerche sull’oggetto. Elaborazioni video e multimediali creano M. Saiz, A.L. Aláez, S. Rabanal; lavorano sulla fotografia C. Madoz, T. Caballos, D. Canogar.
In campo architettonico importanti le realizzazioni di J.A. Coderch, grande ispiratore della scuola di Barcellona, dalla quale si staccano con originali proposte lo studio PER (L. Clotét, O. Tusquets, P. Bonet, C. Cirici) e R. Bofill con il Taller de Arquitectura. Legati alla scuola di Madrid sono F.J. Saenz de Oiza, J.A. Corrales Gutierrez, R. Moneo. Nel 1992 le Olimpiadi di Barcellona e l’esposizione universale di Siviglia sono state occasione di importanti interventi da parte di architetti spagnoli (Moneo, studio Bohigas, Martorell e Mackay, R. Bofill, S. Calatrava) e stranieri (N. Foster, A. Isozaki, V. Gregotti, G. Aulenti).
In seguito a tali manifestazioni l’architettura spagnola ha inaugurato una stagione di rinnovamento architettonico che ha interessato tutta la Penisola Iberica. La S. ha così dimostrato di possedere un’architettura di alto livello e una propria identità, in contrasto con il processo di omologazione stilistica riscontrabile in campo internazionale. Hanno consolidato la propria posizione, anche al di fuori dei confini iberici, personalità già note come R. Moneo, J. Navarro Baldeweg, O. Bohigas (studio MBM), G. Vázquez Consuegra, O. Tusquets; i progettisti affermatisi negli ultimi vent’anni del 20° sec. hanno per lo più lavorato in continuità con i predecessori, producendo opere spesso di notevole interesse. Tra questi: E. Miralles Moya; J.L. Mateo; M. de las Casas; Rei Alfonso Enriques; J. Bach & G. Mora; A. Campo; A. Cruz & A. Ortiz; C. Ferrater. La scuola architettonica spagnola ha dato infine segno di estrema vitalità con un’ulteriore generazione di progettisti capace di rigenerare idiomi consolidati: particolarmente degni di nota sono L. Moreno Mansilla & E. Tuñon; J. Llinàs; F. Soriano & D. Palacios; A. Payà; P. Mangado; studio RCR arquitectos, costituito da R. Aranda, C. Pigem e R. Vilalta; studio BAAS di J. Badia; studio AMP arquitectos, costituito da F. Artengo, F. M. Menis e J.M. Rodriguez-Pastrana.
I primi documenti certi della storia musicale spagnola risalgono al 6° sec., periodo in cui si ebbe la creazione del vasto patrimonio del canto liturgico cosiddetto mozarabico. Importante fu il periodo trovadorico del 12°-13° sec., in cui le corti di Catalogna e Castiglia chiamarono numerosi trovatori catalani e provenzali. Accanto a un progressivo sviluppo della polifonia, nel 15° sec. si assistette alla formazione di un repertorio profano (costituito da generi come villancicos, romances, estrambotes), che per i numerosi elementi italianizzanti deve probabilmente le sue origini alla corte napoletana.
Il momento massimo dell’arte musicale spagnola si ebbe nel 16° sec. con la fioritura di grandi scuole polifoniche che ebbero i loro massimi esponenti nelle figure di F. Guerrero, D. Ortiz, A. de Cabezón e soprattutto T.L. de Victoria, il più celebre di tutti. Parallelamente si sviluppò un repertorio per liuto e per chitarra.
Nel 17° sec. non si produssero scosse significative in ambito sacro e strumentale, mentre si svilupparono una serie di generi teatrali (zarzuelas, églogas, fiestas de música y de teatro, fiestas cantadas, comedias armónicas ecc.), il cui primo esempio fu la Selva sin Amor (1619) su testo di L. de Vega; mentre risale al 1660 la prima opera barocca spagnola di cui sia pervenuta, almeno in parte, la musica: Celos aun del aire matan, testo di P. Calderón de La Barca, musica di J. Hidalgo.
Con il 18° sec. iniziò per la musica spagnola un lungo periodo di transizione, che non portò compositori di rilievo. La musica strumentale del tempo fu dominata dagli italiani D. Scarlatti e poi L. Boccherini, così come il predominio teatrale italiano (iniziato nel 1703 con l’arrivo della prima compagnia lirica italiana a Madrid) fu favorito dalla corte. In opposizione alla dominante opera italiana, nel 19° sec. si dette vita a un repertorio teatrale d’impronta marcatamente nazionale, riprendendo il genere della zarzuela che conobbe grande fortuna con F.A. Barbieri (1823-1894).
Contemporaneamente si sviluppò uno stile più popolaresco, detto género chico, con F. Chueca (1846-1908), autore de La gran via (1886). Non meno intensa fu l’attività in campo strumentale, dove emersero tra gli altri il violinista P. de Sarasate, i pianisti e compositori I. Albéniz ed E. Granados, i chitarristi F. Sor (1778-1839, anche compositore) e F. Tarrega (1852-1909).
Nella prima metà del 20° sec. si situa l’attività di M. de Falla e J. Turina che, attenti alle suggestioni dell’impressionismo francese, furono autori di un profondo rinnovamento stilistico, in campo sia teatrale sia vocale-strumentale. Negli anni che seguirono la guerra civile, molti compositori si adoperarono per una rinascita della musica regionale spagnola, inserendosi nel movimento d’avanguardia europeo; tra essi in particolare F. Mompou, J. Rodrigo e soprattutto R. Gerhard (dal 1939 in Inghilterra), nella cui opera, fortemente influenzata dall’esperienza seriale, si individuano tuttavia elementi della tradizione nazionale. Tra gli altri compositori meritano una citazione M. Castillo (1930-2005) e J. Villa Rojo (n. 1940).