Persone appartenenti al popolo ebraico o comunque legate all’identità religiosa e storica israelitica.
Il nome Ebrei, di origine incerta, entrò nell’uso comune attraverso la letteratura dell’età ellenistica per designare quel gruppo di tribù del Vicino Oriente antico apparse nella seconda metà del 2° millennio a.C. in Palestina, costituitesi quindi in unità politica e religiosa. Il gruppo settentrionale chiamava sé stesso «figli d’Israele», da cui derivò il nome Israeliti; dopo la distruzione del regno del Nord nel 721, divenne usuale il nome Yĕhūdīm, Giudaiti (dal nome del superstite regno meridionale di Giuda), da cui deriva quello di Giudei.
La fase più antica della storia degli E. non dispone, come fonte, che del racconto biblico, per cui la critica non parla di fondamenti storici, ma di leggende e tradizioni popolari, discutendo la consistenza dei gruppi ebraici impegnati nelle varie vicende e il rapporto di queste con la tradizione letteraria che se ne fece riflesso attraverso i secoli.
Secondo la Bibbia, il patto fra Dio e Abramo è il fondamento della concezione storica d’Israele, dove il patriarca Abramo, movendo da Ur dei Caldei, si diresse perché quella era la terra promessagli dal suo Dio. Un discendente di Abramo, Giuseppe, si trasferì in Egitto, poi raggiunto dalla sua famiglia, e così ebbe inizio il soggiorno degli E. in terra straniera, che si concluse quando, oppressi dal faraone Ramesse II (circa 1279-1212 a. C.), essi furono liberati dal condottiero Mosè. Questi li condusse fuori dal paese, attraversò il Mar Rosso e presso il monte Sinai, dove ricevette la Legge di Dio, per poi giungere faticosamente in vista della Palestina, dove morì, lasciando il comando a Giosuè. La conquista della Palestina, in cui si ravvisano fasi diverse, si compì sul finire del 13° sec. a.C., salvo il permanere di città-stato cananee isolate e di una striscia costiera in mano ai Filistei. Sulla base dei reperti archeologici, si ritiene che i primi nuclei di insediamento ebraico si siano formati in Canaan, negli altipiani dei futuri regni di Giuda (al Sud) e di Israele (al Nord), attorno al 1200 a.C.
Gli E. erano organizzati in tribù, raggruppate intorno a un santuario centrale a Silo. Nei momenti di pericolo i capi locali, i Giudici, si levavano a guidare le tribù, ma – secondo una ricostruzione che gli storici considerano piuttosto dubbia – di fronte alla pressione dei vicini sarebbe sorta la monarchia. Il primo re fu Saul (circa 1020-1000 a.C.), che guidò le tribù alla vittoria sui Filistei. Gli succedette David (circa 1000-961 a.C.), che riorganizzò e potenziò il regno. La capitale fu portata a Gerusalemme e vi si trasferì il sacerdozio, riunendo così, sia pure per breve tempo, i contrastanti interessi del potere politico e di quello religioso. Il regno di David è l’apogeo del potere politico ebraico, che si estende alla Palestina e a parte della Siria. Il successore Salomone (960-922 a. C.) mantenne questo potere, ma la forte pressione fiscale, l’accentuarsi dell’assolutismo regio, la decadenza religiosa prepararono la crisi, che alla sua morte portò alla divisione del regno.
Il Regno di Israele, con capitale Samaria (dal 9° sec.), fu il primo ad assumere i contorni di uno Stato organizzato ed evoluto, come emerge anche da testimonianze esterne alla Bibbia. Il Regno di Giuda, con capitale Gerusalemme, più povero e meno popolato, nacque probabilmente come Stato vassallo di quello del Nord, e raggiunse il suo apogeo solo con la conquista del Regno di Israele da parte degli Assiri (722 a.C.). Nel 586 a.C. il re babilonese Nabucodonosor occupò e distrusse Gerusalemme, deportando la popolazione in Babilonia. Nell’esilio, la coesione degli E. non venne meno e quando (538 a.C.) Ciro conquistò la Babilonia, essi ottennero l’autorizzazione al ritorno. Dopo il dominio persiano, gli E. subirono la conquista di Alessandro Magno, il dominio dei regni ellenistici e infine quello romano. L’imperatore Tito nel 70 prese e bruciò Gerusalemme, che nel 135 fu definitivamente distrutta per ordine di Adriano, dopo la rivolta del 132 guidata da Bar Kōkĕbā, e sostituita con la romana Aelia Capitolina con il divieto agli E. di risiedervi.
La fine dell’entità politica ebraica in Palestina accentuò il fenomeno della diaspora, mentre la nascita del cristianesimo dette origine a un’ostilità di carattere religioso che si intensificò nei secoli successivi.
Nell’impero bizantino fino alla conquista di Costantinopoli (1453) gli E., soggetti fin dall’epoca giustinianea a persecuzioni e restrizioni, parteciparono ugualmente alla vita economica dello Stato. In Italia, dopo le deliberazioni del concilio Lateranense del 1215, fu soprattutto l’Inquisizione ad aggravare la situazione degli E., che nel 13° sec. erano presenti in quasi tutte le regioni; nel 1321 Giovanni XXII fece distruggere negli Stati della Chiesa le copie del Talmūd. Varie città italiane, tuttavia, chiamarono gli E. a esercitare il prestito a interesse: così Venezia (1366), Firenze (1437), Mantova (1454), Milano (1465). Invece la loro espulsione dai domini aragonesi determinò l’esodo forzato da Sicilia (1482) e Sardegna (1492); nel 1540 furono allontanati anche dal Regno di Napoli.
In Francia a periodi di tranquillità e benessere succedettero tempi di restrizioni e persecuzioni, specialmente sotto Luigi IX, che espulse gli E. dai suoi Stati (1254); riammessi ed espulsi a più riprese, nel 1394 furono scacciati definitivamente dal Regno.
In Germania la loro posizione rimase in complesso buona fino alle Crociate, quando incominciarono i massacri. Dai tempi del Barbarossa gli E. furono considerati servi della cancelleria imperiale e godettero di una certa protezione; Federico II li accolse alla corte di Palermo. In Austria fu concessa loro giurisdizione civile propria dal duca Federico II nel 1244. Con la Bolla d’oro di Carlo IV (1356) i principi elettori ottennero il privilegio di tenere E. e di tassarli; tuttavia continuarono le persecuzioni e massacri.
Nella penisola iberica l’invasione degli Arabi (711) portò agli E. libertà e prosperità per circa 3 secoli. Sotto i re cristiani godettero di relativa tranquillità, ma l’Inquisizione (1233) peggiorò poi la loro situazione: sotto Enrico III di Castiglia e León (1390-1406) cominciarono persecuzioni, uccisioni e conversioni forzate, e nel 1480 fu istituito a Siviglia uno speciale tribunale contro gli E. convertiti (➔ marrani). Le condizioni peggiorarono ancora con l’unificazione della Spagna: nel 1492 fu emanato il decreto di espulsione e nel 1496 essi furono banditi anche dal Portogallo.
In Inghilterra gli E. furono espulsi totalmente nel 1290. Fin dal 6° sec. d.C. si ebbero comunità ebraiche nella Russia meridionale, dove un principe dei Cazari si convertì nel 740 al giudaismo, e per 2 secoli circa ebbe vita un principato ebraico.
Durante le persecuzioni in Germania, al tempo delle Crociate, la Polonia fu per gli E. luogo di rifugio; le loro condizioni peggiorarono quando re Giovanni Alberto (1492-1501) li obbligò a rinchiudersi nei ghetti.
Nei paesi islamici la situazione fu in complesso buona, anche se gli E. furono assoggettati a una tassa speciale e a certe restrizioni. Il giudaismo d’Egitto prosperò segnatamente sotto i Fatimidi (969-1171).
La situazione degli E. peggiorò con la Controriforma: non solo nei paesi cattolici, ma in tutta Europa essi furono costretti ad abitare in un quartiere separato (➔ ghetto), furono esclusi dalle professioni, talvolta espulsi o fatti oggetto di feroci persecuzioni. In alcuni paesi, tuttavia, la condizione degli E. si mantenne tollerabile: così, dal territorio della Repubblica di Venezia essi non furono mai totalmente scacciati; in Toscana godettero di particolare protezione; le loro attività commerciali furono protette in funzione antispagnola e antiolandese nell’Inghilterra di O. Cromwell e in funzione antispagnola in Olanda durante la lotta per l’indipendenza.
Un movimento europeo tendente all’emancipazione iniziò soltanto nel 18° sec., soprattutto con il diffondersi dell’illuminismo. La dichiarazione d’indipendenza (1776) e la Costituzione americana (1789) riconobbero i diritti degli E.; nel 1782 l’imperatore Giuseppe II emanò l’ editto di tolleranza; la parità dei diritti degli E. fu riconosciuta nel 1791 in Francia e a Francoforte nel 1811; nel 1848 ottennero l’emancipazione nello Stato sardo e successivamente nelle altre regioni italiane.
Dopo il 1870 in tutti gli Stati dell’Europa occidentale e centrale (dove gli E. rappresentavano minoranze più o meno cospicue) iniziò, non senza gravi resistenze (➔ antisemitismo), il processo verso una parità effettiva dei diritti degli E. con quelli degli altri cittadini. Ben diversa rimase a lungo la situazione delle comunità ebraiche, di gran lunga più numerose, viventi nei paesi dell’Europa orientale (v. fig.): in Russia gli E. soffrirono ancora persecuzioni (sono del 1882 le cosiddette ‘leggi di maggio’, che contengono una dura normativa contro gli E.) e massacri (➔ pogrom) e solo nel 1917, con l’avvento del bolscevismo, ottennero completa libertà ed eguaglianza civile e politica; lo stesso avvenne in Polonia nel 1919.
L’avvento del nazismo in Germania produsse la più grave persecuzione antiebraica registrata nella storia; iniziata nel 1933 con la promulgazione delle prime leggi razziali antiebraiche (cui si conformò l’Italia fascista che emanò a sua volta, nel 1938, una legislazione razziale antiebraica), portò allo sterminio di massa perpetrato nel 1941-45 (➔ shoah).
La convinzione che solo la nascita di uno Stato ebraico indipendente avrebbe potuto risolvere il problema ebraico e proteggere gli E. dall’antisemitismo, fu alla base del movimento sionista (➔ sionismo) che, già a partire dalla fine del 19° sec., e soprattutto durante l’occupazione britannica (poi mandato) della Palestina (1917-48), e poi nell’immediato dopoguerra, promosse lo stanziamento di colonie ebraiche nel paese ponendo le premesse per la fondazione dello Stato di Israele (14 maggio 1948).
Il più antico patrimonio religioso ebraico, che trova espressione nei primi libri della Bibbia, fa capo alla credenza in un Dio nazionale, Yahweh. Questi, come è proprio al Dio di un popolo nomade, non ha sede fissa, ma si manifesta tra le nubi, nelle tempeste e nel fuoco; segue il popolo nelle sue migrazioni posandosi sull’‘arca santa’, una cassetta laminata d’oro e fiancheggiata da due cherubini. Yahweh ha stretto un patto speciale con gli E. fin dal tempo di Abramo: li assisterà e li favorirà, ma punirà implacabilmente le loro prevaricazioni. Al culto e al rito antico appartengono la Pasqua, il riposo del sabato, il digiuno espiatorio del kippūr, la circoncisione. Il sacerdozio è esercitato da una famiglia della tribù dei Leviti.
Con l’avvento della monarchia, l’arca santa viene trasportata a Gerusalemme, e lí viene eretto un grande tempio a Yahweh. Il sacerdozio si collega così alla corte, ma la spontanea religiosità popolare sbocca nel movimento autonomo del profetismo, che richiama alla purezza morale e religiosa contro le assimilazioni all’ambiente pagano. Nella sua espressione letteraria, si ritrovano i concetti fondamentali della predicazione: unità e universalità di Dio; sua giustizia, per cui Egli premia i meriti ma punisce le colpe del popolo peccatore; infine, al di là della punizione necessaria, risorgimento e salvazione del popolo attraverso il concetto del Messia. Grandi figure, come Isaia e Geremia, portano il profetismo alle più alte espressioni e lo inseriscono nel vivo corso della storia. Con l’esilio di Babilonia, si rinvigorisce la tendenza nazionale e formalistica della religione all’obiettivo della ricostruzione di una comunità distrutta.
Secondo numerosi critici il concetto di una fede originariamente pura sarebbe insostenibile sul piano scientifico. È verosimile che gli E. abbiano in origine condiviso gran parte della religione cananea. Il monoteismo sorse gradualmente, tra i gruppi che facevano capo ai profeti Elia, Amos, Osea e Isaia. Solo verso la fine dell’esilio, con la predicazione del Deuteroisaia e nel libro del Deuteronomio, il monoteismo diviene assoluto. Al ritorno in Palestina, si delineano in Israele varie tendenze o gruppi religiosi: da quelli cittadini (farisei, sadducei), a quelli ascetici (esseni). Mentre questi ultimi sono più prossimi agli sviluppi cristiani, i primi prevalgono a lungo andare nel restante giudaismo. Si pone in primo luogo l’osservanza della Tōrāh.
Non manca, tuttavia, una reazione: in opposizione al rabbinismo e per una religiosità fondata sullo spirito veterotestamentario, non sulla tradizione, sorge nell’8° sec. il caraismo, la cui diffusione è vastissima nelle comunità della diaspora. Nell’ambito dell’ebraismo tradizionale si diffondono movimenti di intensa spiritualità, come il hasidismo tedesco del 12° e 13° sec. che promuove la vita ascetica, i digiuni, le penitenze. Nel Medioevo, sotto l’influsso del pensiero greco e arabo, si sviluppa un’attività di ricerca e di sistemazione dottrinale, il cui massimo esponente è Maimonide (1135-1204), a cui si deve la formulazione di un canone in 13 articoli (l’esistenza di Dio; la sua unità; la sua spiritualità e incorporeità; la sua eternità; il dovere di adorare soltanto lui; la verità della profezia; la superiorità della profezia di Mosè; la divinità della Tōrāh; l’immutabilità della Tōrāh; l’onniscienza di Dio; l’esistenza di compenso e punizione per le azioni umane; la futura venuta del Messia; la risurrezione dei morti).
L’odierno culto giudaico della sinagoga consta di tre elementi: preghiere, letture bibliche, azioni simboliche, (cerimonie proprie del culto festivo). Fra i riti propri del culto domestico, fondamentali la benedizione e distribuzione del pane all’inizio del pasto a opera del capofamiglia e a chiusura di esso l’azione di grazie (birkat ha-māzōn); la cena del venerdì sera è preceduta dal qiddūsh, benedizione del vino intesa a consacrare la festa del sabato. (➔ anche ebraismo)
Gli E. attingono la norma giuridica direttamente dalla Tōrāh, e quindi la legislazione non conosce la distinzione fra diritto profano e religioso. Il diritto ebraico risale alla costituzione nazionale del popolo d’Israele, che ha inizio con l’esodo dall’Egitto e la rivelazione mosaica, passata nella Tōrāh, che spesso è sanzione di norme consuetudinarie e giuridiche anteriori, appartenenti alla fase tribale della vita ebraica. Esse riguardano quindi i rapporti produttivi (schiavitù, riposo settimanale o sabato) e patrimoniali (proprietà immobiliare), le affittanze urbane e rurali, la successione, la responsabilità civile, il diritto matrimoniale, oltre all’omicidio, al furto, alla lesione corporale. Mirano a difendere la piccola proprietà, contro la formazione del latifondo e la proletarizzazione della classe contadina (principi dell’emancipazione e del riscatto degli schiavi, anno sabbatico). Sovente le norme che tutelano il patrimonio si trasformano sotto l’impulso etico-religioso in imperativi della carità e della fratellanza umana, così anche lo schiavo è soggetto di diritto e basta la minima offesa inflitta dal padrone per fargli riacquistare la libertà.
Queste leggi erano ancora in vigore durante l’età monarchica. La cattività babilonese, i contatti con società diverse, le mutate condizioni di vita del popolo ebraico agirono fortemente sulla legislazione orale e trovarono infine espressione codificata nella compilazione della Mishnāh di Rabbī Yĕhūdāh ha-Nāśī (200 ca. d.C.). Successivamente (3°-6° sec. d.C.) si propose l’accordo tra la legge rivelata (Tōrāh) e la tradizione (Mishnāh), creando la Gĕmārāh, che con i libri della Mishnāh costituì nel 5°-6° sec. il Talmūd, corpo della legislazione ebraica. Il diritto ebraico continuò a svilupparsi durante i secoli della diaspora, a opera prima dei Gĕ’ōnīm, capi delle scuole giuridiche di Babilonia e di Persia (7°-11° sec.), poi dei tosafisti (Francia settentrionale e Renania) e quindi, con le codificazioni di Maimonide (12° sec.), di Ya‛ăqōb ben Āshēr (13°-14° sec.), di Yōsēf Caro (16° sec.), si ebbero sistematizzazioni e aggiornamenti importanti. Così pure con le ordinanze di Rabbī Gershōm (965-1018) sul diritto matrimoniale e con le decisioni adottate da numerosi sinodi locali.
L’ebraico appartiene al gruppo nord-occidentale delle lingue semitiche e presenta spiccata affinità col fenicio, col moabitico e, già nella seconda metà del 2° millennio a.C., con la lingua delle glosse di Tell al-‛Amārna; l’alfabeto usato è di tipo fenicio, mentre la scrittura cosiddetta ‘quadrata’ è molto più tarda. Il consonantismo ebraico appare evoluto rispetto a quello semitico primitivo e, secondo le notazioni dei dotti rabbini che eseguirono i lavori filologici sul testo ebraico dell’Antico Testamento (➔ Masorà), dobbiamo distinguere un’ampia gamma di timbri vocalici; l’accento esercita un forte influsso sulle vocali. Nella morfologia, notevoli la caduta delle desinenze dei casi, la perdita del modo congiuntivo e la riduzione delle forme verbali derivate. Nella sintassi, il fenomeno più tipico è il cosiddetto ‘w conversivo’ che, preposto al passato e al futuro, ne scambia i valori.
Nell’età post-biblica l’ebraico subisce un’evoluzione legata anche al fatto che rimane prevalentemente nell’uso liturgico, consolidandosi come lingua dotta. A partire dall’età moderna il suo uso si estende agli argomenti profani e fino alla sua ricostituzione come lingua parlata in Palestina e poi come lingua ufficiale dello Stato d’Israele: la fonologia, la morfologia e la sintassi restano simili a quelle antiche; il lessico subisce aggiornamenti e infiltrazioni seppure in misura contenuta.
La letteratura ebraica anteriore a Cristo è costituita in massima parte dagli scritti contenuti nell’Antico Testamento (➔ Bibbia). Fuori della Bibbia si sono conservate alcune decine di ostraka (del 9° sec. a.C.) rinvenuti negli scavi di Samaria, il calendario agricolo di Gezer, l’iscrizione di Silo del 8° sec. a.C., la petizione al governatore di Javne Jam, gli ostraka di Lakiš e di ‛Arad, e sigilli, ceramiche stampigliate e monete. Questo scarso materiale si è ampliato con i manoscritti risalenti all’epoca immediatamente prima di Cristo rinvenuti presso il Mar Morto a partire dal 1947.
L’Antico Testamento contiene parti in prosa e parti in versi. I versi si basano principalmente sul parallelismo, ossia l’accoppiamento e la corrispondenza dei concetti, delle parole e degli accenti nei due emistichi, senza però regole troppo rigide. Si avevano probabilmente anche strofe di struttura alquanto libera. I generi poetici sono costituiti dalla lirica (shir, canto), dalla gnomica (māshāl, proverbio), dall’epica, e forse anche dal dramma o dalla poesia dialogata. La prosa ebraica non è ritmata, si basa quasi esclusivamente sulla coordinazione delle proposizioni, ha movenze semplici, con un vocabolario poco ricco. La maggior parte dei testi ha contenuto religioso, che del resto si compenetra anche con il contenuto profano. Questa letteratura, pur svolgendosi nelle forme comuni alle letterature semitiche e non semitiche dell’Oriente antico e pur avendo risentito l’influsso delle letterature degli Accadi, dei Cananei e degli Egizi, ha, per i concetti stessi che la ispirano, una sua inconfondibile impronta originale.
Nel suo primo periodo (fino alla rivolta di Bar Kōkĕbā, 135 d. C.) non ci è pervenuta che in piccola parte nell’originale ebraico. I Salmi di Salomone, le molte apocalissi, come quelle di Enoc, di Baruc, di Abramo, l’Assumptio Mosis, il III e IV Esdra e i Testamenti dei XII Patriarchi sono di quest’epoca. Si sono conservate narrazioni leggendarie nel Libro dei Giubilei, nel Martirio d’Isaia e nei Paralipomeni di Geremia. Nel secondo periodo (dal 135 d. C. all’inizio del 7° sec.) la vasta materia della Hălākāh comincia a essere ordinata. Un ordinamento generale si ha nella Mishnāh di Rabbī Yĕhūdāh, la quale diviene il canone definitivo della Legge orale. Analoga è la Tōseftā in parte attribuibile a Rabbī Hiyyā. Furono composti pure vari midrāshīm, opere di esegesi biblica. Gli Amorei, i dottori palestinesi e babilonesi posteriori alla redazione della Mishnāh, si dedicarono all’esegesi critica di questa, che redatta successivamente nella forma di commento scritto diede origine al Talmūd. Una specie di appendice al Talmūd sono alcuni piccoli trattati extracanonici e diversi midrāshīm. Segue il periodo (7°-11° sec.) che prende nome dai Gĕ’ōnīm: in Babilonia essi interpretano e applicano il diritto talmudico, e i loro responsi giuridici vengono in seguito raccolti e pubblicati. Carattere affine hanno le esposizioni su argomenti giuridici, per es. le Shĕ’eltōt («Discussioni») di Aḥā. In Palestina furono redatte alcune composizioni haggadiche (esegesi dottrinale, prevalentemente teologica e morale della Bibbia) e nel campo della letteratura mistica il Sēfer yĕṣīrāh («Libro della creazione»); vi fiorì pure il piyyūṭ, la poesia. La scuola di Tiberiade si dedicò allo studio della Bibbia nell’intento di fissarne, con l’indicazione delle vocali e degli accenti, il testo: disciplina che prese il nome di māsōrāh (➔ masorà).
Con l’espansione dell’islam gli E. allargarono l’orizzonte della loro attività letteraria, subendo l’influsso degli Arabi. Lo scrittore più rinomato di quest’epoca è Sa῾adyāh ben Yōsēf, Gā’ōn di Sūrā (882-942), iniziatore della filosofia e della linguistica ebraiche; tradusse anche la Bibbia in arabo. Anche gli E. d’Egitto cominciarono a partecipare alla diffusione della civiltà ebraica e all’attività letteraria con opere di poesia, studi talmudici, trattati scientifici. Il movimento letterario si propagò in Spagna verso il 10° sec., nella penisola balcanica, e ancor prima nell’Italia meridionale e centrale, dove troviamo una schiera di poeti e di scuole talmudiche a Bari, Oria, Venosa, Roma e Lucca. Dall’Italia lo studio del Talmūd sembra essersi propagato nella Germania renana. Il predominio letterario passa agli E. spagnoli (10°-14° sec.), con una folta schiera di poeti (nell’11° sec. Shĕmū’ēl ha-Nāgīd e Shĕlōmōh b. Gĕbīrōl, insigne tanto nella poesia profana quanto in quella religiosa; nel 12° Mōsheh b. ῾Ezrā di Granata e Yĕhūdāh ha-Lēwī di Toledo, Yĕhūdāh al-Ḥărīzī), di scrittori di prosa ornata, maḥbārōt (arabo maqāmāt), di filologi creatori della scienza grammaticale e lessicale ebraica (Yĕhūdāh Ḥayyūg di Fez e Abū ’l-Walīd di Cordova ne furono, nell’11° sec., gli iniziatori), di esegeti della Bibbia, affiancati da quelli della Francia settentrionale, tra i quali Rāshī (1040-1105).
L’esegesi, subendo l’influsso dell’opera filosofico-religiosa di Maimonide, tende all’interpretazione della Bibbia nel senso filosofico, alla luce delle dottrine razionalistiche (Lēwī ben Gērshōn, 13°-14° sec.) o secondo le idee della mistica cabalistica (Mĕnaḥēm da Recanati, 14° sec.). La storiografia è poco rappresentata nella letteratura ebraica medievale: essa si limita alla storia della letteratura e delle persecuzioni. In Africa settentrionale fioriscono gli studi talmudici, il massimo rappresentante dei quali è, nell’11° sec. Hǎnan’ēl b. Hūshī’ēl, oriundo dell’Italia meridionale. Maimonide (➔), nella sua Mishnēh Tōrāh («Seconda Legge»), attua un ordinamento metodico del diritto talmudico, rimasto insuperato, e nella Guida dei perplessi si propone di risolvere il contrasto fra Aristotele e la Bibbia, cercando di coniugare filosofia e religione. La filosofia giudaica, in Spagna, segue dapprima la corrente neoplatonica (Ibn Gĕbīrōl: La fonte di vita); elementi aristotelici vi compaiono però ben presto, finché l’aristotelismo (principalmente con Abrāhām ben Dāwīd di Toledo, 12° sec.) acquista il predominio; la produzione letteraria successiva è a lungo intesa solo a volgarizzarne i temi speculativi fondamentali. Fiorisce inoltre la cabalistica, la letteratura morale ed educativa, polemica e scientifica.
Sorge in Europa nel 18° sec. e può considerarsi la conseguenza di una radicale trasformazione storica, la cosiddetta modernizzazione. La produzione in lingua ebraica non fu solo frutto di una esigenza estetica, bensì la ricerca di una nuova identità collettiva. Non a caso questa corrente culturale coincise con i prodromi dell’emancipazione e dell’acquisizione della parità dei diritti civili sanciti dalla rivoluzione francese. Alcuni studiosi identificano nel cabalista italiano M.H. Luzzatto e nei suoi drammi, influenzati dall’ambiente circostante, l’impronta innovativa. Altri riconoscono nell’Illuminismo ebraico, noto con il nome Haśkalah (➔), l’elemento riformatore, che secondo la maggioranza dei critici trovò nella secolarizzazione il suo dato più qualificante. Sorta nella seconda metà del 18° sec., la Haśkalah per influsso anche dell’Illuminismo europeo, tendeva ad adeguare i contenuti culturali del giudaismo al sapere occidentale. Il maskil (illuminista), convinto dell’importanza della divulgazione più ampia della cultura ebraica, si impegna a fornire una letteratura di tipo didattico.
L’ebraico viene utilizzato sia per la prosa sia per la poesia, mentre la lingua degli E. ashkenaziti dell’Europa centrale e orientale, lo yiddish (➔) viene messo al bando. In questo quadro innovativo viene fondata una rivista mensile, Ha-mĕ’assef («Il raccoglitore») per divulgare il nuovo credo.) M. Mendelssohn è il maggior esponente della sua epoca, il 18° sec., sebbene le sue pubblicazioni siano essenzialmente in tedesco. N.H. Wessely (18°-19° sec.) viene considerato il poeta per eccellenza di questa corrente e il suo poema Shīrė tif’eret («I canti dello splendore», composti 1789-1802), in cui descrive la vita di Mosè, ne esemplifica i moduli ricorrenti. Successivamente i filoni innovatori della Haśkalah, ripresi e arricchiti in Galizia, diedero un originale contributo nell’ambito degli studi storiografici e filosofici. N. Krochmal rielabora il pensiero giudaico alla luce della filosofia hegeliana nel Mōrēh nĕvūkē ha-zěman («La guida ai perplessi del tempo», 1851), testo fondamentale del movimento che va sotto il nome di Wissenschaft des Judentums. Mentre Y. Perl e J. Erter sviluppano la satira, nella quale si ironizza l’attitudine popolare verso la fede. L’ultima fase della Haśkalah si concretizza in Russia, in due aree distinte. In Volinia questa corrente assume una connotazione didattica, mentre a Vilna (od. Vilnius) in Lituania fiorisce la poesia e soprattutto la prosa. Personalità di spicco sono J.L. Gordon e A. Mapu, che introduce un nuovo genere letterario, il romanzo, con Ahavat Ṣiyyon («L’amore per Sion», 1853), ambientato all’epoca del profeta Isaia. La mancata acquisizione dei diritti civili in Russia e le crescenti persecuzioni risvegliano il nazionalismo ebraico. Una figura emblematica di questo periodo, è Achad Haam il cui stile costituisce la base per la moderna saggistica. La lingua ebraica si evolve e perviene a una purezza di espressione con la lirica di C.N. Bialik, di S. Černichovskij e di Z. Shneur. Tra i prosatori è opportuno menzionare M.M. Seforim, D. Frischmann, M.Y. Berdyczewski e I.L. Peretz; influenzati dai moduli artistici occidentali raggiungono notevoli livelli sul piano formale e contenutistico.
L’emigrazione ebraica in Palestina durante il mandato britannico (1920-47) e la rinascita dell’ebraico, quale lingua parlata, a opera di E. Ben-Yehuda si riflettono sulla vita letteraria; Bialik fonda la casa editrice Dvīr e sorgono riviste, cui fanno riferimento gli intellettuali del paese. Tra i narratori Y.H. Brenner apporta innovazioni rilevanti sul piano tematico: nelle sue novelle si delinea un personaggio solitario, l’anti-eroe per eccellenza. Nella lirica spiccano i nomi di A. Shlonski, alla cui scuola si formano N. Alterman e L. Goldberg, Y. Lamdan e U.S. Greenberg. Questo periodo è particolarmente fecondo e l’opera di S.Y. Agnon, premio Nobel per la letteratura nel 1966, conferisce prestigio a questa emergente espressione artistica. La nascita dello Stato d’Israele (1948) e l’annientamento dei grandi centri culturali dell’Europa orientale hanno determinato una profonda trasformazione nella letteratura in lingua ebraica, la cui connotazione è divenuta prettamente israeliana (➔ Israele).
I dati delle fonti bibliche relativamente alle prime espressioni artistiche degli E. in Palestina s’integrano efficacemente con i risultati delle intense ricerche archeologiche, che soprattutto nel Novecento si sono svolte con ritmo notevole sul territorio palestinese. Gli insediamenti israelitici si differenziano sul terreno dai coevi centri della Palestina rimasti sotto il controllo delle genti cananee per l’assenza di santuari e di arredi cultuali e, in linea generale, per la provvisorietà e povertà della tecnica edilizia.
L’avvento dell’organizzazione statale della monarchia davidica mutò in parte la cultura edilizia e materiale degli insediamenti israelitici, come provano le strutture fortificate di Tell el-Ful, l’antica Gibea, di Tell Beit Mirsim e Betsame. Durante il regno di Salomone l’edilizia pubblica in Israele conobbe ampio sviluppo per l’apporto degli architetti fenici e per i sistemi accentratori e autoritari adottati dalla casa reale nel reperimento della mano d’opera. In questa attività rientra l’edificazione del famoso tempio di Gerusalemme e gli edifici pubblici documentati dall’archeologia a Hazor, Megiddo, Lakish, Betsame, Tell Beit Mirsim, Tell el-Kheleife. Con il periodo della monarchia separata le tecniche architettoniche si svilupparono e si perfezionarono, come è possibile constatare nelle più antiche fasi di Samaria, Tell en-Nasbe, la biblica Mizpa, Megidclo e Beisan. Tali innovazioni, tra cui emerge l’impiego del bugnato e del capitello protoeolico, sono generalmente ritenute di derivazione fenicia.
Le proibizioni religiose di raffigurare esseri animati e più specificamente di plasmare e scoprire idoli, alle quali si riconnette la mancanza di una documentazione consistente per l’arte monumentale nella Palestina israelitica, furono relativamente tarde, come è provato dal ritrovamento di una cospicua quantità di statuine in argilla di divinità femminili dall’epoca dei Giudici fino a tutto il 7° sec. a.C. per centri di sicura cultura israelitica, da mettere in relazione con ambienti popolari e con la religiosità a essi propria. Prescindendo dalla coroplastica, le uniche produzioni significative delle arti minori nella Palestina israelitica sono comunque quelle del rilievo in avorio e dei sigilli, il cui esame rivela che la cultura artistica in età preromana non vi si affermò con caratteri autonomi e distintivi, ma piuttosto riecheggiò tendenze egittizzanti largamente diffuse in Fenicia e alcuni temi della grande arte dei centri neohittiti e aramaici. La caduta di Samaria nel 721 a.C. e l’instaurazione di un governo provinciale assiro nell’antico regno d’Israele resero più diretta, seppur limitata, l’influenza artistica assira in Palestina.
Per quanto riguarda il regno di Giuda, una serie di distruzioni conferma sul piano archeologico i dati delle fonti bibliche sul crollo del regno nel 587 a.C., che segnò la dispersione delle poche tracce di una autonomia culturale figurativa israelitica, su cui l’arte ellenistica non tardò a esercitare la propria influenza.
Il conciso repertorio ebraico ricorrente nella monetazione ebbe grande influenza sull’arte giudaica medievale e sulla stessa arte cristiana delle catacombe. Le monete (2° sec. a.C. - 2° sec. d.C.) presentano emblemi neutri, cioè tali da non offendere sentimenti religiosi ortodossi: cornucopie, fiori ecc. La mĕnōrāh (candelabro a sette bracci) appare sulle monete di Antigono Mattatia (40-37 a.C.); le monete della prima guerra giudaica (66-70 d.C.) hanno le rappresentazioni dell’etrōg (cedro) e del lūlāb (palma). Al repertorio ebraico si riconduce anche una moneta di Apamea con la rappresentazione dell’uscita di Noè e dei suoi dall’arca.
I medesimi temi ricorrono nelle catacombe israelitiche di Roma e di Palestina, sia in dipinti, sia in sculture (sarcofagi). Mentre era valido il divieto di illustrare i libri liturgici, non era proibito decorare i libri di destinazione privata. Tale uso dovette estendersi notevolmente durante la diaspora, nel progressivo ellenizzarsi delle comunità ebraiche. In rapporto con l’illustrazione biblica sono gli affreschi della sinagoga di Dura Europos. Nel 5°-6° sec. in Palestina fu elaborato un complesso sistema decorativo delle sinagoghe, con inclusioni di temi astrologici oltre che biblici (pavimento di Bēt-Alpha, 6° sec.); tali schemi precedono sotto certi aspetti quelli accolti nelle chiese cristiane.
Grande prestigio godette la scrittura. Le fonti letterarie accennano con frequenza a libri scritti in caratteri d’oro (chrysographia). Sono state formulate molte ipotesi per rintracciare fonti illustrative ebraiche in alcuni cicli di illustrazioni dell’Antico Testamento. Il più antico testo biblico ebraico illustrato è il Pentateuco della Biblioteca di San Pietroburgo: datato 929-30, forse scritto in Egitto, contiene soltanto rappresentazioni degli oggetti rituali ed è di chiara influenza bizantina. Nel Medioevo e nel Rinascimento codici ebraici furono illustrati sia in Occidente sia in Oriente. Tra le opere profane è notevole la traduzione di Avicenna (Bologna, Biblioteca Universitaria) illustrata da un seguace di Leonardo da Besozzo. Interessante per la rappresentazione dei costumi ebraici è il codice ferrarese del 15° sec., Hanhagōt mi-kōl ha-shānāh (Princeton, University Library). La British Library conserva diversi codici ebraici scritti in Oriente, nei quali è sensibile l’influenza islamica; i codici occidentali hanno maggiore ricchezza di figurazioni. Si distinse soprattutto la Spagna, seguita dall’Italia e dalla Germania. Particolare favore ebbe l’Haggādāh. Notevoli le Haggādōth di Saraievo (di miniatore catalano del 14° sec.); della British Library (Add. Ms. 27210, francese del 13° sec., con scene bibliche); le Haggādōth tedesche si distinguono per gustose scene di genere, come l’esemplare di Darmstadt (testo del 14° sec., illustrazioni del 15°). Tra le Bibbie è famoso il codice Kennicott 1 (Oxford, Bodleian Library; prodotto a La Coruña nel 1476), splendido per la calligrafia e per gli ornamenti, nei quali si nota una certa riluttanza a introdurre la figura umana. Ma illustrazioni di soggetto biblico sono profuse nel bel codice miscellaneo Add. Ms. 11639 della British Library, scritto e miniato nella Francia settentrionale nel 13° secolo.
Sono questi un’altra interessante testimonianza dell’arte ebraica, specialmente il drappo posto davanti all’arca della Tōrāh (preziosi esempi, ornati di ricami, provengono dalle sinagoghe polacche), i candelabri e le tavole della legge d’argento ecc. Notevolissimo l’arredo di alcune sinagoghe, specialmente italiane (come di quella di Sermide, ora trasportato a Gerusalemme, con molti altri cimeli dell’arte ebraica europea).
Tra le sinagoghe antiche, dopo quelle palestinesi di Cafarnao, Chorazin, Bēt Alpha ecc., è da ricordare quella di Ostia. Nel Medioevo, famose sono le sinagoghe di Worms (13° sec., grande sala gotica) e di Praga. Nel Rinascimento sono notevoli quelle di Venezia. L’Ottocento cercò di elaborare il tema della sinagoga in modo che si distinguesse per quanto possibile e dalla chiesa e dalla moschea, spesso con espliciti richiami all’arte assiro-babilonese (sinagoghe di Berlino Oranienburgerstrasse, di Essen, di Roma, di Firenze).
Dopo la furia nazista e le gravi distruzioni della Seconda guerra mondiale, in Europa sono state realizzate sinagoghe dal forte impatto emotivo attraverso l’uso di materiali tradizionali o innovativi. Vi si sono cimentati maestri dell’architettura moderna quali E. Mendelsohn, W. Gropius, F.L. Wright, L.I. Kahn. Fra le più recenti sono da ricordare le sinagoghe di Dresda, 2001, e di Monaco, 2006, realizzate da Wandel, Hoefer, Lorch + Hirsch.
Nell’antica civiltà ebraica la musica era tenuta in grande onore, soprattutto nei riti religiosi. Secondo il racconto biblico, il re David, musicista egli stesso, istituì per il Tempio un coro di 4000 cantori (tra i quali 288 maestri), coro poi ampliato da Salomone, che inoltre fece organizzare corpi strumentali. Vi sono attestazioni anche di canti guerrieri e civili. Il canto sacro ebraico presenta molte analogie con stilemi cristiani, per es. la salmodia. Notazioni ecfonetiche furono introdotte fra il 5° sec. e il 7° d.C. allo scopo di conservare le cantilene usate per la lettura dei libri sacri; la loro interpretazione è però varia e incerta.
Dalla dispersione delle genti d’Israele si sono sviluppate tradizioni diverse a seconda degli ambienti storici, fra le quali emergono quelle degli E. sefarditi (fiorite soprattutto in Spagna), quelle degli ashkenaziti e, per la loro forse maggiore purezza, quelle degli yemeniti. Molti dei canti che oggi si eseguono durante le sacre funzioni provengono parte dal tesoro medievale di queste tradizioni, parte dall’opera di compositori israeliti moderni (J. Meyerbeer, J.-F.- É. Halévy, Bolaffio, Garzia).