EBREI
. Quel gruppo di tribù appartenente alla grande famiglia etnica semitica che nell'ultimo quarto del secondo millennio a. C. occupò la Palestina e si costituì in unità nazionale si diede dapprima il nome di "figli d'Israele"; dalla tribù di Giuda, che fu il nucleo principale del regno sopravvissuto alla catastrofe del 722 a. C., si formò l'etnico "Giudei", il quale, in seguito alla distruzione del superstite regno di Giuda nel 586 a. C., rimase a designare così il popolo come la comunità religiosa con la quale questo s'identificò. e questa denominazione è stata ed è la più comune, sia nel seno stesso di quella comunità e nella sua lingua nazionale (Y hūd īm), sia nel mondo greco-romano ('Ιουδαῖοι, Iudaei), sia nell'età moderna (fr. Jitifs, ted. Juden; sp. Judíos, ingl. Jews; russo Židý, Judéi). Il termine "Ebrei" (sull'origine del quale v. più oltre: Storia) è altrettanto antico dei due precedenti, ma fu assai meno usato e deve la sua fortuna all'uso che ne fecero gli scrittori dell'età ellenistica, e piuttosto in forma di aggettivo riferito di preferenza alla lingua, ai costumi, alla religione dei Giudei; uso che passò agli scrittori ecclesiastici greci e latini. Tanto il sostantivo quanto l'aggettivo ("ebraico") sono passati naturalmente in tutte le lingue europee moderne, ma in esse il primo non ha prevalso sui derivati di Iudaei e il secondo ha in genere l'applicazione limitata che si riscontra negli scrittori classici e cristiani antichi (anche nell'ebraico moderno si usa per lo più il solo aggettivo); soltanto in italiano il sostantivo "Ebrei" è stato ed è in vigore come sinonimo di "Israeliti" e di "Giudei", ed è usato nella voce presente come più generico e più comprensivo. A stretto rigore, occorrerebbe usare "Israeliti" per il periodo più antico, "Israeliti" e rispettivamente "Giudei" in senso specificamente limitato per il periodo di separazione dei regni d'Israele e di Giuda (v. più oltre: Storia), "Giudei" per il periodo dalla caduta del regno d'Israele (722 a. C.) fino ai nostri giorni. Il vocabolo "Israeliti" è oggi frequentemente usato da cristiani in confronto di ebrei con una nota di benevolenza, in contrasto con la nota di disprezzo che hodio e le persecuzioni secolari hanno finito con l'attribuire ai vocaboli "Ebrei" "Giudei".
Gli Ebrei, nello svolgimento più che trimillenario della loro vita associata, costituiscono per più di un aspetto un fenomeno unico e paradossale nella storia: soli fra i popoli cosiddetti mediterranei essi hanno superato il dissolvimento della civiltà antica conservando, benché dispersi e privi di unità territoriale, una propria nazionalità e un proprio patrimonio culturale-religioso che rimangono quasi l'avanzo fossile di un'età remota; primi, o tra i primi, a creare il concetto sconosciuto al mondo antico d'una religione universalistica, hanno viceversa mantenuto la coscienza - peraltro solo in parte rispondente a realtà - di una stretta interdipendenza della compagine nazionale e della confessione religiosa; promotori delle due religioni monoteistiche sotto la cui insegna si sono formate le due massime civiltà del mondo medievale e moderno, la cristiana e l'islamica, essi sono vissuti e continuano a vivere in mezzo a esse fatti segno, specialmente in passato, alla più profonda venerazione in quanto precursori e insieme al più completo disprezzo e alla più recisa ostilità in quanto negatori pervicaci e irriducibili di quelle civiltà stesse, delle quali peraltro hanno subito e subiscono l'influenza, pur continuando a isolarsene. Sicché il carattere nazionale degli Ebrei ha questo di singolare, di non coincidere cioè, da quasi due millennî, con un'unità territoriale, politica e linguistica e di avere anzi perduto queste tre caratteristiche del concetto di nazione (solo cercando faticosamente di riacquistarle in tempi recentissimi attraverso il movimento sionistico), eppure di avere non solo mantenuto le proprie tradizioni avite, ma anche sviluppato nel Medioevo e nell'età moderna, una "civiltà ebraica" ben di stinta così da quella antica come dalle civiltà cristiana e islamica svoltesi accanto e parallelamente ad essa.
Ma la civiltà ebraica, soprattutto nella sua fase antica, non offre soltanto un interesse di curiosità estrinseca, sia pure vivissimo a cagione delle sue singolari vicende e delle sue caratteristiche manifestazioni: in quanto, sotto l'aspetto religioso e morale, è, attraverso il cristianesimo, uno dei fattori principali della civiltà mondiale, essa è intimamente connaturata alla vita di questa e le è perennemente attuale, in modo da non poter essere sentita da alcuno come estranea al proprio mondo intellettuale e sentimentale; come la civiltà classica, essa ha cessato di essere patrimonio esclusivo di coloro che la crearono per assumere significato e funzione universali.
Distribuzione degli ebrei nel mondo (p. 328). - Antropologia (p. 329). - Storia e Religione: Fino al ritorno dall'esilio babilonese (p. 331); Dal ritorno dall'esilio alla distruzione del secondo tempio (p. 344); Dalla distruzione del secondo tempio all'inizio del Medioevo (p. 346); Il Medioevo (p. 346); L'età moderna fino alla guerra mondiale (p. 349); Durante e dopo la guerra mondiale (p. 353); La religione ebraica postbiblica (p. 353). - Lingua: Epoca biblica (p. 356); Epoca postbiblica (p. 357). - Letteratura biblica (p. 358). - Letteratura postbiblica: Età ellenistica e romana fino alla rivolta di Bar Kōkĕbā (p. 359); Dalla caduta di Bar Kōkĕbā fino all'espansione araba (p. 360); La letteratura ebraica in Oriente nel periodo dei Gě'ōnīm; i suoi inizî in Occidente (p. 361); Il predominio letterario degli Ebrei Spagnoli (p. 363); Il predominio letterario degli Ebrei italiani (p. 368), La letteratura ebraica moderna (p. 370); Letterature giudaiche in lingua di versa dall'ebraica (p. 371). - Musica (p. 373). - Numismatica (p. 374). - Diritto: Diritto ebraico (p. 375); Condizione giuridica degli Ebrei (p. 379).
Distribuzione degli Ebrei nel mondo.
Solo per alcuni paesi si hanno dati ufficiali sul numero degli Ebrei, che talvolta poi sono da accogliersi con riserva, perché tendenziosamente inferiori alla realtà. Molti dati derivano da calcoli privati, compiuti per lo più dalle comunità israelitiche, e quindi debbono essere considerati soltanto come largamente approssimativi. Si può calcolare che attualmente il numero totale degli Ebrei nel mondo sia di oltre 17 milioni, dei quali circa 11 milioni in Europa, 4,5 milioni in America, 800 mila in Asia, 500 mila in Africa e 25 mila in Oceania. Verso la metà del sec. XVIII il numero totale non superava probabilmente i 3 milioni, saliti a circa 12 nel 1910.
Sino alla fine del secolo passato, i maggiori nuclei di Ebrei si trovavano nella Russia sud-occidentale e in Polonia, nell'Impero austro-ungarico e in Germania. Negli ultimi anni del sec. XIX, però, si ebbe l'inizio di una fortissima corrente migratoria ebraica verso gli Stati Uniti, che già nel 1910 contavano 1.750.000 Ebrei saliti ora a oltre 4 milioni. Per numero assoluto, dopo gli Stati Uniti, che sono al primo posto, vengono la Polonia (3,5 milioni), la Russia (3,2 milioni) e la Romania (835 mila). Relativamente alla popolazione complessiva dei varî paesi, si ha l'ordine seguente: Palestina (16,5%), Polonia (12%), Lituania (7,6%), Romania (5,6%), Lettonia (5%). Importantissimi sono alcuni nuclei ebraici cittadini: si calcola che 13 città abbiano più di 100.000 Ebrei (New York, più di 1 milione e mezzo; Varsavia, 350.000; Chicago, 225.000: Budapest, 217.000; Vienna, 200.000; Mosca, forse 200.000; Filadelfia, 200.000; Odessa, 180.000; Londra, 175.000; Łódź, 150.000; Kiev, 140.000; Berlino, 115.000; Cleveland, 100.000), e una trentina più di 50.000. In Italia i nuclei urbani maggiori sono a Roma (12.500), Milano (7500), Trieste (5700), Torino (5200), Firenze (3300), Fiume (2600), Genova (2500) e Livorno (1800).
Nella tabella a p. 328 sono riuniti i dati riguardanti il numero degli Ebrei nei varî paesi.
Bibl.: J. Kreppel, Juden und Judentum von heute, Zurigo-Vienna-Lipsia, 1925; The American Jewish Yearbook per l'anno 5686 (1925-26), Filadelfia 1925; R. Almagià, Notizie sul numero degli Ebrei nel mondo, in Rivista Geografica Italiana, 1927, pp. 81-86; R. Bachi, La demografia degli Ebrei italiani negli ultimi cento anni, in Atti del Congresso intern. per gli studî sulla popolazione, 1931.
Antropologia.
Occorre anzitutto affermare l'inesistenza di una pretesa razza o tipo ebraico, cioè l'inesistenza di un insieme di caratteri corporei limitati al popolo ebraico. Questo è costituito, in tutti i suoi diversi aggruppamenti, da mescolanze di razze o elementi diversi fra loro, ma che sono gli stessi elementi che contribuiscono alla formazione di altri gruppi etnici, sia europei, sia extra-europei. Gli Ebrei né costituiscono una razza, né hanno caratteristiche proprie.
Si posseggono dati ormai numerosi sulla statura per molti gruppi ebraici. Una raccolta di tali dati, fino al 1918, fornì L. Livi. Questo autore però giustamente osserva che "buona parte di queste rilevazioni non sono state fedeli rappresentatrici delle condizioni dei gruppi considerati". Egli indica ad es. come le rilevazioni fatte da privati siano state compiute solo su individui delle più basse classi sociali. Ma anche alcune rilevazioni militari, eseguite in Russia e Polonia, non sono confrontabili, perché compiute sopra individui immaturi. Altri dati sono ormai troppo vecchi, risalgono cioè ad anni assai vicini al tempo in cui le condizioni giuridiche degli Ebrei furono equiparate a quelle dei cristiani (che si aggira sulla metà del secolo scorso, per i diversi paesi europei), e perciò non si era fatta sentire ancora quell'influenza benefica sull'accrescimento della statura, che proviene dalle buone condizioni sociali e che il Livi ha potuto documentare sugli Ebrei italiani e di altre regioni. È noto infatti che la statura è, fra i caratteri antropologici, uno di quelli che più risentono le influenze peristatiche (ambientali), e appunto per questo il suo valore razziale non è grande.
Riferiamo i dati meno esposti a critica: per l'Italia, 2665 Ebrei, misurati nelle operazioni di leva, appartenenti a tutte le classi sociali, diedero al Livi una media di m. 1,652. Questa cifra corrisponde alla media generale che gli antropologi attribuiscono all'umanità. Anche le medie del Fishberg di Ebrei emigrati negli Stati Uniti e provenienti dal gruppo orientale (Ashkenazim) in gran parte sono intorno a m. 1,65, fatta eccezione degli Ebrei di Galizia, che sono più bassi. Questi dati ci inducono a pensare che l'asserzione di alcuni autori, che le medie dei gruppi ebraici si aggirino fra m. 1,61 e 1,63, non corrisponda ormai più al vero, almeno per molti gruppi, dato il tono di esistenza migliorato in quasi tutti i gruppi ebraici. Ad ogni modo si può dire con sicurezza che gli Ebrei in complesso hanno stature piuttosto basse, ma non fra le più basse. I più piccoli sembrano essere gli Ebrei dello Yemen (1,59 maschi; 1,47 femmine). Lo sviluppo fisico degli Ebrei è molto più precoce, almeno in relazione a quello dei popoli del Nord europeo. Il Theilhaber constatò un presentarsi più precoce della mestruazione (rispetto alle popolazioni nordiche). Riguardo alle proporzioni somatiche, da molti è stato affermato che gli Ebrei hanno tronco lungo e gambe corte. Sennonché i dati metrici esatti non permettono finora di affermare l'esistenza di una vera brachischelia. Dalle serie pubblicate dal Giuffrida-Ruggeri si desume che 100 Ebrei di Riga, (dati del Blechmann) avrebbero un indice schelico di 51,6; 100 Ebrei della Russia meridionale (dati del Weissenberg) avrebbero un indice di 52; 16 Ebrei dello Yemen (dati dello stesso autore) avrebbero un indice di 52,2; 72 Ebrei di Galizia, Ungheria, Moldavia (del Weisbach) un indice di 52,7. Questi dati precisi farebbero cadere i gruppi relativi nella categoria della mesatischelia. Il Deniker parla d'una frequente scarsezza del perimetro toracico, il che, unito a braccia corte, ridurrebbe la grande apertura delle braccia, ma occorre ricordare che altri autori hanno attribuito agli Ebrei braccia lunghe. Può darsi che simili differenze, dove veramente esistano, siano da attribuirsi alle differenti proporzioni in cui entrano i componenti antropologici principali del miscuglio etnico. Le spalle ricurve, attribuite da molti agli Ebrei, sono forse un atteggiamento nel cui determinismo entrano in gran parte disposizioni psichiche. Vengono attribuiti agli Ebrei mani e piedi stretti e lunghi e sembra frequente la disposizione al piede piatto. È certa la frequenza della pinguedìne, in parte attribuibile al benessere economico di molti Ebrei, ma che probabilmente è una risultante di disposizioni ereditarie.
La forma della testa sul piano orizzontale, quale è data dall'indice cefalico, è assai variabile nelle medie dei diversi gruppi geografici. Alcuni gruppi di Ebrei della Turchia hanno l'indice più basso (76), mentre alcuni gruppi del Caucaso presentano l'indice più grande (87). Gli Ebrei della Russia sono brachicefali (82,5); gli Spagnoli del sud-est europeo hanno un indice medio di 78; gli Ebrei della Mesopotamia uno di 78; gli Ebrei dell'Africa settentrionale presentano il 25% di teste al disotto di 74, il 65% di mesocefali e il 10% circa di brachicefali. La variazione di questo carattere, essendo parallela a quella delle popolazioni tra cui vivono i gruppi relativi, ben difficilmente permette di escludere l'influenza di mescolanze, come pure ritiene di poter fare il Livi, in seguito all'esame della variabilità di alcune serie. Egli infatti trova che la variabilità degli Ebrei è più piccola di quella delle popolazioni cristiane circostanti. Ma le serie su cui tale constatazione è fatta sono appena due. Noi crediamo che la distanza intercedente fra gli estremi constatati, di 76 e 87, è troppo grande per ritenere che si tratti sempre dell'oscillazione di una stessa forma o costellazione di forme proprie ai gruppi ebraici fin dal tempo della loro dispersione dalla Palestina, come ritiene il Livi. La differenza di 11 unità nelle medie indica troppo forti spostamenti delle forme. Questi spostamenti sono forse da interpretare nel senso che gli Ebrei del Caucaso sono fortemente inquinati del tipo locale, a intensissima brachicefalia. La pelosità corporea è forte. Spesso sulla faccia la barba rasata è così densa da produrre un colorito nero-bluastro. La barba è ricciuta. Le sopracciglia fortemente pronunciate in genere e riunite sulla radice nasale. Le ciglia sono piuttosto lunghe. Il capello è sovente ricciuto, persino negli Ebrei rossi e biondi. Il colore della pelle è abitualmente più scuro di quello delle popolazioni circostanti, laddove non siano presenti incroci con tipi chiari. Un colorito assai scuro è accertabile spesso persino negli Ebrei italiani. Per il colore dei capelli, il Livi raccolse in una tabella tutti i dati fino allora disponibili. Disgraziatamente, come egli stesso osservò, i dati non sono strettamente comparabili per più motivi (incertezza della tecnica colorimetrica, differenze di procedimento fra gli autori). Ad ogni modo senza dubbio risulta che i Sefardim presentano percentuali più piccole di capelli biondi e rossi in confronto degli Ashkenazim. Il rutilismo pare essere particolarmente frequente fra gli Ebrei. Anche per il colore degli occhi gli Ashkenazim presentano percentuali più forti di colorito azzurro e grigio in confronto dei Sefardim.
I tratti del cosiddetto naso ebraico sono quelli stessi che si riscontrano nel tipo armenoide, e cioè un naso ben pronunciato, rivolto verso il basso con la punta e a dorso convesso. Il cosiddetto naso ebraico è in realtà fra gli Ebrei assai meno frequente di quello che si potrebbe pensare. Le statistiche per questo carattere nei diversi gruppi ebraici hanno dato solo una minoranza d'individui che presentano detto naso, minoranza che assai spesso rimane sotto il 10%. A causa poi delle diversità dell'apprezzamento del carattere, poco valore si può dare alle statistiche di esso. Presso certi gruppi ebraici della Russia e della Galizia sembra essere quasi assente. Il naso cosiddetto ebraico è raro negli Ebrei dello Yemen e dell'Africa settentrionale, che hanno conservato di più il tipo semitico (v. oltre), così per quelli della Persia del sud. Detto tipo di naso non è specifico degli Ebrei, ma si trova in tutte le popolazioni in cui vi è un certo predominio del cosiddetto tipo armenoide. Lo Jacobs affermò che la caratteristica del naso ebraico è una punta rivolta in basso con pinne al contrario sollevate. In profilo ne risulterebbe la figura di un 6. Non sarebbe tanto la forma convessa del dorso, quanto la posizione e la pieghevolezza delle pinne nasali ciò che caratterizzerebbe di più tale forma di naso, il quale potrebbe avere anche il dorso diritto o persino concavo. Certamente, allargando così il concetto del naso ebraico, la sua frequenza diverrebbe assai più forte, ma in tal caso esso sarebbe anche frequente presso popolazioni del Sud europeo. Il cosiddetto naso ebraico è come molle e carnoso in corrispondenza delle pinne nasali, ma anche questo carattere è frequente nelle regioni meridionali di Europa. Le parti molli della faccia presentano frequentemente note assai interessanti. La pelle del viso è spesso come turgida, ma talvolta, anche nei giovani, quasi floscia e cascante. Questo aspetto generale è rinforzato dallo spessore e pesantezza delle palpebre, specie della superiore, che spesso scende più in basso di ciò che avvenga negli Europei. Questi caratteri dànno talvolta alla faccia ebraica un non so che di torpido, di "addormentato". È frequente una maggiore superficialità del globo oculare, onde esso appare grosso e prominente. L'occhio è spesso cerchiato e contornato di borse. Le labbra sono sovente spesse e carnose, il labbro inferiore talvolta più sporgente del superiore. Le orecchie grandi e carnose.
Una questione assai dibattuta e non ancora risolta definitivamente è quella del significato e dell'origine dell'elemento chiaro nel popolo ebraico. Secondo alcuni, detto elemento sarebbe d'introduzione relativamente recente, medievale, ad ogni modo dopo la dispersione degli Ebrei dalla Palestina, e avvenuto per incroci con le popolazioni in mezzo alle quali i gruppi etnici vivevano. All'estremo opposto è l'opinione di quelli che ritengono l'elemento chiaro assai antico, cioè dovuto a una contaminazione con un tipo biondo (chiamato nordico in genere o ariano, a seconda delle vedute e della nomenclatura dei diversi autori), avvenuta nella Palestina stessa o in territorî prossimi prima della dispersione o ad essa contemporanea. È, fra gli altri, l'opinione di L. Livi, il quale non solo ritiene questa immissione di sangue chiaro antica, ma ritiene che il popolo ebraico abbia mantenuto la sua composizione etnica press'a poco immutata, conservando una relativa purezza, attraverso i secoli. A spiegare poi l'innegabile maggiore proporzione del tipo chiaro negli Ebrei orientali, egli ammette una via orientale d'immigrazione per un ramo ebraico, che attraverso i contatti con gli Hittiti avrebbe acquistato una maggior somma di elementi chiari. Questa immigrazione orientale fu ammessa per la prima volta dall'Ilkof, e mentre dapprima le si dava un'importanza secondaria in confronto della corrente occidentale, ora le si dà un'importanza presso a poco uguale, se non maggiore. La corrente orientale si sarebbe ricongiunta con l'altra, occidentale, che dalla Palestina per l'Africa settentrionale, la Spagna, il Rodano, la Germania arrivò in Russia. Ma il Livi è costretto ad ammettere che i caratteri più singolari degli Ebrei orientali chiari, e cioè statura bassa, brachicefalia e capelli ricci frequenti, siano stati dati dagli Hittiti, il che veramente è finora una pura ipotesi. In realtà invece nell'Europa orientale esiste un tipo umano assai diffuso e caratterizzato appunto da queste note (a eccezione dei capelli ricci) che costituisce quella che il Deniker chiamò "razza orientale" e che i moderni antropologi tedeschi chiamano "razza baltico-orientale", corrispondente presso a poco alla "sub-nordica" del Czekanowski. È logico pensare che gli Ebrei orientali debbano i loro caratteri singolari a miscele avvenute con questa razza. E ciò appunto sostengono i fautori di una terza opinione, i quali ammettono una contaminazione originaria, ma spiegano i caratteri degli Ashkenazim con miscele con una razza "baltico-orientale". La presenza di capelli biondi e ricci negli Ebrei orientali, a differenza dei baltico-orientali, potrebbe essere dovuta a un comportamento specifico del capello riccio nell'incrocio mendeliano. Secondo questa terza opinione, gli Ebrei meridionali avrebbero conservato solo quella quantità di elementi chiari che immisero prima della dispersione. Il Günther arriva a stabilire la percentuale di questi elementi nel 10-15% della totale massa ereditaria. Gli Ebrei orientali a questa quantità originaria avrebbero aggiunto quella immessa per i contatti coi baltico-orientali.
La composizione degli Ebrei orientali e meridionali è alquanto diversa. Negli Ebrei orientali il Günther ammette una prevalenza dell'elemento armenoide del Luschan, che egli, dietro il Pöch, chiama asiatico-anteriore, ma tale prevalenza sembra dubbia. La brachicefalia e la bassa statura sono anche caratteristiche della razza orientale del Deniker (baltico-orientale degli autori moderni) ed è importante anche il fatto che gli Ebrei orientali presentino raramente il cosiddetto naso ebraico, che appunto è una caratteristica dell'elemento armenoide. Un'indagine di G. Lempertowna sopra 75 studenti ebrei di Leopoli, eseguita con la metodica di Czekanowski, ha condotto a stabilire che oltre il 70% sarebbe costituito da elementi europei, diversi cioè dall'elemento semitico e dall'elemento armenoide. Noi riteniamo che gli Ebrei orientali siano fortemente impregnati dei tipi che abitano l'Europa centrale, cioè la cosiddetta razza alpina o lapponoide degli autori diversi e la razza baltico-orientale (v. europa). Gli Ebrei meridionali dovrebbero essere caratterizzati, secondo il più degli autori, da una prevalenza dell'elemento cosiddetto semitico, lo stesso elemento cioè che caratterizza gli Arabi beduini e simili e che gli autori, fra cui il Günther, seguendo il Fischer, ingenerando confusione, chiamano razza o elemento "orientale" (v. asia; africa); ma moltissimi dei caratteri osservati negli Ebrei, come statura piuttosto bassa, tronco piuttosto lungo, cranio mesocefalico in genere e soprattutto i caratteri delle parti molli della faccia, così singolari, non collimano con questa opinione. Sembra che negli Ebrei meridionali sia frequente, e talvolta predominante sull'elemento semitico sempre presente, un elemento camitico, cioè affine a quello che in Africa determina il tipo etiopico. Diremmo quasi che questo elemento abbia negli Ebrei una facies più settentrionale, con un colorito più chiaro della pelle, capello meno arricciato, ma che conservi soprattutto nella fisionomia facciale i suoi tratti più salienti.
Bibl.: Uno degli autori più benemeriti per l'antropometria di numerosi gruppi ebraici d'Europa e d'Asia è S. Weissenberg. Si troverà un elenco dei suoi lavori in Günther, qui sotto citato. Vedi inoltre: Jacobs, On the racial Characteristics of modern Jews, in Journ. of the Anthrop. Institute, XV (1886); M. Fishberg, The Jews: a study of Race and Environments, New Jork 1911; L. Livi, Gli Ebrei alla luce della statistica, Firenze 1918; A. Wagenseil, Beiträge z. physischen Anthropologie der Juden u. z. jüdischer Rassenfrage, in Zeitschrift f. Morphologie u. Anthrop., XXIII (1922); H. F. K. Günther, Rassenkunde d. jüdischen Volks, Monaco 1930.
Storia e religione.
Fino al ritorno dall'esilio babilonese. - Carattere e metodo della storiografia ebraica. - Le vicende politiche degli Ebrei nell'antichità portarono questo popolo, che non ebbe mai né grande espansione territoriale né parte notevole nella storia dell'Oriente antico, alla perdita dell'indipendenza e all'assorbimento nel territorio dei grandi imperi assiro, babilonese, persiano (e più tardi macedonico e romano); ma, al contrario di quanto avvenne ad altri popoli vicini coi quali gli Ebrei ebbero in gran parte comunanza di sorte politica, essi conservarono, e anzi esaltarono, la loro individualità religiosa, Sicché nei secoli successivi al VI a. C. la coscienza nazionale ebraica sopravvisse soltanto in quanto si affermò come coscienza religiosa, centro della quale, e inesauribile fonte di vitalità perenne, fu la "Legge" data da Dio alla nazione ebraica. Ne derivò negli Ebrei stessi la convinzione che le memorie del loro passato avessero valore e significato solo in quanto rievocassero la missione religiosa del popolo ebraico e l'impulso e la norma datigli da Dio per l'adempimento di tale missione: in altri termini, che la loro storia fosse essenzialmente "storia sacra". Questa concezione - che costituisce una vera e propria filosofia della storia, anche se non fu mai formulata in termini filosofici - passò tal quale nel cristianesimo, anzi vi si intensificò in quanto esso ravvisò nella storia ebraica il carattere di preparazione e di prefigurazione della venuta di Cristo e della fondazione della Chiesa. Conseguenza di tale atteggiamento fu, da un lato, che la raccolta e l'elaborazione dei documenti della storia ebraica furono condizionate dal contenuto religioso di questi, andando perduti e trasformati quelli che tale contenuto non avevano; dall'altro lato, che la storiografia si avvezzò, per secoli, a considerare la storia degli Ebrei come una storia sui generis, diversa così nel carattere essenziale come nelle manifestazioni fenomeniche dalla storia di tutti gli altri popoli. Il carattere eccezionale della storia ebraica, in cui l'intervento diretto o indiretto della divinità si fa sentire in maniera permanente e miracolosa, fu soltanto di rado contestato; e, anche in tal caso, non già in nome di un criterio storiografico indipendente dalla confessione religiosa, bensì per scopi di polemica antisemitica o per riflesso di quella anticristiana. Soltanto il sorgere della storiografia critica del sec. XIX e lo svolgersi parallelo dell'atteggiamento agnostico nei riguardi delle religioni rivelate indusse a considerare la storia ebraica più antica indipendentemente dallo svolgimento esclusivamente religioso dell'età più recente, e a tentare di ricostruire, attraverso la lacunosità e la trasformazione dei dati biblici, una storia delle origini e della vita politica e sociale degli Ebrei che li collocasse sullo stesso piano degli altri popoli dell'antichità. Peraltro (né poteva essere diversamente, dati il punto di partenza e l'estrema delicatezza dell'argomento) siffatto atteggiamento metodico non si manifestò che gradatamente, rimanendo per molto tempo impigliato in posizioni teologiche (e ciò altrettanto nei difensori della tradizione quanto nei suoi avversarî più radicali) e limitandosi spesso, invece di tentare la ricreazione integrale della storia, a compiere, in maniera diversa a seconda delle varie tendenze, l'esegesi delle fonti e a edificare su di esse questa o quella costruzione della storia religiosa ebraica. A ricollocare la storia degli Ebrei nella sua realtà effettiva contribuì grandemente la scoperta e la decifrazione degli avanzi delle civiltà dell'Asia anteriore, che schiusero orizzonti insospettati alla comparazione delle fonti bibliche con documenti anteriori o contemporanei e consentirono di studiare la storia ebraica non più come entità isolata, bensì in rapporto col vastissimo ambiente entro il quale essa si svolse.
Tuttavia un duplice ostacolo si oppone tuttora, e certamente si opporrà ancora per lungo tempo, a una conoscenza sicura e a un giudizio concorde: da una parte la scarsità e ancora più le condizioni di alterazione delle fonti, sia nella loro composizione intima, sia nella tradizione testuale (v. bibbia), per modo che ogni ricostruzione storica si basa necessariamente su una catena di ipotesi la cui fondatezza non è quasi mai accertabile con un grado di sufficiente verosimiglianza; dall'altra parte (ed è questo l'ostacolo più arduo) le profonde ripercussioni che il diverso modo di considerare la storia ebraica ha sulle coscienze religiose, poiché tanto la confessione ebraica quanto quella cristiana, sia cattolica sia protestante, trovano il fondamento e la giustificazione delle loro credenze religiose nella storia ebraica, che rimane per esse "storia sacra"; e per quanto ai nostri giorni studiosi confessionali e aconfessionali abbiano un vasto terreno d'intesa comune e procedano d'accordo e con identico metodo in numerose questioni, tuttavia la diversità delle posizioni preliminari è così essenziale alle conclusioni cui essi giungono, da far cadere nel falso ogni tentativo armonistico il quale si sforzasse di conciliare tendenze irriducibilmente opposte. La trattazione che segue cerca di esporre obiettivamente i principali punti di divergenza.
Fonti. - La fonte principale, anzi quasi unica della storia ebraica è la Bibbia (v.). Sennonché essa è tale da non poter essere usata per lo scopo della costruzione storica senza una preliminare elaborazione critica. Comunque si pensi intorno all'origine e all'antichità dei cinque libri mosaici (il Pentateuco [v.] o Tōrāh), è certo che essi, insieme con gli altri libri storici dell'Antico Testamento relativi all'età preesilica (Giosuè, Giudici, I-II Re Samuele], III-IV [I-II] Re), sono stati riuniti in un'opera continuativa da un redattore ispirato da quella concezione religiosa della storia ebraica che costituisce appunto lo schema della "storia sacra". Sui limiti dell'attività di costui (sia egli un semplice individuo o sia il rappresentante, o piuttosto i rappresentanti, di una tendenza o scuola), se cioè egli abbia semplicemente giustapposto i documenti da lui conosciuti e usati, o li abbia abilmente tagliati e ricuciti, o abbia fatto addirittura opera di artista con libera elaborazione letteraria delle proprie fonti, sono discordi i pareri; ma non vi è dubbio, poiché ciò affermato in parecchi punti (per es. Giosuè, X, 13; II Re [Samuele], I, 10, a propostio del "Libro del ben diretto" III [I] Re, VIII, 13 [nella versione dei LXX] a proposito del "Libro dei canti" e spessissimo in III-IV [I-II] Re), che egli ha trascelto e abbreviato fonti più ampie, e in particolare per quanto riguarda l'età della monarchia si è limitato per lo più a pochi dati cronologici, diffondendosi soltanto su alcuni avvenimenti che erano in rapporto col suo ideale religioso e rimandando per il resto al "Libro delle cronache dei re d'Israele" o a quelle "dei re di Giuda", libri oggi perduti.
Questo complesso storico risulta tuttavia di elementi molto svariati e diversi per età e per indole. Del Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) la tradizione ebraica e cristiana ritiene autore Mosè; la critica aconfessionale vi ravvisa una tarda compilazione di spirito severamente legalistico ed esclusivistico; ma, a ogni modo, è riconosciuto da tutti che in esso sono contenuti materiali storici di provenienza diversa, raccolti intorno al centro costituito dalla Legge. Sia che questi materiali abbiano costituito un tempo vere e proprie opere letterarie (quattro, o cinque, secondo recenti teorie: iahveista - da scindersi secondo alcuni in due elementi distinti -, elohista, deuteronomista, sacerdotale), sia che la loro diversità sia soltanto l'indizio di derivazioni e di tendenze differenti, il giudizio complessivo intorno alla molteplicità degli elementi costituenti la documentazione più antica della storia degli Ebrei risulta concorde, restando soltanto da discutersi se quei documenti siano da accettare come fonti diverse sì, ma tutte uniformemente autentiche e veritiere, e siano quindi da combinarsi armonisticamente (è la tesi confessionale ebraica, cattolica, protestante), oppure se esse - come si constata a ogni passo nella storiografia greca o romana - abbiano un valore relativo, di diverso grado per alcune rispetto ad altre, soggetto a cauzione o anche, in ipotesi, annullabile dall'indagine critica. A ogni modo è essenziale all'uso critico delle fonti contenute nel Pentateuco il riconoscimento del fatto che esse, benché inserite dal redattore entro uno schema storico, solo in piccola parte narrano di proposito la storia, ma più spesso offrono soltanto la materia di essa sotto forma di documenti legislativi, liturgici, poetici, novellistici. Lo stesso può dirsi dei libri di Giosuè e dei Giudici (nel primo anzi si suole riconoscere la medesima combinazione di quattro o cinque elementi che esisterebbe nel Pentateuco), nei quali si continua la narrazione della storia ebraica dalla morte di Mosè fino alla vigilia dell'istituzione della monarchia: anche in essi documenti disparati sono stati raggruppati ed elaborati secondo un piano pragmatistico, il quale può essere diversamente valutato, ma certamente non coincide col criterio storico moderno. Quanto a I-II Re [Samuele], in cui sono narrate l'istituzione e le vicende della monarchia fino agli ultimi anni del regno di David, essi costituiscono una raccolta di fonti di primo ordine, in cui, accanto a elementi non propriamente storiografici, è contenuta una cronaea del regno di David quasi contemporanea agli avvenimenti e composta con tale precisione e vivacità di esposizione e con tale pacata obiettività di giudizio, da reggere degnamente al paragone, che è stato istituito, della storia di Erodoto. Minor pregio artistico e minore unità hanno III-IV [I-II] Re, nei quali i primi undici capitoli, in cui la successione di David e il regno di Salomone sono narrati in gran parte sulla base di cronache e documenti contemporanei, hanno per lo più carattere di fonte primaria, mentre nel resto dell'opera (che giunge fino alla distruzione del regno di Giuda) a magri estratti di due opere maggiori, le quali dovevano in gran parte fondarsi su documenti degli archivî reali, si accompagnano squarci di uno scritto di carattere popolare relativo alle gesta dei profeti. Discusso è il valore storico dei due libri delle Cronache o Paralipomeni, tarda compilazione del sec. IV a. C., redatta in gran parte sui testi biblici a noi noti e impregnata di spirito sacerdotale, la quale tuttavia contiene dati attinti a fonti perdute che meritano di essere tenuti in considerazione.
Di tutta la produzione storiografica ebraica soltanto una parte attinge a fonti documentarie e un'altra parte dipende da ricordi vicini agli avvenimenti; una parte anche maggiore riflette la tradizione popolare e la visione che ebbero della storia nazionale gli ambienti profetici o sacerdotali, porgendone pertanto una rappresentazione in cui il pragmatismo religioso domina e investe l'intero svolgersi degli avvenimenti, tacendo o relegando in un piano inferiore i fatti e le cause di ordine politico, sociale ed economico. Se l'intuizione storica su cui si fonda questo tipo di storiografia è sostanzialmente giusto, poiché proprio nell'attuarsi dell'ideale religioso consistono il valore supremo e il significato profondo della storia ebraica, l'indagine moderna amerebbe di essere messa in grado di poter esprimere essa stessa il proprio giudizio attraverso la conoscenza diretta di questa storia in tutte le sue manifestazioni, anziché trovarsene dinnanzi già formulata la conclusione pragmatistica: essa è dunque costretta a integrare i dati della tradizione attraverso un'analisi e un'elaborazione delle fonti sempre faticose e spesso ipotetiche e malcerte. In quest'opera essa si giova, naturalmente, anche del materiale biblico non precisamente storiografico, in quanto esso valga a fornire dati di fatto o a gettar luce sulle condizioni ambientali, e in questo senso più ampio l'intero contenuto della Bibbia è fonte di conoscenza storica: la legislazione, gli scritti profetici, i libri e i brani lirici e gnomici. Anche qui i problemi introduttivi di autenticità e di composizione costituiscono la pregiudiziale necessaria dell'uso di tali fonti: di contro al radicalismo di alcuni decennî addietro, che tendeva ad abbassare le date di composizione di quasi tutti i libri biblici, prevale oggi, anche nella critica aconfessionale, un riconoscimento più equo del valore della tradizione, che tuttavia non esclude attribuzioni pseudepigrafiche, interpolazioni e rimaneggiamenti.
Le fonti extrabibliche della storia ebraica sono quanto mai scarse: il materiale epigrafico è limitato alle due piccole iscrizioni di Gezer e di Siloa, agli ostraca di Samaria, ad alcuni sigilli iscritti: tutti testi che solo indirettamente contribuiscono alla conoscenza storica. Più abbondante è il materiale archeologico, il quale, specialmente a partire dal corrente secolo, è enormemente aumentato grazie agli scavi che si compiono metodicamente in Palestina (v.). Ma i risultati di questi, importantissimi per la conoscenza della civiltà di questa regione nell'età antichissima, sono singolarmente poveri per l'età propriamente ebraica (sola eccezione importante gli scavi dei palazzi reali di Samaria), cosicché il contributo che l'epigrafia e l'archeologia dànno alla storia ehraica non è da paragonarsi a quelli che esse dànno alla storia greca e romana.
Molto più importanti sono le fonti esterne: se quelle tramandate dalla storia letteraria sono presso che nulle, poiché il mondo greco e romano cominciò a interessarsi della storia ebraica soltanto in età tarda, relativamente abbondanti e di capitale importanza sono quelle offerte dai monumenti egiziani e mesopotamici, soprattutto le cronache dei re assiri Salmanassar III, Tiglatpileser III (IV), Sargon, Sennacheribbo, che narrano di spedizioni militari contro i re d'Israele e di tributi offerti da alcuni di essi. Ma anche colà dove non è menzione diretta degli Ebrei, la conoscenza ottenuta per mezzo dei documenti geroglifici e cuneiformi della geografia, dell'etnografia, della storia, del diritto, della religione delle due grandi civiltà che influirono sulla storia ebraica durante tutto il suo corso è di un valore inestimabile per una retta comprensione dei dati biblici. Delle civiltà minori con le quali gli Ebrei furono in relazione ben poco ci è finora noto per via archeologica: tra quel poco, spicca splendidamente l'iscrizione del re moabita Mesa (v.), che integra in maniera sorprendente i dati di un racconto biblico; molto più di quanto oggi si conosce è lecito aspettarsi dall'esplorazione sistematica, appena agl'inizî, del sottosuolo della Siria e della Transgiordania.
Benché non possano considerarsi quali fonti storiche in senso stretto, tuttavia hanno grande interesse, per le analogie che vi si riscontrano con la vita sociale e religiosa degli antichi Ebrei, i costumi di altri popoli semitici, specialmente degli Aramei e degli Arabi, i quali ultimi in varie fasi della loro storia presentano strette affinità di condizioni ambientali e di sviluppo sociale e politico con gli Ebrei. Anche il folklore dell'odierna Palestina può, cautamente adoperato, contribuire all'intendimento generico della storia ebraica e alla soluzione di singoli problemi.
La storia antichissima. - Il Pentateuco, così come oggi ci appare nella sua redazione definitiva, ha per centro la legislazione mosaica, alla quale la storia precedente, contemporanea e posteriore serve soltanto d'introduzione, di cornice e di conclusione. Questa storia, nel libro della Genesi, si rifà addirittura alle origini del mondo e dell'umanità, seguendone poi le vicende, dopo aver narrato della cacciata della prima coppia umana dal paradiso terrestre, in una serie di racconti che vogliono dar ragione, con ingenua ricerca della causalità, delle condizioni attuali della vita sociale, delle particolarità etniche delle varie stirpi: la fondazione delle città, l'invenzione degli strumenti di lavoro, delle arti e dei mestieri, la differenza dei linguaggi umani, la vendetta, il culto della divinità, ecc. Il racconto del diluvio e della divisione delle razze umane prelude a una limitazione del racconto della storia universale, che si raccoglie ora intorno alle vicende di uno solo dei gruppi discesi dalla nuova umanità postdiluviale: la famiglia di Abramo. Questi, figlio di Tare (Terah), discendente di ottava generazione di Sem, emigra col padre e col nipote Lot da Ur nella bassa Babilonide, risalendo l'Eufrate fino alla città di Ḥarān; di là, mortogli il padre, discende in Siria e, proseguendo verso mezzogiorno, entra in Palestina, fermandosi nella parte meridionale di essa; va in Egitto, poi ritorna a stabilirsi in Palestina. La sua vita errante è quella del pastore nomade, che si sposta coi suoi armenti e con la sua famiglia in cerca di nuovi pascoli: soltanto in un singolare episodio (Gen., XIV) egli appare in figura di guerriero in lotta coi più potenti monarchi dell'Asia anteriore, i re di Babilonia, di Larsa (?), di Elam, degli Hittiti (?). I suoi mutamenti di sede non sono tuttavia arbitrarî: egli segue il comando di Dio (Elohim, Iahvè), il quale gli appare in visioni e in sogni e gl'impone di stabilirsi nella terra che apparterrà in seguito ai suoi discendenti, il quale stringe un patto perpetuo con lui e con la progenie che in maniera inaspettata gli viene suscitata dal grembo di Sara, la moglie sterile e già vecchia. Abramo è il primo cui è attribuito l'etnico di "Ebreo" ‛Ibhrī), che gli vien sempre dato dagli stranieri con cui viene a contatto e che viene spiegato col nome di un suo remoto antenato, ‛Ĕbhĕr. Del figlio ed erede legittimo di Abramo, Isacco (l'altro, Ismaele, avuto dalla schiava Agar, è cacciato dalla gelosia di Sara nel deserto dove diverrà progenitore di stirpi nomadi, al pari dei figli dell'altra concubina, Cetura), il racconto biblico non riferisce vicende notevoli: anch'egli soggiorna in Egitto, ma la sua vita si svolge in genere nelle sedi palestinesi prescelte da suo padre e che il patto rinnovato con Dio gli garantisce. Molto più complessa e avventurosa è la vita del figlio di Isacco, Giacobbe: egli, il secondogenito, toglie con astuzia al fratello Esaù il diritto di primogenitura e la benedizione paterna; risale verso nord la Palestina e vive a lungo presso Labano, un collaterale degli Abramidi e progenitore (secondo una delle versioni) degli Aramei (v.), del quale sposa le due figlie Lia e Rachele; si divide poi dal suocero, non senza un principio d'inimicizia, ma si riconcilia più tardi con lui e spartisce il proprio territorio dal suo; tornato verso sud, viene a conflitto col fratello, ma si riconcilia con lui e lo induce a stabilirsi nella regione stepposa a sud del Mar Rosso: dovunque e sempre assistito da Dio, che fin dall'inizio dei suoi viaggi avventurosi gli si è rivelato a Bethel, nell'altipiano centrale della Palestina, dove Giacobbe gli eleva un santuario. Questo favore divino si manifesta, una volta, in circostanze singolari: egli sostiene una lotta notturna con un personaggio misterioso, che infine gli si svela come un messaggero celeste e gli muta il nome in quello di Israele. Dalle due mogli e da due concubine ha dodici figli: Giuseppe, il prediletto (insieme con Beniamino è il solo figlio di Rachele, la moglie preferita), è tradito dai fratelli e finisce alla corte del faraone d'Egitto, dove sale in grande potenza e chiama a sé il padre e i fratelli riconciliati. Così la discendenza legittimamente primogenita di Abramo, cui d'ora innanzi compete il nome di "figli d'Israele", si stabilisce in Egitto.
Come deve essere giudicata, dal punto di vista della storia, la tradizione conservata nella Genesi? Trascurando l'interpretazione mitologica (oggi universalmente abbandonata), rimane da decidere se nei racconti relativi alle origini degli Ebrei debba ravvisarsi il ricordo fedele di fatti realmente avvenuti o soltanto un complesso di saghe, delle quali occorrerebbe indagare, per ciascuna, l'origine, il carattere e il significato specifici. La scuola conservatrice (v. per ultimo P. Dhorme, Abraham dans le cadre de l'histoire, in Revue Biblique, 1928, 1931) ha osservato, non senza un fondamento di ragione, che la conoscenza delle condizioni storiche dell'Asia anteriore nel 2° millennio a. C. (completamente ignote fino a quando le scoperte dei documenti egiziani e babilonesi non vennero a illuminarle) mostra la possibilità che avvenimenti del genere di quelli narrati dalla Genesi abbiano avuto luogo: ai margini del grande deserto siro-arabico, lungo i confini della Babilonide e dell'impero hittita a sud del Tauro, movimenti migratorî di beduini semitici si compivano normalmente (come del resto per secoli e millenni più tardi e fino ai nostri giorni), sicché nulla vieterebbe di supporre che un gruppo famigliare costituente una piccola tribù abbia preso dalla bassa Babilonide la via della Siria contornando il deserto e sia poi penetrato in Palestina. La cronologia fondata sui dati biblici colloca Abramo circa il 2000 a. C.: intorno a questa epoca è da porsi il regno di Hammurabi in Babilonia, e questi sarebbe da identificarsi col re Amrafel (ma il conguagliamento fonetico che si credette trovare tra i due nomi offre difficoltà) di cui parla il cap. XIV della Genesi come del capo della lega di re contro cui combatté Abramo nei dintorni del Mar Morto (naturalmente nel racconto dovrebbe vedersi la traduzione ingenua di un episodio di guerriglia, in cui non avrebbero partecipato di persona i potenti monarchi, ma soltanto reparti di loro truppe delegati alla polizia dei confini). La Palestina era in quel tempo sottratta all'egemonia egiziana che vi si era esercitata fino allora; l'Egitto stesso, non molto dopo, doveva venir invaso dagli Hyksos (sembra che questo popolo, intorno al quale si sa tuttora poco di sicuro, fosse costituito da una coalizione di stirpi semitiche di Siria sotto la guida di capi di razza aria). Le condizioni di anarchia in cui si trovava la Palestina erano tali da favorire la penetrazione dell'elemento nomade, e lo stesso passaggio in Egitto dei figli di Giacobbe non sarebbe se non un episodio dell'invasione degli Hyksos, nel sec. XIX a. C.
Contro questa interpretazione si osserva dalla critica indipendente che, mentre essa non dà ragione di tutte le particolarità della narrazione biblica (tra l'altro i sincronismi non sono perfetti), questa stessa, sottoposta all'analisi, risulta composita. Comunque si giudichi della partizione in fonti (ogni costruzione schematica porta in sé stessa la propria condanna), è difficile negare sia le divergenze che si riscontrano nei singoli racconti sia (che conta anche più) la diversità di stile e d'intonazione tra le varie parti, alcune delle quali denotano una religiosità sviluppata, mentre altre recano traccia di un'ingenua amoralità nella concezione della divinità e nella valutazione delle azioni umane (il contrasto appare particolarmente notevole tra le storie di Abramo e quelle di Giacobbe); inoltre la duplicità dei nomi (Giacobbe-Israele, parallela a quella Esaù-Edom e di cui quella Abraham-Abram non sarebbe che un riflesso) fa sospettare che le stesse personalità di alcuni patriarchi siano il risultato della contaminazione di tradizioni di origine diversa, le une proprie della popolazione cananea residente in Palestina fin dal 3° millennio a. C., le altre recate con sé dagl'Israeliti che invasero quella regione provenendo dal deserto meridionale (in particolare Israele sarebbe l'eroe eponimo del popolo ebreo, Giacobbe invece un eroe cananeo). Inoltre lo spazio compreso tra la presunta età di Abramo e la conquista ebraica della Palestina (intorno al 1200) è troppo lungo per essere riempito da sole sette generazioni, quante ne contano le liste genealogiche conservate in tempi storici. Appunto in base a quest'ultima considerazione si è tentato recentemente (v. F.M. Th. Böhl, Das Zeitalter Abrahams, in Der Alte Orient, XXIX,1, Lipsia 1930) di dare un saldo fondamento cronologico alla tradizione biblica intorno ad Abramo identificando il "Tid‛al re dei popoli" di Gen., XIV col fondatore del secondo impero hittita, Tudkhaliya III, vissuto intorno al 1500 a. C. Ma quand'anche ciò fosse, ne risulterebbe soltanto che in uno dei racconti su Abramo si è conservata la memoria esatta di un re storico, non già la storicità del racconto stesso, e tanto meno quella dell'insieme della tradizione.
La critica radicale vede nei racconti della Genesi o un insieme di motivi novellistici che soltanto in età molto posteriore alla conquista ebraica della Palestina sarebbero stati elaborati in un sistema coerente, oppure il ricordo, leggendario ma non del tutto privo di fondamento storico, delle relazioni che corsero tra i varî popoli di stirpe originariamente comune che occuparono la Siria, la Palestina e la Transgiordania intorno al sec. XIII a. C. Così il matrimonio di Giacobbe con le figlie di Labano e la successiva spartizione di territorio tra suocero e genero ricorderebbe un periodo di alleanze e di lotte fra Ebrei e Aramei (soltanto il teatro geografico sarebbe spostato dal deserto siro-arabico al confine tra Siria e Palestina); le lotte fraterne tra Giacobbe ed Esaù si riferirebbero alla secolare rivalità tra Ebrei delle tribù meridionali ed Edomiti; la storia di Lot (il padre di Moab e Ammon) rifletterebbe la stretta parentela etnica dei Moabiti e degli Ammoniti con gli Ebrei, ecc. Non vi è dubbio che in molti dei racconti intorno agli Abramidi i singoli personaggi impersonano i popoli che in tempi storici ne portano il nome (con procedimento analogo a quello che fa, per es., di Doro il progenitore dei Dori e di Latino il progenitore dei Latini); ma, anzitutto, ciò è vero solo per una parte di essi (non vi è traccia di etnici formati da Abramo, Isacco, Lot, Labano, Giuseppe), e d'altra parte l'esempio delle tribù arabe odierne mostra che aggregati etnici anche numerosi possono portare il nome di antenati realmente vissuti.
Ben poco di sicuro, in conclusione, può desumersi dalle tradizioni della Genesi per una ricostruzione non arbitraria della storia ebraica anteriore all'uscita dall'Egitto, con la quale (o meglio con la conquista della Palestina che le tenne dietro) comincia l'età storica degli Ebrei. Che prima di essa alcune tribù semitiche entrate più tardi sotto la denominazione di "figli d'Israele" abbiano abitato temporaneamente o stabilmente la Palestina, dove sarebbero penetrate seguendo l'itinerario che la tradizione attribuisce ad Abramo, è possibile, ma non sicuro; e ad ogni modo non è consentito, nello stato delle nostre conoscenze attuali, affermare, in base a criterî unicamente storici, se qualche cosa di autentico, e in quale misura, la tradizione abbia serbato intorno a quei remoti avvenimenti.
L'uscita dall'Egitto e la conquista della Palestina. - La XIX dinastia egiziana, specialmente il regno di Ramessêse II (1298-1232, secondo la cronologia più accettata), segna un periodo di riscossa politica e militare dell'Egitto, dopo che la decadenza della XVIII dinastia e l'espansione del regno hittita gli avevano fatto perdere il predominio sulla Siria. Ma, nonostante le vittorie di Ramesse II contro gli Hittiti e la spedizione di suo figlio Merneptaḥ in Palestina, questa regione non ricadde più, come in passato, sotto il controllo assoluto dell'Egitto, benché esso ne riacquistasse nominalmente il possesso e ne occupasse effettivamente alcune città; poco più tardi, sotto la XX dinastia, le lotte intestine e l'invasione libica tolsero ai faraoni ogni possibilità di un intervento efficace in Asia. D'altra parte né la Babilonia, sotto il dominio straniero dei Cassiti, né l'Assiria, ancora occupata ad assicurarsi i proprî confini orientali e settentrionali, si trovavano in condizione di espandere il loro dominio verso occidente. Questa età, in cui nessuno dei grandi stati contemporanei era in grado di far sentire la propria potenza sulle coste orientali del Mediterraneo e sul loro retroterra, come vide l'affermarsi degli stati degli Aramei (v.) e il rafforzarsi delle città dei Fenici (v.) e dei Filistei (v.), così permise che in Palestma si stabilisse e si sviluppasse a modo di stato nazionale una nuova popolazione, gli Ebrei.
La più augusta e gloriosa tradizione nazionale degli Ebrei, il più saldo vincolo di riconoscenza e di fedeltà che li legava al loro dio era il ricordo della liberazione dalla schiavitù di Egitto, compiutasi sotto la guida del grande condottiero e legislatore, Mosè. Il successore del faraone che aveva accolto Giacobbe e i suoi figli (così narra il libro dell'Esodo), non ricordando più le benemerenze di Giuseppe, prese a perseguitare gli Ebrei, straordinariamente accresciutisi nel tempo di poche generazioni, persecuzione che culminò con l'ordine dell'uccisione dei loro neonati maschi. Il figlio d'una donna ebrea, salvato in maniera avventurosa dalla figlia del faraone (che alcuni vogliono identificare con Ramesse II) e allevato a corte col nome di Mosè, fuggito poi dall'Egitto nella terra di Midian sulla costa occidentale di Arabia per aver vendicato l'ingiuria fatta a un suo connazionale, ha colà nel roveto ardente la rivelazione di Iahvè "dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", che gli assegna la missione di liberare gli Ebrei oppressi. Presentatosi al faraone insieme col fratello Aronne, intimiditolo con operazioni miracolose e poi con lugubri prodigi che affliggono i suoi sudditi (le "piaghe d'Egitto"), strappa il permesso della partenza e guida il popolo verso l'estremità settentrionale del golfo di ‛Aqabah, nel Mar Rosso; il faraone, pentitosi della concessione fatta, lo insegue, ma il mare si apre per lasciar passare gli Ebrei e si rinchiude sugl'inseguitori; i profughi, guidati e nutriti miracolosamente, attraversano il deserto sinaitico fino all'oasi di Cades (Qadesh) e, sostati colà, Mosè ascende il monte Sinai, dove Iahvè gli si rivela e gli affida la legge da osservarsi in eterno dagli Ebrei. Attraverso alternative di speranza e di sfiducia, di fedeltà e di ribellione, vincendo l'ostilità di popolazioni avverse (Amoriti, Basaniti, Midianiti, Edomiti, Amaleciti, Moabiti) e alleandosi con altre (Qeniti, Calebiti), gli Ebrei, con un lungo giro che li conduce a sud del Mar Morto e poi, volgendo verso nord, nelle regioni della Transgiordania, si apparecchiano, quaranta anni dopo l'uscita dall'Egitto, a penetrare in Palestina, quando Mosè, salito sul m0nte Nebo nel territorio di Moab di fronte alla città di Gerico, avendo benedetto l'ultima volta il popolo, muore dopo aver contemplato, senza potervi entrare, la Terra promessa.
Alcuni critici negano risolutamente la storicità del soggiorno in Egitto e dell'esodo e fanno penetrare gli Ebrei in Palestina direttamente dal deserto arabico, donde a più riprese nel corso dei millennî popolazioni semitiche sono uscite alla ricerca di territorî più fertili da occupare (v. semiti). La connessione della conquista con l'uscita dall'Egitto sarebbe artificiosa e sarebbe nata dal ricordo confuso delle strette relazioni che in ogni tempo sussistettero tra la Palestina e l'Egitto; persino l'ubicazione del Sinai dovrebbe modificarsi: questa montagna sacra sarebbe in realtà da identificarsi con qualcuno dei numerosi vulcani del territorio midianita (così Edoardo Meyer: v. bibliografia), poiché appunto colà dovrebbe cercarsi il centro cultuale che esercitò un'influenza decisiva sullo sviluppo religioso ebraico (Mosè è genero di Iethro, sacerdote midianita). Questo scetticismo intorno a una tradizione così tenacemente e generalmente affermata sembra ingiustificato: ricerche molto accurate (v. per es. A. Mallon, Les Hebreux en Égypte, in Orientalia, n. 3, Roma 1921) hanno mostrato che il racconto biblico può inquadrarsi, nelle sue linee generali, nelle condizioni dell'Egitto durante la XIX dinastia: in particolare era frequente (come fu frequente nei secoli seguenti e dura fino ai nostri giorni) la venuta dalla Siria di famiglie e tribu beduine nel Delta, per farvi pascolare gli armenti, ed è possibile che in un periodo di debolezza politica e militare dell'Egitto alcune di queste tribù abbiano potuto stabilirvisi avanzando pretese di dominio sulle terre occupate: la restaurazione dell'autorità del faraone e l'energica politica di Ramesse II le avrebbero costrette ad abbandonare quelle terre e a rientrare nel deserto in cerca di nuove sedi.
Più arduo e più complesso è il problema relativo alla compagine tribalizia del popolo ebraico al tempo dell'uscita dall'Egitto. Le dodici tribù che la tradizione fa risalire ai dodici figli di Giacobbe-Israele (Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zebulon, figli di Lia; Gad, Aser, figli della concubina Zelpha schiava di Lia; Giuseppe, Beniamino, figli di Rachele; Dan, Neftali, figli della concubina Bala [Bilha] schiava di Rachele) appaiono a un'analisi accurata quale un aggregato di elementi diversi. Si distinguono in esso due aggruppamenti autonomi: quello che fa capo a Giuda, figlio di Lia, e quello che porta più specificamente il nome di Israele e fa capo a Efraim, figlio di Giuseppe, di cui è madre Rachele. Inoltre il numero dodici appare ottenuto mediante combinazioni artificiose, ora includendovi ora escludendone la tribù sacerdotale di Levi (corporazione religiosa piuttosto che aggregato etnico) e sostituendo a Giuseppe (che, almeno in tempi storici, non ha mai dato il suo nome ad alcuna tribù) i suoi figli Efraim e Manasse. Mentre il gruppo israelitico si vuole stabilito da tempo remoto nell'altipiano centrale della Palestina dove ha i suoi santuarî e le sue tradizioni locali che ne fanno risalire l'origine all'eroe eponimo, il gruppo giudaico, che abita la regione stepposa del mezzogiorno, ha ricordi storici che lo mettono in più stretta relazione con la regione del Sinai e con la tribù sacerdotale di Levi, a cui appartengono Mosè e suo fratello Aronne, il progenitore dei sacerdoti di Gerusalemme. Tale situazione ha suggerito l'ipotesi che le tribù israelitiche non abbiano avuto parte nella migrazione in Egitto e nell'esodo, ma siano penetrate in Palestina direttamente dal deserto, mentre l'esodo sarebbe stato compiuto soltanto dalle tribù giudaiche, le quali, depositarie di una tradizione religiosa superiore, l'avrebbero poi comunicata alle tribù israelitiche e attraverso il vincolo religioso avrebbero costituito con esse una confederazione, nella quale a poco a poco si sarebbe sviluppato il sentimento di un'unità di stirpe e di tradizione. Questa ipotesi (alla quale sembrano dar credito numerose circostanze particolari e che è confortata dall'analogia di altri organismi nazionali sorti dalla fusione di elementi eterogenei) è naturalmente soggetta a revisione e ha un valore soltanto provvisorio; essa ha tuttavia il vantaggio di dar ragione della maggior parte dei dati della tradizione più autentica, ed è quella che nello stato attuale degli studî ha maggior credito presso la scuola aconfessionale. Con essa non viene diminuita la funzione di Mosè, fondamentale per i futuri destini politici e religiosi degli Ebrei. Naturalmente, intorno a questa grandiosa figura, nella quale la tradizione ebraica riconosce il massimo dei suoi eroi, il condottiero e il legislatore a cui Dio si è rivelato per salvare il suo popolo dalla schiavitù e per costituirlo in eterno seguace e custode della verità divina, sono discordi i pareri della critica storica: il tentativo di vedere in lui la figurazione umana di una divinità è stato fatto fin dall'età ellenistica (identificazione di Mosè con Dioniso) ed è stato ripetutamente rinnovato. Ma contro di esso vale l'argomento decisivo della mancanza di qualsiasi traccia di un culto di Mosè. D'altra parte il carattere indubbiamente egiziano del suo nome ("fanciullo, figlio", che si ritrova nei nomi Amōse, Tūtmōse, ecc.) porge un forte sostegno alla veridicità della tradizione biblica. Pur senza poter affermare nulla di sicuro intorno all'autenticità dei singoli episodî della sua vita (è ovvio che intorno a una personalità cosi imponente deve essersi formato un ampio ciclo di racconti di origine disparata), anche la critica più spregiudicata può ammettere la storicità sostanziale della sua azione di condottiero e di promulgatore e propagatore della religione di Iahvè.
Questa religione - la religione del dio del Sinai - dovette costituire un centro di attrazione e un vincolo di unione per varie tribù, in parte provenienti dall'Egitto, le cui sedi si trovavano in quei paraggi (soccorre qui l'analogia, approssimativa beninteso, della lega latina accentrata nel culto di Giove sul Monte Albano); quali cause particolari le abbiano poi spinte ad abbandonare quelle sedi e a muoversi attraverso la ‛Arabah (la steppa a sud del Mar Rosso) e il territorio di Moab verso la Palestina è impossibile determinare; ma certo questo loro movimento s'inquadra nella vasta migrazione di tribù nomadi semitiche verso il nord, che tra il sec. XIV e il XIII a. C. portò gli Aramei a estendersi nella vastissima zona dal basso Eufrate al golfo di Alessandretta, gli Edomiti, i Moabiti, gli Ammoniti a occupare, sui margini del deserto, il territorio a oriente del Giordano e a mezzogiorno del Mar Morto.
Non era questa la prima ondata di Semiti che si fosse volta all'occupazione di quelle terre: già ripetutamente esse erano state popolate da Semiti, i quali costituivano la maggioranza etnica della popolazione della Siria e della Palestina, da loro occupate in varie fasi migratorie; non mancavano colà tuttavia numerosi elementi eterogenei, in primo luogo forti nuclei hittiti, che a partire dal sec. XX erano gradatamente scesi dall'Asia Minore verso sud e che, dopo la caduta del secondo impero hittita, si erano costituiti in staterelli indipendenti, occupanti le acropoli fortificate; vi persistevano probabilmente, accanto a Semiti e Hittiti, avanzi dell'antichissima popolazione presemitica che le ricerche archeologiche constatano fin dal 4° millennio a. C. Un quadro fedele della Palestina nei secoli XIV e XIII è dato, com'è noto, dalla corrispondenza in lingua babilonese tra gli staterelli cananei e hittiti col faraone egiziano loro sovrano conservata nell'archivio egiziano di Tell el-‛Amārna. In essa sono ricordate e lamentate vivacemente le incursioni che popolazioni nomadi della Transgiordania vanno compiendo contro i pacifici agricoltori della Palestina: questi nomadi sono designati col nome di Khabiru, in cui si è facilmente riconosciuta una perfetta rispondenza fonetica col nome degli Ebrei (nella scrittura cuneiforme, in cui è redatta la corrispondenza di Tell el-‛Amārna, la consonante semitica ‛ è resa con kh, e d'altra parte la vocale i della prima sillaba di ‛Ibhrīm è riduzione secondaria di a originaria). Ma la deduzione che se ne è voluta trarre, che cioè fin dal sec. XIV gli Ebrei stessero minacciosi sulla riva sinistra del Giordano accingendosi a penetrare da conquistatori in Palestina, è risultata erronea; anzitutto la cronologia biblica, confortata da sincronismi egiziani, pone la conquista oltre un secolo più tardi; in secondo luogo il vocabolo Khabiru (come è stato accertato da recenti scoperte) non ha significato etnico, ma è nome comune corrispondente a "nomadi" o "razziatori" e viene applicato in varî testi a popolazioni diverse che non hanno nulla a che fare con gli Ebrei. E d'altra parte poi, come si è visto, ‛Ibhrīm non è il nome nazionale degl'Israeliti, ma è sempre dato loro, nei testi biblici, da stranieri, sicché non è improbabile che abbia avuto appunto il significato sopra indicato (e la sua etimolooia è verosimilmente quella, già da tempo proposta, che lo riconnette alla radice semitica ‛abar "oltrepassare", "guadare"); a ogni modo, anche in base ai soli dati biblici, esso abbraccia un insieme di popoli molto più vasto che i soli Israeliti, poiché all'eponimo Eber fanno capo tutti i discendenti e collaterali di Abramo, ossia, oltre ai figli d'Israele, gli Aramei, gl'Ismaeliti (Arabi settentrionali), i Keturiti (Arabi centrali e meridionali), gli Edomiti, i Moabiti, gli Ammoniti; verosimilmente esso fu dunque una designazione generica usata dai Cananei per i nomadi invasori, tra i quali più tardi furono gli Israeliti; e a poco a poco restrinse il suo significato fino ad assumere quello di nome proprio, esclusivo per gl'Israeliti.
La marcia degli Ebrei attraverso il deserto, che la tradizione biblica narra come svoltasi in modo organico e unitario, non fu dunque probabilmente se non un prolungato movimento migratorio, durante il quale i popoli che avevano preceduto gli Ebrei in questo movimento e si erano già stanziati nel territorio che essi ora attraversavano opposero loro una gagliarda resistenza, costringendoli a procedere oltre e a tentare il passaggio del Giordano. Tuttavia, già prima, una parte degli Ebrei aveva trovato sedi opportune: la tribù di Ruben (che la tradizione più strettamente israelitica considera come la principale del gruppo, mentre la tradizione giudaica dà la preminenza a Giuda) si stabilì a oriente del Giordano e non partecipò alla conquista della Palestina propriamente detta. Questa non avvenne, come è ovvio, in un sol tratto, ma fu piuttosto costituita da una serie d'incursioni che a grado a grado assunsero il carattere di occupazione permanente. La tradizione, secondo suole, rappresenta di scorcio questo laborioso processo di penetrazione, accentrandolo intorno alla figura dell'eroe efraimita Giosuè, cui Mosè morendo aveva affidato la condotta del popolo. Nello stato in cui si presenta attualmente il racconto biblico, Giosuè, varcato il Giordano il quale apre i suoi flutti innanzi all'arca santa che precede il popolo ed espugnata non meno miracolosamente la città di Gerico, baluardo della difesa della Palestina meridionale dalla parte di oriente, irrompe coi suoi nel paese, soggioga la popolazione cananea in seguito ad alcune memorabili battaglie e, insignoritosi dell'intero territorio, lo spartisce fra le varie tribù.
A questa schematizzazione della conquista nel libro di Giosuè (riaffermata e ricapitolata nel cap. I del libro dei Giudici) si oppongono tuttavia le singole narrazioni, o frammenti di narrazioni, inserite in quei libri stessi. Da questi avanzi di una tradizione più antica e più genuina è possibile farsi un'idea abbastanza esatta del processo storico che portò le tribù israelitiche a occupare la Palestina e ad amalgamarsi con la popolazione semitica di essa, costituendo così la nazione ebraica. Nel territorio palestinese, come si è visto (per maggiori particolari archeologici ed etnografici v. canaan; palestina), esisteva una civiltà plurimillenaria, di carattere estremamente composito, che aveva subito e subiva gl'influssi di quelle babilonese, egiziana ed egeo-asianica; aperta per la sua posizione geografica alle invasioni da nord e da sud, divisa dalle profonde vallate che la solcano in numerosi distretti autonomi, essa era priva di unità etnica e politica: delle numerose stirpi che la occupavano la più importante era quella, omonima del paese, dei Cananei (si rammenti che il termine "Palestina" entrò in uso soltanto a partire dall'età greca) di stirpe e di lingua semitica, prevalentemente agricoltori, frammisti a gruppi abbastanza rilevanti di Hittiti, superiori a essi per armamento e per spirito militare. Gli Ebrei invasori costituivano delle orde nomadi, assai inferiori per numero alla popolazione indigena, piene di ardore bellicoso ma non ancora educate ai combattimenti regolari né specialmente all'arte dell'assedio: se le campagne furono facile preda, le città resistettero a lungo e solo a poco a poco, né tutte quante, finirono con l'aprire le porte ai nuovi venuti. Questi rimasero per molto tempo accampati nelle campagne in condizioni non dissimili da quelle in cui vi risiedettero, quasi due secoli dopo, altri invasori semitici, gli Arabi del sec. VII d. C. (v. arabi: Storia, III, p. 828), o da quelle in cui i barbari si stanziarono nell'Impero romano nel sec. V d. C.; tra vincitori e vinti le relazioni variarono da luogo a luogo: talora gli antichi proprietarî del suolo furono ridotti a servi della gleba, più spesso furono sottoposti a tributo e continuarono a coltivare le proprie terre; soltanto in pochi casi vennero interamente sterminati. Gli Ebrei, da pastori nomadi che erano stati fino allora, si trasformarono gradatamente in agricoltori (il nomadismo o seminomadismo continuò peraltro nella Transgiordania e nella steppa meridionale della Giudea), e subirono naturalmente, in questa trasformazione di vita, l'influsso dei Cananei ai quali subentravano nel dominio territoriale e alle occupazioni agricole dei quali partecipavano; questo influsso fu così profondo che non solo gran parte della civiltà materiale dei Cananei, ma moltissime costumanze sociali e religiose, molte tradizioni e la stessa lingua furono fatte proprie dagli Ebrei. Fino a che punto la convivenza fra vincitori e vinti abbia condotto a una fusione intima e completa dei due popoli è difficile stabilire: certo ancora nell'età monarchica sussistevano gruppi di Cananei non assimilati; ma è da ammettersi che la maggior parte di essi finì con l'inserirsi, attraverso il sistema della clientela, nell'organizzazione tribalizia e famigliare ebraica. Vivissima rimase tuttavia negli Ebrei la coscienza di costituire una classe superiore, cui la conquista del territorio palestinese era stata promessa da Dio in corrispettivo della fedeltà prestatagli; e da questa coscienza a un tempo nazionale e religiosa, trassero la forza di costituirsi a nazione attraverso lunghe e dure lotte.
Come la conquista della Palestina risultò da una serie d'incursioni parziali, così a essa non partecipò in massa l'insieme delle tribù; si ebbero piuttosto azioni singole di questa o quella tribù (caratteristico è il fatto sopra ricordato della tribù di Ruben che s'isola dalle altre), ciascuna delle quali andò per proprio conto in cerca di territorî da occupare. Questo isolamento delle tribù si accentuò con lo spargersi di esse nel paese e col venir meno della resistenza dei Cananei; anzi (e la tradizione serba traccia anche di ciò) non mancarono dissensi e lotte fra le stesse tribù, in seguito a cui alcune di esse dovettero abbandonare il territorio prima occupato e andare lontano in cerca di nuove sedi (tale la tribù di Dan, che dal mezzogiorno della Palestina si trasferì all'estremo settentrione). Alcune di esse furono addirittura attratte nell'orbita di altre popolazioni, quali Zebulon, Dan e Aser che sono ricordati in alcuni dei più antichi documenti della letteratura ebraica come al servizio dei Fenici (Genesi, XLIX, 13; Giudici, V, 17). Soltanto il ricordo della stirpe e delle tradizioni comuni persisteva quale debole vincolo fra le tribù.
Sennonché il possesso del territorio palestinese non durò così sicuro e incontestato come poteva sembrare dopo che la resistenza dei suoi antichi signori era stata debellata. Non soltanto l'elemento hittita, padrone di varie piazzeforti e militarmente superiore, cercò a più riprese di riacquistare il controllo della popolazione agricola e pastorale, e talvolta vi riuscì; ma il flusso migratorio che aveva portato gli Ebrei in Palestina non si arrestò, e nuove e vecchie popolazioni, alcune affacciantisi per la prima volta fuori del deserto, altre malcontente delle loro sedi meno favorevoli di quelle occupate dagli Ebrei, premevano ai confini del dominio ebraico. Erano gli antichi avversarî coi quali gli Ebrei si erano già misurati nella marcia attraverso il deserto: Edomiti, Midianiti, Amaleciti, Moabiti, Ammoniti. Più pericolosi ancora, perché saldamente organizzati, animati da gagliardo spirito di conquista e superiori di civiltà materiale, i Filistei, i quali costituivano una confederazione di cinque città sulla costa orientale del Mediterraneo a sud delle città fenicie, proprio di fronte al territorio ebraico; se essi vi fossero giunti per mare da Creta o dalla Cappadocia o da altrove o se fossero il residuo di una popolazione scesa lungo la costa al tempo dell'invasione degli Hyksos, è dubbio; certo la loro occupazione della costa dovette essere anteriore all'arrivo degli Ebrei in Palestina, poiché altrimenti nulla avrebbe impedito a questi di estendersi fino al mare. Circondate da nemici ed esposte isolatamente ai loro attacchi, le tribù ebraiche ebbero a subire fortunose alternative di sconfitte e di vittorie e caddero successivamente sotto l'egemonia straniera. Appunto l'imminenza del pericolo rinsaldò il sentimento dell'unità, e a varie riprese alcune tribù (di rado o non mai la loro totalità) si raccolsero sotto la guida di capi che seppero stringerle insieme contro il nemico comune.
È questo il periodo che va sotto il nome dei "Giudici" (shōf‛tīm), vocabolo che si ritrova come designazione di magistratura civile presso i Fenici e rivela con ciò l'origine cananea dell'istituzione. Sennonché presso gli Ebrei il giudice appare anzitutto un capo militare (s'intende che dovevano spettargli anche funzioni giudiziarie, come più tardi al re) e il suo potere è del tutto occasionale e personale: se non nel nome, certo nel carattere e nelle funzioni egli ricorda, più che gli omonimì sufeti fenici, il capotribù (emīr) arabo e, come questo, non ha che un dominio precario. La tradizione storiografica della Bibbia è certo artificiosa nell'ordinamento in successione cronologica dei singoli giudici (Othniel, Ehud, Samgar, Barac, Gedeone, Abimelec, Tola, Iairo, Iefte, Ibzan, Elon, Abdon, Sansone), poiché si tratta piuttosto di episodî indipendenti, che sfuggono a una classificazione precisa; essa ha inoltre incluso nel numero dei giudici delle figure di tutt'altro genere, come Sansone, l'eroe popolare delle lotte contro i Filistei. Tuttavia nei racconti intorno ai singoli giudici, pur facendo la debita parte all'elemento fantastico popolare, si trova un ricordo generalmente esatto del decorso dei fatti: l'insurrezione contro gli Hittiti di quasi tutte le tribù al comando di Barac e sotto l'ispirazione della profetessa Debora; la lotta delle tribù transgiordaniche contro gli Ammoniti sotto la guida di Iefte; soprattutto quella organizzata da Gedeone contro i Midianiti sono narrate con una vivacità e un'evidenza stilistica e con una semplicità di composizione scevra di ogni artificio tendenzioso che sono garanzia della loro autenticità. Specialmente interessante per il successivo svolgersi delle istituzioni politiche è l'offerta del regno che vien fatta a Gedeone e che è da lui rifiutata, mentre suo figlio Abimelec, dopo la morte di lui, profitta del prestigio paterno e della parentela materna coi Cananei per proclamarsi re a Sichem: regno effimero tuttavia, perché la città gli si ribella, ed egli viene ucciso mentre cerca di riprenderla.
Da questi racconti, e da quelli, aggiunti quasi come appendice nei capitoli XVII-XXI intorno alla già menzionata migrazione dei Daniti e alla strage dei Beniaminiti per opera delle altre tribù (in cui si riflettono le lotte intestine di questo periodo), si ritrae una immagine adeguata delle condizioni di vita degli Ebrei in Palestina durante questa età. Vita prevalentemente rustica, poiché le città sono quasi tutte ancora abitate dai soli Cananei e gli Ebrei, anche quando hanno il dominio di esse, preferiscono risiedere nelle campagne; estremo frazionamento territoriale, per cui la tribù si scinde nei suoi elementi costitutivi, le mishpaḥōth (gruppi consanguinei più vasti della famiglia odierna e paragonabili alla gens romana, organizzati patriarcalmente). La poligamia è talvolta praticata, ma la posizione della donna è abbastanza buona e la madre di famiglia è onorata e rispettata; la schiavitù, data l'economia rudimentale del paese, ha carattere di domesticità, senza le forme brutali del mondo classico; i figli, anche ammogliati, rimangono in generale presso il padre e sottomessi alla sua autorità. I capi delle mishpaḥōt, gli "anziani", si adunano a costituire l'assemblea della tribù. Eccezionale, come si è visto, è la confederazione di parecchie tribù sotto il governo di un giudice, e occasionata dalla necessità della difesa comune. Poiché, se le invasioni e le incursioni dei popoli confinanti sono frequenti, esse non interrompono il ritmo regolare delle occupazioni pastorali e agricole. E come semplice e primitiva è la vita individuale e sociale, così è quella religiosa: il culto è essenzialmenre domestico, e il capo della famiglia suole presiedervi; soltanto in particolari circostanze festive i fedeli accorrono a santuarî sparsi nel paese; manca del tutto un santuario centrale e un'uniforme legislazione cultuale, così come manca una capitale politica. Ma il sussistere del sentimento dell'unità nazionale e religiosa, preziosa eredità della vita nomade del deserto, preparava alle tribù d'Israele, col favore delle circostanze (o, se si vuole, della provvidenza divina) un'unificazione materiale e spirituale che doveva essere decisiva per l'avvenire degli Ebrei.
La cronologia dell'età dei Giudici è quanto mai incerta: mentre secondo la cronologia tradizionale, tra l'entrata di Giosuè in Palestina e l'istituzione della monarchia sarebbero corsi oltre 300 anni, sembra che tale periodo debba restringersi a meno di due secoli (circa 1200-1025 a. C.).
La religione ebraica prima della monarchia. - L'idea che la critica aconfessionale (con cui in parte concorda la teologia protestante liberale) si fa dell'antica religione ebraica è profondamente diversa da quella che ne ha la teologia, sia ebraica sia cattolica o protestante conservatrice. Per questa, che si attiene fedelmeme al testo biblico nel suo aspetto attuale, il fatto fondamentale della religione ebraica, unico nella storia dell'umanità, è la rivelazione: Iddio, che si era già manifestato ai patriarchi antidiluviani, si manifesta d'ora innanzi soltanto nell'ambito del popolo ebraico, dapprima ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, poi, dopo lungo intervallo, a Mosè, e a lui, dopo che egli ha compiuto la sua missione di trarre il popolo dall'Egitto, è rivelata sul Sinai la Legge divina, che egli promulga al popolo, facendogli giurare di osservarla in perpetuo fedelmente. Questa legge è quella che si trova consegnata nel testo biblico; a essa gli Ebrei furono sottomessi già prima di penetrare in Palestina, e le deroghe da essa furono atti di disobedienza al volere divino, che recarono con sé, come giusta punizione, le sventure dalle qualì fu colpito il popolo ebraico. Per la critica aconfessionale, invece, la religione degli Ebrei si è svolta, analogamente a quella di tutti gli altri popoli, dallo sforzo dell'uomo d'interpretare il mistero del mondo e della vita e dal desiderio di trovare protezione e conforto nelle avversità; le credenze e i riti che essa contiene sono il risultato di un lungo e complicato processo storico; compito dell'indagine scientifica è di scindere gli elementi di cui essa consta e di seguirne lo sviluppo. E ovvio che i risultati ai quali conduce un tal metodo sono in gran parte congetturali e sono validi soltanto per chi ammette il criterio metodico iniziale, mentre manca loro quel carattere di certezza assoluta che è proprio della tesi teologica; la quale, a sua volta, appunto in quell'incertezza di risultati ravvisa un argomento a proprio favore.
La maggior difficoltà della storia religiosa ebraica sta in ciò, che le fonti presentano già compiuto quel laborioso processo di amalgama degli Israeliti nomadi e dei Cananei sedentarî donde è risultata, insieme con la nazione e la civiltà, anche la religione ebraica. Che i due popoli, in quanto derivanti entrambi dallo stesso ceppo semitico, avessero comuni anche prima di compenetrarsi a vicenda alcune credenze religiose è molto probabile, soprattutto se si accoglie l'ipotesi che alcune almeno delle tribù israelitiche avessero abitato la Palestina prima della conquista: per es. il nome generico della divinità, El (di cui Elohim è una forma secondaria tipicamente ebraica), è quasi certamente tanto ebraico quanto cananeo. Ma, mentre in Canaan la religione si svolse in corrispondenza col carattere della vita agricola, tra i nomadi essa conservò (o assunse, come altri vogliono) forme semplici e rozze, ma molto più dinamiche e più ricche di contenuto emotivo. La mancanza di sedi fisse non consentì agli antichi Israeliti un culto accentrato in santuarî e regolato da prescrizioni minuziose; la loro vita aspra e selvaggia fece loro attribuire alla divinità un carattere impetuoso ed energico. Iahvè (o come altrimenti debba pronunciarsi questo nome divino che compare anche nelle forme Yahu, Yau) è il dio nazionale e, in quanto tale, unico, che protegge il suo popolo, ed è terribile contro i suoi nemici. Non ha né templi né altari; la sua sede abituale è tra le nubiche coronano le vette dei monti (il Sinai non è forse che una sola delle sue residenze), e tra le fiamme e gli scrosci dell'uragano egli si manifesta tremendo (che egli sia anche connesso con fenomeni tellurici e vulcanici è ipotesi seducente, ma non necessaria). Questi fenomeni soltanto rivelano la sua presenza, perché egli non ha aspetto umano, o per lo meno esso è insostenibile da occhi mortali e il suo fulgore uccide chiunque osi accostarglisi. Dalla vetta dei monti Iahvè si muove, librandosi nell'aria in mezzo alla tempesta, per guidare il suo popolo nei viaggi e nelle guerre, e durante la marcia e nelle soste si posa sull'arca santa (ārōn ha-qodesh), una specie di cassetta che viene portata a spalla. Egli è, secondo l'efficace espressione biblica, un "dio geloso": in corrispettivo della sua protezione esige un'assoluta dedizione da parte dei suoi fedeli. Non pretende tuttavia un culto regolare, che le condizioni della vita nomade non consentirebbero: solo in determinate epoche dell'anno, connesse con la vita pastorale, gli si fanno sacrifici, i quali, forse per mezzo di un rito di comunione quale si riscontra anche presso i nomadi arabi, rinnovano il rapporto che sussiste tra Iahvè e il popolo; il principale di questi sacrifici è quello degli agnelli a primavera: la Pasqua. Un'altra forma di sacrificio, estremamente più crudele, è quella che tien dietro a una vittoria duramente conquistata, in cui l'intero bottino, prigionieri, animali, oggetti, è massacrato o incendiato come offerta integrale alla divinità (ḥĕrĕm, cfr. la devotio romana). È anche probabile che al fondo più antico della religione ebraica appartenga il digiuno, una cerimonia con la quale il popolo si mortifica, mettendosi in stato di santità, sia per affrontare pericoli singolari (per es. alla vigilia di una battaglia) sia per espiare trasgressioni ai comandi divini: in origine il digiuno è, come richiede la sua indole, un rito occasionale; più tardi (forse soltanto dopo la conquista) un digiuno più solenne è celebrato nel decimo giorno dell'anno (secondo il calendario che ne pone l'inizio in autunno) in espiazione (kippūr) dei peccati compiuti dal popolo, dei quali viene caricato un caprone, che è poi cacciato nel deserto. Di origine oscura (quasi certamente africana) e certamente antichissima è la circoncisione (v.), che non sembra tuttavia particolare degli Ebrei, perché la conobbero i Fenici, e probabilmente anche i Cananei nonché le altre popolazioni etnicamente affini agli Ebrei. Sono frequenti le occasioni in cui sia il popolo sia i singoli individui hanno bisogno d'interrogare Iahvè per conoscerne la volontà e a ciò si provvede per mezzo delle sorti: a questa forma primitiva di divinazione appartengono gli ūrim e i tummīm (probabilmente dischi o piastrelle che venivano imbussolati ed estratti) e l'efod, oggetto della cui forma e uso i testi non dànno spiegazione sufficiente. La consultazione di queste sorli era consentita a tutti, ma la loro interpretazione era ufficio d'una particolare classe d'individui i quali più che al sacerdote-sacrificatore si accostano all'indovino di altre religioni; essi costituivano una corporazione a cui, come spesso nell'antichità, si dava carattere gentilizio e che si proclamava discendente di Levi: sembra peraltro che i Leviti non abbiano mai costituito una tribù nel senso proprio della parola; a ogni modo, che essi abbiano esercitato una funzione decisiva nel processo storico, oscuro quanto mai nel suo svolgimento, che portò alla riunione delle stirpi di Lia e di Rachele per la conquista della Palestina, sembra indubitabile, poiché discendente di Levi è detto Mosè, l'autore di quella riunione, e a suo fratello Aronne fa capo la famiglia che più tardi (probabilmente sotto la monarchia di David) ebbe la preminenza e finalmente l'esclusività del sacerdozio. Analoghi ai Leviti per il carattere divinatorio, ma distinti da essi in quanto i loro oracoli non avvengono con l'estrazione delle sorti, ma attraverso responsi ispirati direttamente da Iahvè, che si ritiene parlare per bocca loro, sono i veggenti (ḥōzīm, rō'īm), i quali in seguito, trasformatisi in "profeti", ebbero una parte decisiva nell'innalzare la religione ebraica ad altezze spirituali non mai prima raggiunte.
Del tutto diversa da quella degl'Israeliti nomadi era la religione dei Cananei: presso di essi la vita sedentaria, le occupazioni agricole, la minuta frammentazione territoriale avevano determinato una concezione della divinità strettamente legata alle singole località e alla fertilità del suolo. Il carattere della religione cananea è oggi abbastanza bene conosciuto per mezzo delle scoperte archeologiche in Palestina e si rivela sostanzialmente identico a quello che la tradizione letteraria e l'epigrafia hanno mostrato essere proprio della religione dei Fenici; le strettissime analogie con notizie fornite dalla Bibbia mostrano quanto forte sia stato l'influsso di essa sulla religione ebraica.
Il primitivo El semitico appare come Ba‛al (signore") di un determinato luogo, dal nome del quale viene designato, senza assurgere a una individualità particolare, e la sua localizzazione in una sede fissa (generalmente una pietra isolata, spesso posta in cima a un'altura, pietra che dapprima sarà stata una roccia naturale poi fu eretta per mano dell'uomo e squadrata in forma di cippo o di obelisco: massĕbĕt, hammān) finì talvolta col farlo identificare con lo stesso oggetto di culto (v. betilo). Il Baal cananeo è essenzialmente un nume della fertilità, e per ottenere questa gli si offrono, sopra un altare di pietre squadrate (mizbéaḥ, bāmāh), sacrifici di primizie vegetali e animali, talora anche fanciulli, con rito barbaro di cui si hanno tracce nella Bibbia, e che è condannato sia dai profeti sia dalla legislazione sacrale (Deut., XII, 31, XVIII, 10), in nome di un sentimento religioso e umanitario più raffinato. Accanto al Baal è adorata una divinità femminile, considerata come sua sposa e rappresentante, molto probabilmente, la terra fecondata, la quale porta in genere il nome di Astarte (v.), la grande divinità femminile dei Semiti settentrionali, e, in quanto è simboleggiata in un palo infitto nel terreno e coronato di fronde (asherāh), porta anche questo nome, con processo analogo a quello che ha prodotto il trasporto del concetto di divinità dal Baal nell'oggetto cultuale. Alla stessa analogia è dovuto senza dubbio il culto degli alberi, largamente diffuso, specialmente dei grandi terebinti isolati.
È ovvio che la localizzazione del nume doveva portare alla istituzione di santuarî, considerati come la sua "casa": in essi i sacrifici sono offerti occasionalmente, ma spesso anche in determinati periodi dell'anno, che coincidono generalmente con l'epoca dei varî raccolti agricoli, specialmente in primavera e in autunno. Ministro del sacrificio è da principio lo stesso offerente, ma egli è sempre assistito dai custodi del santuario, che regolano le operazioni rituali e prelevano una parte dell'offerta; essi si convertono poi gradualmente in operatori esclusivi del sacrificio e assumono carattere di veri e proprî sacerdoti (kōhanīm, sing. kōhēn: il vocabolo si trova anche nel fenicio); le cerimonie del sacrificio si compiono mediante formule fissate dalla consuetudine, che si ordinano a poco a poco in un vero e proprio rituale.
Il culto dei morti non è molto sviluppato. La sopravvivenza dell'anima è considerata come una vita umbratile nel sepolcro stesso o in un vasto abisso sotterraneo (shĕ'ōl) dove non penetra la luce del sole e dove l'esistenza è monotona e triste. Talvolta gli spiriti dei defunti possono essere evocati, per mezzo di operazioni magiche (il passo caratteristico è I Re [Samuele], XXVIII), e dànno responsi a chi li interroga: credenza analoga a quella che è illustrata, nell'antica Grecia, dall'evocazione degli spiriti dell'Ade nel libro XI dell'Odissea. Non v'è traccia della credenza in una retribuzione postuma dei meriti e delle colpe, cosa tanto più strana in quanto che nell'Egitto e nella Babilonia, che tanto influirono sulla Palestina, questo concetto era grandemente sviluppato. Forse la mancanza di notizie a questo proposito è dovuta, piuttosto che ad assenza di una tale credenza, a insufficienza delle nostre fonti.
La superiorità della civiltà materiale dei Cananei su quella degli Ebrei invasori, la graduale trasformazione di questi da nomadi in sedentarî dovevano necessariamente produrre un profondo cambiamento nella loro vita religiosa e portarli ad accogliere in gran parte le credenze e le costumanze cananee. Ciò tuttavia non ebbe luogo in modo uniforme né, soprattutto, produsse l'abbandono della religione dell'età nomade, troppo strettamente vincolata, come si è visto, alla tradizione nazionale sempre consapevole di sé: si ebbe piuttosto un fenomeno di sincretismo, per il quale, pur conservandosi il nome di Iahvè, il dio venne assumendo nella coscienza dei fedeli gli attributi dei Baal cananei, e al culto primitivo subentrò a poco a poco, senza però sostituirlo interamente, quello in uso presso le popolazioni agricole. Si formò così, man mano che avveniva la fusione d'Israeliti e Cananei nell'ambito della vita economica e sociale, un tipo di religione mista, nella quale le differenze originarie delle due concezioni religiose si andavano livellando. Tuttavia, ed è questo l'aspetto del fenomeno storicamente più importante, l'originalità e l'autonomia della religione nazionale non furono mai dimenticate: anche le istituzioni di origine cananea (così si ritiene dalla critica indipendente) venivano riportate alle origini stesse della nazione israelitica e condotte a far parte del patto stretto da Iahvè col suo popolo, per mezzo di Mosè, nell'atto in cui lo conduceva alla conquista della Terra promessa; anzi, risalendo ancora più indietro nel tempo, erano gli stessi remoti progenitori degli Ebrei, Abramo, Isacco e Giacobbe, quelli con cui per primi Iahvè aveva concluso la sua alleanza e in premio della loro fede aveva garantito ai loro discendenti il possesso di quella terra in cui essi non erano stati che ospiti stranieri.
Data pertanto questa profonda compenetrazione di elementi cananei e israelitici, è spesso difficile distinguere, salvo che nelle linee generali indicate sopra, che cosa precisamente spetti agli uni e agli altri nella legislazione religiosa che va sotto il nome di Mosè. Tanto più difficile è questa distinzione, in quanto nulla è noto con sicurezza intorno all'età di essa. Che il suo aspetto attuale sia il risultato di un lungo lavoro di compilazione e di adattamento, la cui ultima fase appartiene all'età dell'esilio babilonese è opinione la quale, dopo aver incontrato ostinate resistenze (v. pentateuco), è oggi accettata da gran parte della critica indipendente, la quale si fonda sulla circostanza che questa Legge non è mai invocata né ricordata esplicitamente negli scritti storici e profetici dell'età monarchica. Ma né il carattere tardo della compilazione né il silenzio della tradizione bastano a dimostrare l'inesistenza di leggi religiose più antiche. Molte leggi mosaiche hanno contenuto giuridico e sociale, altre sono prevalentemente cultuali; alcune delle prime presentano strettissime analogie col famoso codice di Hammurabi o (come una più estesa e più precisa conoscenza del materiale permette oggi di affermare) con l'antichissimo diritto di origine sumerica diffuso nell'Asia Anteriore: è dunque ovvio che esse sono di origine cananea, ma l'età della loro redazione può essere antichissima, perfino anteriore alla penetrazione degli Ebrei in Palestina, dove essi forse le trovarono già in vigore. Altre invece mirano a regolare i rapporti tra gli Ebrei e il loro "ospite" (gēr), termine che designa il cliente di una tribù il quale le si associa pur rimanendo in posizione giuridicamente subordinata; e queste, benché posteriori alla conquista, devono essere sorte in ambiente schiettamente ebraico. Quanto alla legge rituale, il suo carattere nettamente sacrificale e le analogie che essa offre con alcuni avanzi superstiti della legislazione rituale fenicia mostrano che si tratta di prescrizioni (tōrōth, sing. tōrāh) che in origine dovevano essere proprie dei numerosi santuarî ebreo-cananei. L'accentramento del culto a Gerusalemme (v. più oltre) dovette portare a un processo di coacervo, e al tempo stesso di selezione, di tali prescrizioni; sicché l'attuale legislazione rituale del Pentateuco riproduce in sostanza la legge del tempio di Gerusalemme. Naturalmente è ormai impossibile riconoscere in essa la differenza di origine e l'antichità relativa delle singole prescrizioni. Un carattere arcaico ha, tra esse, un elenco delle feste di carattere agricolo, il cosiddetto "secondo Decalogo" (Esodo, XXXIV), il quale è stato contrapposto da una parte della critica al primo, il più famoso (Esodo, XX), perché questo, per il suo contenuto prevalentemente morale, è sembrato dover essere di necessità posteriore. In realtà i comandamenti del Decalogo, esattamente interpretati, non sono punto alieni da quella morale primitiva, ma sana e categorica, che si riscontra presso i nomadi, mentre d'altra parte gli accenni al possesso di una terra (XX, 12) fanno comprendere che essi sono destinati a gente già uscita dal nomadismo, e il divieto di rappresentare Iddio con immagini scolpite o fuse implica il contatto con culti che usavano tali immagini. Si tratta quindi di un complesso di norme che si riferiscono al primo tempo dell'occupazione della Palestina, e la tradizione è sostanzialmente nel giusto riconoscendovi una delle più antiche testimonianze della vita religiosa e morale degli Ebrei.
Gli atti del culto quali sono indicati nel testo biblico, e specialmente nel Levitico, riflettono probabilmente una prassi fissata definitivamente in epoca molto più tarda di quella dei Giudici, ma è ovvio che le usanze da cui essa si formò devono essere sorte in varie età, e talune devono risalire a tempi remotissimi. Il centro della vita religiosa è dato, in questa legislazione, dal concetto di "santità": esso è quello che definisce la natura della divinità e di tutti gli oggetti o azioni che a essa si riferiscono. Alla santità nella sfera del divino fa riscontro la "purità" in quella delle azioni umane, purità che si consegue con riti di lustrazione, e che deve precedere ogni atto sacrale. Alla divinità si presta omaggio col sacrificio, il quale è offerto, in nome dei fedeli, dal sacerdote sull'altare, mediante un minuzioso rituale, e che può essere di varie specie: il più solenne è l'olocausto, nel quale l'intera offerta è consumata sull'altare mentre in altri casi solo una parte viene arsa, e il resto spetta al sacerdote; altri sacrifici non implicano combustione e sono solo deposti sull′altare. Il sacerdote interviene anche in altri riti, specie di purificazione, che si compiono separatamente dal sacrificio.
Le feste sono numerose, e quasi tutte connesse con l'agricoltura: la Pasqua, come si è visto, è la festa degli agnelli a primavera (connessa nella celebrazione col ricordo della liberazione dalla schiavitù d'Egitto); la festa di Shabū‛ōth (tradotta in greco col vocabolo Pentecoste, ossia cinquantesimo giorno dopo Pasqua) è connessa con la mietitura, quella delle "Capanne" (Sukkōt) con la vendemmia. Un carattere speciale e un'origine oscura ha il sabato, ossia il giorno di riposo che cade alla fine della settimana e che è già ricordatoi come d'importanza capitale nella vita religiosa, nel Decalogo. Uno sviluppo e un'estensione del sabato è l'istituzione dell'"anno sabbatico", in cui la terra coltivata riposa, e un potenziamento di questo è il giubileo, celebrato ogni cinquantesimo anno (sette volte sette anni), in cui le terre dovrebbero tornare ai proprietarî originarî, annullandosi i trapassi avvenuti nell'intervallo (questa istituzione che forse in tempi storici non aveva più che un carattere teorico, sembra riflettere il carattere comunistico della proprietà nell'economia tribalizia).
In questo insieme di cerimonie e di feste non si scorge, benché da alcuni si sostenga, nessuna imitazione della religione dei Babilonesi. Che la civiltà di questi, di remota antichità e di diffusione vastissima, abbia fatto sentire il suo influsso sui Cananei e, di riflesso, sugli Ebrei che occuparono la Palestina, è cosa ovvia; ma né la complicata mitologia e teologia, né il rituale particolarissimo del mondo mesopotamico sembrano aver avuto presa sulla religione dei modesti agricoltori e pastori palestinesi. Le tracce evidentissime di poemi mitologici babilonesi che si riscontrano nella prima parte della Genesi (creazione del mondo, patriarchi antediluviani, diluvio) rivelano influssi culturali e letterarî, non già religiosi.
Nel rapporto, che non poteva non essere di contrasto, tra l'ideale religioso del nomadismo e quello della vita sedentaria, il primo era minacciato di rimanere sopraffatto dal progresso della civiltà materiale. Tale pericolo fu notato in modo particolare da alcuni elementi che si sentivano più di altri attaccati alla religione avita. Questa era sì primitiva e rozza in confronto delle costumanze cananee, ma in compenso aveva un vigore di spontaneità, un sentimento vivo e schietto della trascendenza divina, una ricchezza di contenuto emotivo, una gagliarda intransigenza verso ogni intrusione estranea che le conferivano un valore spirituale e una forza morale considerevoli. Il riconoscimento di questa superiorità intima spinse i più fedeli seguaci dello iahveismo israelitico a contrapporlo all'invasione dei culti cananei e, affermandone solennemente l'incompatibilità con questi, essi suscitarono uno dei movimenti religiosi più intensi e più fecondi che l'umanità abbia conosciuti.
La fondazione della monarchia. - Gli Ebrei, ultimi ad aver mutato il nomadismo in vita sedentaria, avevano una costituzione politica inferiore a quella contemporanea dei loro vicini, presso i quali le tribù si erano già da tempo unificate in un organismo superiore, sotto il comando di un re; e a questa inferiorità dovettero senza dubbio l'oppressione straniera per cui si segnala il periodo dei Giudici. Il particolarismo delle tribù, favorito dalle condizioni geografiche e accentuato dalla profonda divisione tra il gruppo efraimitico (o israelitico in senso stretto) del nord e quello giudaico del Sud, fu vinto soltanto dalla necessità di resistere a un nemico più potente e pericoloso degli altri: i Filistei. Per quanto si può ancora riconoscere dalla tradizione frammentaria e turbata, i Filistei, padroni della costa, fecero per vario tempo un'opera sistematica di conquista del retroterra, e ottennero la sottomissione completa delle tribù ebraiche a occidente del Giordano, stabilendo ovunque funzionarî incaricati di riscuotere i tributi e confiscando le armi alla popolazione. La dura oppressione degli stranieri (i Filistei erano particolarmente sentiti come tali, perché di razza e lingua non semitiche e perché incirconcisi) fu scossa dall'azione militare di un capo della tribù di Beniamino, Saul, il quale, già distintosi nella regione di Galaad a oriente del Giordano contro gli Ammoniti, riuscì a coalizzare gran parte delle tribù contro i Filistei; il trionfo conseguito con la liberazione del paese gli assicurò l'elezione a re (circa 1025 a. C.). Evidentemente una riunione permanente delle tribù non si poteva avere che con l'istituzione della monarchia, della quale, come si è visto, era già stato fatto un tentativo parziale e non riuscito da Abimelec. La tradizione biblica (I Re [Samuele]), che ha lasciato di questo avvenimento due versioni con tendenze diverse, mostra da un lato come l'esigenza di un comando unico fosse sentita nel popolo, ma come dall'altro la perdita della libertà anarchica cara al cuore dei nomadi fosse rimpianta da molti. Strettamente connessa col nuovo ordinamento politico è la figura alquanto enigmatica del sacerdote-profeta Samuele, che appare in relazione con l'importante santuario di Silo e sembra essere stato il deus ex machina del rivolgimento avvenuto in Israele. Il suo intervento conferisce, attraverso l'unzione, un carattere sacro alla persona del monarca (quale egli ha tanto presso gli Egiziani quanto presso i Babilonesi), ma al tempo stesso ne fa dipendere la legittimità da una sorta d' investitura sacerdotale; il suo carattere di profeta, cioè d'interprete diretto della volontà divina, gli conferisce una specie di controllo permanente sull'autorità del re. Non potevano pertanto mancare le ragioni di un conflitto, che culminò col distacco di Samuele da Saul e col tentativo fatto da questo di sbarazzarsi del sacerdozio (strage dei sacerdoti di Nob). Saul, grandiosa e tragica figura di guerriero non sempre abile nei maneggi della politica, non seppe o non poté superare l'opposizione di nemici interni ed esterni: soprattutto fatale gli fu il conflitto scoppiato col genero, David, un giovane guerriero della tribù di Giuda che si era particolarmente distinto nella guerra coi Filistei ed era appoggiato dal sacerdozio: egli, bandito dal suocero, cercò rifugio presso gli stessi nemici e intraprese, a capo di un gruppo di fuorusciti e di avventurieri, una serie di razzie nel territorio ebraico, pur senza dichiararsi apertamente nemico del re e protestandogli anzi devozione. Saul, diminuito nel suo prestigio e fatto segno ad accuse di disobbedienza ai comandi divini, inviso a gran parte del popolo insofferente dell'autorità regia, si trovò indebolito di fronte a un'energica ripresa dell'offensiva dei Filistei, e, completamente disfatto, cercò nella morte lo scampo alla prigionia. Gli successe un figlio ancor fanciullo (il maggiore, Gionata, il fedele amico di David, era caduto insieme col padre). il quale vide ristretto il proprio territorio alla regione transgiordanica di Galaad. Gli Ebrei ricaddero quasi tutti sotto il giogo dei Filistei; ma David, costituito un piccolo regno vassallo di questi nel territorio giudaico (circa 1010 a. C.), seppe, unendo all'abilità e al valore di condottiero l'astuzia e la capacità di persuasione dell'uomo politico, raccogliere intorno a sé l'intero popolo ebraico, rovesciare la dinastia di Saul, e finalmente, con tutte le forze riunite della nazione, non solo liberarsi dall'egemonia filistea, ma ridurre a suoi vassalli gli antichi signori e istituire in Israele una monarchia salda e forte.
Al successo contribuì non poco la presa di Gerusalemme: questa città, situata in posizione fortissima a dominio della bassa valle del Giordano, era rimasta fino allora in potere dei Gebusei, popolazione, a quanto sembra, di origine hittita. David riuscì ad espugnarla e non solo vi stabilì la sua residenza in una fortezza imprendibile (la "città di David"), ma ne fece anche il centro religioso della nazione trasportandovi l'arca santa, che da palladio ambulante dei tempi del nomadismo era stata deposta nel santuario di Silo, ed era stata poi conquistata dai Filistei e ripresa da David. Con questo atto David aumentava straordinariamente il proprio prestigio e poteva tenere sotto il suo controllo l'elemento sacerdotale, del quale egli seppe abilmente evitare così la preponderanza come l'ostilità. Ormai indipendente e sicuro nel suo regno, intraprese una vigorosa politica di espansione, e successivamente tutti gli stati confinanti, vinti da lui, vennero ridotti a suoi tributarî e incorporati nel suo sistema politico: il dominio sul territorio degli Edomiti ancora seminomadi a sud gli aprì la strada alla costa del Mar Rosso; quello sugli Ammoniti e Moabiti a est gli assicurò i confini dalle periodiche invasioni provenienti dal deserto e gli fornì ricco tributo di bestiame ovino; con l'alta sovranità sui varî stati aramei a nord estese la sua influenza fino al cuore della Siria; finalmente strinse accordi con Tiro, allora egemonica tra le città fenicie, traendone vantaggi commerciali. Infatti, ristabilita la sicurezza del transito, la Palestina riprese la sua funzione naturale di arteria del commercio tra l'Egitto e la Siria e Mesopotamia, dal che le venne un rinnovamento di prosperità economica e d'influssi culturali. Questo grado di potenza e di prosperità, che gli Ebrei non conobbero più in seguito, spiega la vivacità dei ricordi legati al regno di David e alla sua persona, in cui la posterità vide, con rimpianto e speranza, l'ideale della grandezza d'Israele.
Tuttavia il potere di David era ben diverso da quello di un monarca assoluto, né il carattere sacro che gli veniva dall'unzione era sufficiente a superare l'innato spirito egualitario delle tribù. Se, con accorta precauzione, egli si era assicurata una guardia personale composta di antichi compagni d'armi e di mercenarî stranieri (i famosi Krēthīm u Felēṭīm, nel cui nome si è veduta una conferma dell'origine cretese dei Filistei), il nerbo delle sue forze armate era pur sempre costituito dalle milizie delle tribù, devote ai loro anziani più che al re e sempre pronte alla sedizione; la non mai sopita rivalità fra le tribù settentrionali e meridionali (che egli tentava per vero di sedare, favorendo, egli giudeo, le tribù israelitiche) gli preparava difficoltà e pericoli; i partigiani della dinastia di Saul, non tutti spenti, aspettavano l'occasione di ribellarsi. E la complicata vita della piccola corte, con le sue sorde lotte e gl'intrighi tra le numerose mogli del re e i figli nati da esse, con le gelosie tra i capi dell'esercito, era anch'essa fonte di preoccupazione per il re. Cosicché nel suo lungo regno (i 40 anni di regno sull'intero Israele, dopo i primi 10 su Giuda, che la cronologia biblica gli attribuisce, non devono scostarsi troppo dalla realtà), e specialmente nella seconda parte di esso, David ebbe a far fronte a numerose ribellioni, di cui la più grave e la più dolorosa per il suo cuore fu quella del figlio Assalonne, che lo costrinse a rifugiarsi di là dal Giordano, donde però riuscì presto a ritomare vittorioso, mentre il ribelle, sconfitto, trovò la morte nella fuga.
Caratteristica di David è la sua fervida fede religiosa. Benché il suo regno segni l'avviamento del popolo ebraico dalla rozzezza di una civilta ancora semibarbara verso uno sviluppo economico e culturale superiore, esso ne è soltanto l'inizio, e, come tutte le altre manifestazioni della vita materiale e spirituale, anche la religione mantiene un carattere di semplicità. Certo il culto di Iahvè non era già più quello primitivo del deserto, ma esso non aveva ancora acquistato quel fasto sacerdotale che ebbe sotto Salomone, e David, soprattutto, dovette sentire lo spirito dell'antica religione nella sua semplice intensità originaria. La tradizione vuole, e forse coglie nel segno, che egli abbia resistito alla tentazione di fabbricarsi un tempio nella sua acropoli, pensando che il dio che lo aveva protetto nella sua vita randagia e avventurosa non voleva abitare sotto un tetto fabbricato da uomini. E, più che i sacerdoti, ebbero favore e influenza presso di lui i profeti, rappresentanti del iahveismo più autentico, in primo luogo Nathan. La schietta religiosità di David è anche efficacemente attestata dalla prontezza e dalla sincerità del suo pentimento: poiché questo grande uomo, uno dei caratteri più personali che la storia ebraica ricordi, non fu immune da debolezze e da colpe (tipica è la perfida insidia tesa al fedele Uria per sbarazzarsi di lui e acquistarne la moglie Bethsabea), ma sentì intensamente l'assillo del rimorso. La sua complessa natura era anche ricca di doti artistiche: da giovane aveva placato Saul al suono dell'arpa, e la commossa elegia per la morte di questo e di suo figlio Gionata (II Re [Samuele], I, 19-27) sembra doversi ritenere autentica. La raccolta (o meglio l'insieme di raccolte) di poesie religiose che la tradizione gli attribuisce e l'esegesi confessionale gli riconobbe (i Salmi) non è probabilmente sua. Alla critica radicale, che la collocava per intero in età postesilica e perfino maccabaica, è subentrato, presso alcuni, un giudizio più moderato che ravvisa in moltì salmi composizioni liturgiche connesse con funzioni religiose relative al re, il che spiegherebbe perché la tradizione ne abbia indicato come autore un re, e precisamente il più illustre di tutti e quello la cui ispirazione poetica era autenticamente accertata.
Salomone, figlio e successore di David (circa 960-935), ereditò un regno prospero e potente, ma non il genio militare e politico del padre. Designato alla successione mediante un intrigo ordito da sua madre Bethsabea con la complicità del sacerdote Sadoc e del profeta Nathan, tolse presto di mezzo il fratello maggiore Adonia, iniziando quella sanguinosa politica di stragi domestiche che è tipica delle corti orientali. E a una trasformazione del suo potere nel senso della monarchia assoluta del tipo egiziano e babilonese Salomone dedicò ogni suo sforzo, né gli mancò il successo. Da un rigido sistema fiscale, che funzionava mediante la ripartizione amministrativa del territorio sotto ufficiali regi, dai tributi dei popoli soggetti, dal monopolio del commercio estero trasse uno straordinario aumento delle entrate, e ne dedicò la maggior parte ad accrescere splendore alla sede regale; con l'aiuto di architetti e operai fenici costruì a Gerusalemme il proprio palazzo e il palazzo di Iahvè, il tempio, della cui costruzione e solenne inaugurazione è conservato un rendiconto minuzioso (III [I] Re, VI-VIII). Atteggiandosi sempre più a monarca orientale, Salomone si circondò di mogli e di concubine; sposò varie principesse straniere, con evidente scopo di alleanze politiche, e tra esse (e fu certo il suo più clamoroso successo di politica estera) la figlia del faraone (probabilmente Psusennes II, l'ultimo faraone della XXI dinastia). Strinse rapporti ancora più intimi che David coi Fenici e specialmente col re Hiram di Tiro, sia per averne aiuto di artefici e di materiali per le sue costruzioni, sia per lo sviluppo del commercio, e diede al suo regno uno sbocco sul mare con la costruzione, all'estremo del golfo di ‛Aqabah, del porto di Ezion Geber dal quale le sue navi, condotte da marinai fenici, si spinsero fino al favoloso paese di Ofir, donde si trae l'oro (Arabia meridionale o occidentale?). Tanto splendore e tanta ricchezza impressionarono fortemente i contemporanei, e la tradizione (III [I] Re, V, 1-14, X), certo con qualche esagerazione, magnifica il re potente e sapiente, onorato e visitato dalle genti più remote; e certamente il regno di Salomone ebbe copia e vastità di rapporti internazionali quali quello di David non aveva avute. Tuttavia la stessa tradizione biasima in lui l'introduzione di culti stranieri nel tempio e la prosecuzione dei riti paganeggianti nei santuarî locali, i "luoghi alti". E certo l'accrescimento del benessere materiale, i contatti sempre più stretti con civiltà più progredite dovevano portare ad allontanarsi sempre più dall'ideale sociale e religioso della vita del deserto. Ma anche da un punto di vista realisticamente politico il governo di Salomone segna l'avviamento verso la decadenza e lo sfacelo della compagine del regno: questo era di troppo recente creazione per sopportare agevolmente la radicale trasformazione della sua vita sociale ed economica e i pesi fiscali che la politica di magnificenza del re gli imponeva; la supremazia che David aveva saputo imporre ai vicini era troppo precaria per potersi mantenere senza una continua ed energica azione, che Salomone non seppe condurre. Sicché l'apparente accrescimento di potenza nascondeva un reale indebolimento: già durante la sua vita gli stati aramei si sottrassero al dominio ebraico costituendo una forte coalizione col centro a Damasco, e le tribù settentrionali iniziarono un movimento di ribellione, che fu però domato. Peggio andarono le cose dopo la sua morte.
Il figlio e successore di Salomone, Roboamo, volle mantenere, o inasprire, i gravami fiscali, e la ribellione delle tribù settentrionali si riaccese, sotto la condotta del suo antico capo, l'efraimita Geroboamo, rifugiatosi presso il faraone Shoshenq I e tornato in patria alla notizia del cambiamento di re, forse non senza l'aiuto del faraone, che certamente praticava nella Palestina, di cui s'intitolava sempre sovrano, una politica di divisione e d'indebolimento degli stati nazionali. Questa volta il movimento separatistico trionfò e le tribù del nord si costituirono in regno indipendente sotto Geroboamo; alla dinastia davidica non rimase che il territorio della tribù di Giuda e quello, piccolissimo, di Beniamino, sebbene il possesso di Gerusalemme e del tempio salomonico conferissero al piccolo stato un prestigio di gran lunga superiore alla sua estensione.
Il periodo dei regni di David e di Salomone non fu soltanto quello di una notevole per quanto effimera importanza politica del regno d'Israele, ma segnò anche uno straordinario sviluppo della sua vita spirituale. Di questo sviluppo, peraltro, rimane incerta la documentazione diretta, poiché la produzione letteraria attribuita a David è soggetta a cauzione, e ancor più quella, di carattere gnomico, attribuita a Salomone nel canone biblico (Proverbî, Cantico dei Cantici, Ecclesiaste): è tuttavia verosimile che la maggior parte delle tradizioni intorno alla preistoria ebraica abbiano preso consistenza e forse siano state fissate in quel torno di tempo in cui la coscienza dell'unità nazionale e l'orgoglio della supremazia sui popoli vicini dovevano stimolare, come sempre avviene, a raccogliere e a elaborare le memorie del passato per trarne motivo di legittimo compiacimento. Così, per es., nella "benedizione di Giacobbe" il superbo e pittoresco inno alla potenza e alla ricchezza di Giuda (Genesi, XLIX, io-12) difficilmente può riferirsi ad altra età che a quella in cui questa tribù era effettivamente a capo dei figli d'Israele; e alla stessa età apparterrà certamente la composizione delle storie in cui Giuda è considerato il primogenito dei figli di Giacobbe. Probabilmente anche la tradizione intorno agli Abramidi, con la sua concezione unitaria dei destini futuri del popolo ebraico, per quanto senza dubbio più antica nei suoi motivi fondamentali, avrà ricevuto il suo aspetto definitivo al tempo della dinastia unita, e allo stesso tempo o a tempi di poco più recenti apparterrà la redazione dei racconti della gesta gloriosa degli Ebrei nel loro viaggio attraverso il deserto (specialmente le profezie di Balaam, Numeri, XXIII-XXIV) e di quelli della conquista della Palestina. Ed è altresì verosimile che la fondazione del tempio di Gerusalemme, con la sua liturgia complessa e col suo fiorente sacerdozio, abbia contribuito in maniera decisiva a iniziare la raccolta della tradizione mosaica e la codificazione delle leggi cultuali. Sicché i caratteri fondamentali della civiltà ebraica si sono fissati in maniera definitiva sotto i regni di David e di Salomone. Ciò che a essa ancora mancava era quella profonda esigenza morale della vita religiosa, quello spirito fiero e aspro di protesta contro l'iniquità, che non potevano sorgere e svilupparsi nelle condizioni di benessere di quell'età e che furono il portato della crisi politica e sociale successa al breve periodo di splendore della monarchia.
Le monarchie separate di Israele e di Giuda. - La divisione dei due regni segna la fine della potenza politica degli Ebrei. Questa, sotto David e Salomone, non era stata certo quella di un grande impero: il territorio dell'intera Palestina, com'è noto, non oltrepassa i 30.000 kmq., e la sua popolazione non doveva, neppure in tempi di più intenso sfruttamento agricolo, superare di molto il milione; né l'insieme degli stati a essa soggetti, gran parte dei quali erano situati in territorio semidesertico, doveva fornire un contingente di moltó superiore. Tuttavia, in mancanza di un energico intervento nella politica della Siria da parte dell'Egitto e della Babilonia, lo stato d'Israele poteva esercitare l'egemonia in quella regione. Questa situazione favorevole cambiò interamente dopo la ribellione di Geroboamo: gli Aramei, come si è visto, si erano già resi indipendenti, e la loro coalizione non solo chiuse a Israele ogni via di espansione verso nord, ma anzi compromise la stessa sicurezza e integrità dei suoi confini e, capovolgendo la situazione creata da David, riuscì perfino a renderselo tributario. Dei due stati transgiordanici gli Ammoniti, fiaccati da David, non furono vicini molto pericolosi fino agli ultimi tempi della monarchia, ma i Moabiti, ripresa la loro indipendenza, furono spesso in lotta con Israele e con Giuda. Gli Edomiti tentarono a più riprese, e spesso con esito fortunato, di scuotere il dominio di Giuda. Ma soprattutto funesto fu l'intervento dell'Egitto: Shoshenq, il fondatore della dinastia libica (XXII) e il restauratore della potenza egiziana, il quale, come si è visto, aveva promosso e aiutato la ribellione di Geroboamo, riprese la politica di egemonia in Siria e in Palestina (come è documentato da una sua iscrizione) e prese e saccheggiò perfino Gerusalemme, come la Bibbia ricorda. Dei due regni ebraici quello d'Israele, di gran lunga più forte di quello di Giuda, fu però più spesso di questo soggetto a lotte interne e a frequenti cambiamenti di dinastia; in Giuda invece la discendenza davidica si mantenne ininterrotta, nonostante torbidi e congiure e detronizzazioni, fino alla fine del regno. Israele tuttavia, sotto alcuni re particolarmente intelligenti ed energici, ebbe alcuni periodi di prosperità.
La storiografia di questa età, come è già stato accennato, è quanto mai scarsa, essendo andate perdute le cronache reali di cui il testo biblico non conserva che magri estratti. Questi hanno tuttavia grande importanza, perché riferiscono per intero le liste dei re di Israele e di Giuda, col numero degli anni di regno e con continui sincronismi tra le due liste. Benché tali sincronismi non concordino interamente (il che in parte è dovuto a guasti nel testo, in parte a differenze nel computo dell'inizio dei singoli regni), esse consentono di stabilire con grande approssimazione la cronologia delle due dinastie, e alla lor volta alcuni sincronismi con gli annali assiri permettono di determinare la cronologia assoluta.
Il redattore dei Libri dei Re è soprattutto intento a notare la condotta dei re d'Israele e di Giuda riguardo al culto: i primi caddero fin dall'inizio nell'idolatria, poiché Geroboamo, per allontanare il popolo dal tempio di Gerusalemme, istituì a Bethel e a Dan il culto del vitello d'oro che già gli Ebrei avevano adorato nel deserto, e questo empio culto fu continuato da tutti i suoi successori. I re di Giuda rimasero fedeli al culto senza immagini di Iahvè nel tempio, ma peccarono anch'essi perché tollerarono nel tempio l'adorazione delle divinità straniere introdotte da Salomone e conservarono i santuarî provinciali, i "luoghi alti". All'infuori di queste notizie di carattere religioso e di schematiche indicazioni su perdite e guadagni territoriali dei singoli re, lo scrittore biblico non si cura della storia generale, e ben poco sapremmo intorno a questo periodo, se egli non avesse inserito nella sua opera copiosi e lunghi brani di carattere del tutto diverso, d'intonazione e di stile popolari, spesso veri capolavori di arte semplice e schietta, che narrano le azioni miracolose e le lotte titaniche dei profeti di Iahvè, campioni del suo culto esclusivo e avversarî implacabili delle divinità straniere. Che questi brani, appartenenti a un vero ciclo di "storie profetiche" facente forse parte un tempo di un'opera unitaria, contengano, come tutti i prodotti della storiografia popolare, gran parte di materiale leggendario, è ammesso dalla critica aconfessionale, e da tutti poi è riconosciuto che anche dove essi riproducono avvenimenti reali il loro punto di vista impedisce loro una visione obiettiva; tuttavia le frequenti menzioni di eventi pubblici e la vivace descrizione di caratteri e di costumi conferisce loro grande importanza storica.
La dinastia fondata da Geroboamo non durò a lungo: già suo figlio fu detronizzato e ucciso da Baasa, il cui figlio fu a sua volta ucciso da un suo cortigiano, Zambri (Zimri); costui però non riuscì a tenere stabilmente il regno, il quale, dopo un periodo di divisioni e di torbidi, venne riunito da Amri (Omri), intorno al quale poco ci è tramandato, ma che dovette essere uno dei maggiori sovrani d'Israele, a cui ridiede unità e sicurezza (caratteristico è il fatto che negli annali assiri Israele è chiamato "paese di Omri" anche dopo la caduta della sua dinastia); egli riprese il dominio di Moab ed esercitò l'egemonia su Giuda; soltanto nella lotta contro gli Aramei fu poco fortunato. Fondò Samaria in posizione centrale sull'altipiano efraimitico, che rimase capitale del regno fino alla sua fine e dove gli scavi hanno messo in luce cospicui avanzi d'una residenza reale. L'accresciuta potenza d'Israele consentì una ripresa di relazioni internazionali: il figlio e successore di Omri, Acab, sposò una principessa fenicia, Iezabel, figlia del re di Tiro Ittobaal (Ethbaal del testo biblico), e certamente ricavò dal matrimonio vantaggi politici, di cui si valse per intraprendere una vigorosa offensiva contro il re di Damasco Benhadad I (o Hadad‛ezer), cui Omri aveva dovuto cedere alcune città. Ma, dopo una prima vittoria di Acab, la lotta ricominciò, e Acab, nonostante l'alleanza (o meglio il vassallaggio) di Giosafat di Giuda, fu questa volta sconfitto e ucciso. Suo figlio Ioram (sempre in unione col re di Giuda, cui lo stringevano anche vincoli di parentela, avendo Giosafat per moglie una figlia dì Acab, Atalia) mosse contro il re Mesa di Moab, che gli si era ribellato: la spedizione, che ebbe a soffrire crudelmente la sete nel deserto, devastò il paese e strinse d'assedio Mesa nella capitale (o in un'altra cíttà importante), ma fallì nell'intento di espugnarla e dovette ritirarsi (secondo IV [II] Re, III, 27 in seguito al sacrificio che Mesa fece del suo figlio primogenito e alla conseguente ira divina scatenatasi sugli eserciti d'Israele e di Giuda: il rito crudele è avanzo del sacrificio cananeo dei primogeniti di cui si è detto sopra). Le lotte tra Moab e la dinastia di Omri sono anche descritte da una fonte indipendente dalla Bibbia, l'iscrizione in lingua moabitica del re Mesa (v.), il quale naturalmente accenna soltanto di volo alle sconfitte patite e si diffonde sulla vittoria riportata, che restituì l'indipendenza al suo regno. Da ciò risulta che i successori di Acab non seppero mantenere il grado di potenza raggiunto da lui; e anche gli Aramei, sotto la guida di Hazael di Damasco (figlio di Benhadad I), ripresero con successo l'offensiva mentre gli Edomiti scuotevano il dominio di Giuda. Della decadenza della dinastia di Acab profittò Iehu, uno dei generali di Ioram, per suscitare una ribellione e impadronirsi di Samaria, mentre il re, ferito, ne era lontano. L'usurpatore, ucciso il re, ne sterminò i figli, la madre, i parenti, nonché il re Ocozia (Achazia) di Giuda e un gran numero di suoi congiunti che si trovavano in territorio israelitico. Iehu non riuscì tuttavia a ristabilire l'equilibrio con gli Aramei; anzi, privato del soccorso del re di Giuda, dovette abbandonar loro tutto il territorio di là dal Giordano.
Alla storia della dinastia di Omri e alla sua tragica caduta sono strettamente connesse due grandi figure di agitatori religiosi: Elia ed Eliseo. Se da un lato essi appaiono i continuatori degli antichi veggenti, maestri di pratiche divinatorie e operatori di miracoli, d'altra parte assumono un aspetto nuovo, che li fa precursori immediati dei profeti del periodo successivo. Il profetismo in quanto fenomeno religioso non è particolare dell'ebraismo: nella stessa storia di Elia sono menzionati i profeti (nebī'īm, sing. nābī') del Baal fenicio, ed è quindi probabile che la religione cananea conoscesse questa istituzione, la quale ci appare (come del resto anche in alcuni antichi profeti ebrei, per es. in Samuele) legata al sacerdozio e spesso confusa con esso; il nābī'si distingue dal sacerdote soltanto perché è anche interprete della volontà divina, rivelata attraverso sogni e visioni o forme estatiche. I profeti di questo tipo costituiscono delle corporazioni in cui le pratiche con le quali l'ispirazione è provocata sono insegnate dai maestri ai discepoli, e consistono in cerimonie orgiastiche: danze e musica provocano il delirio profetico (così come avviene nelle odierne congregazioni mistiche musulmane). L'importanza e l'influenza dei profeti risulta evidente dalla parte che essi hanno avuta nell'istituzione della monarchia e nei loro rapporti frequenti coi sovrani (non soltanto ebrei, ma anche aramei, come è attestato sia dai documenti biblici su Elia ed Eliseo sia dall'iscrizione del re Zakir di Ḥāmāh del sec. IX a. C.). Quanto di simile e quanto di diverso vi fosse tra il nābī'cananeo e il "veggente" dell'antico Israele è difficile dire, perché quest'ultimo, nello stato attuale della tradizione, non ci appare nel suo aspetto primitivo; ma sembra certo che una parte almeno dei veggenti ebraici, se pure accomunati nella venerazione popolare coi nebī'īm ed esercitanti, in sostanza, funzioni analoghe a questi ultimi, conservarono un tipo di religiosità al quale rimase estraneo l'influsso cananeo, e in particolare si mostrarono contrarî all'abbandono dei costumi del nomadismo e alla pratica del sacrificio sacerdotale. È tratto frequente di questi profeti il respingere la vita cittadina, il frequentare i luoghi solitarî nei quali ricevono l'ispirazione diretta di Iahvè, dio del deserto, e talora l'astenersi dai prodotti tipici della civiltà, quali le vesti tessute, il vino, il rasoio (un'altra forma parallela di questo voluto arcaismo è il nazi-reato, da nāzīr "votato", di cui parla già la legislazione mosaica). Un esempio caratteristico di tale tendenza è dato da Ionadab, figlio di Recab, che ebbe una parte decisiva nella ribellione di Iehu contro Ioram, il fondatore di una setta ascetica ancora fiorente più di due secoli dopo. A questi tenaci assertori dello iahveismo integrale l'adattamento della religione ebraica ai culti cananei appariva abominevole; non tale esso appariva al sentimento popolare, che sentiva in questi culti una maggiore aderenza alla propria vita quotidiana, e tanto meno ai re, che vi scorgevano un aumento del loro fasto sovrano e una manifestazione di progresso della vita civile, e ai sacerdoti (nonché a quei profeti che operavano nell'orbita del sacerdozio), per i quali anzi il sacrificio praticato nei santuarî e nel tempio costituiva la manifestazione normale della devozione religiosa. Neppure il famoso vitello d'oro (il quale del resto piuttosto che un'immagine corporea della divinità doveva rappresentare, come mostrano analogie di altri culti siriaci, la cavalcatura su cui veniva a posarsi, nel santuario, il dio invisibile) veniva considerato come un'infedeltà a Iahvè, e l'ammissione, accanto al culto del dio, di quelli di altre divinità subordinate rientrava nella linea normale dello sviluppo delle religioni orientali, tendenti a costituire un pantheon di divinità numerose sotto l'egemonia del dio nazionale. Il popolo ebraico, come aveva trasformato le proprie condizioni materiali, così trasformava la rappresentazione che esso si faceva del proprio dio e la maniera di adorarlo, senza per questo aver coscienza di abbandonarlo e di tradirlo.
Nell'incomprensione tra queste due diverse concezioni sta il dramma della storia religiosa, e di riflesso politica, degli Ebrei. Elia, terribile rampognatore dell'infedeltà di Acab, lotta strenuamente contro il culto del Baal fenicio introdotto da Acab per influenza della moglie (ossia come manifestazione ideale di solidarietà con Tiro alleata: il che del resto aveva già fatto Salomone a Gerusalemme); Eliseo, suo discepolo, ne segue le orme. I re innanzi ai quali questi due profeti compaiono li odiano e cercano di disfarsene, ma al tempo stesso temono l'ira del popolo che venera in loro i possenti taumaturghi, ed essi stessi, che non disconoscono la potenza di Iahvè operante in loro, li rispettano e talora ne invocano l'aiuto. Nel loro zelo infaticato per la causa di Iahvè, i profeti minacciano sventura ai trasgressori, e non si peritano di riconoscere che la vendetta divina si serve come di suo strumento dell'opera dei re stranieri (talora perfino ne provocano o almeno ne favoriscono l'intervento), ai quali quindi si mostrano spesso benevoli, superando così il sentimento nazionalistico che identifica l'interesse dinastico con la causa della giustizia. Del resto il concetto stesso della monarchia, prodotto dell'incivilimento e imitazione d'istituzioni straniere, repugna a questi fanatici ammiratori dell'ideale nomade, che non conosce differenze gerarchiche fra i membri della tribù; avversarî dei re e dei potenti e sostenitori dell'eguaglianza umana, i profeti si fanno campioni degli umili e degli oppressi. La storia patetica della vigna di Nabot agognata da Acab desideroso di dare un'ampia visuale al suo palazzo, il legittimo proprietario della quale paga con la vita la resistenza al capriccio reale, è tipica a questo riguardo: il profeta predice, e l'avvenire conferma, che la dinastia maledetta perirà nello stesso luogo in cui l'atto tirannico è stato compiuto (qualche cosa di analogo si osserva già nel rimprovero di Nathan a David per l'uccisione di Uria e l'adulterio con Bethsabea). A questo modo la causa di Iahvè viene a identificarsi con quella della giustizia, e la legge divina è concepita essenzialmente come affermazione di moralità.
Quando Iehu assunse il regno attraverso la congiura nella quale ebbe parte lo stesso Eliseo e che si conchiuse con l'abolizione del culto fenicio (non però con quella dell'idolatria samaritana), le condizioni politiche dell'Asia anteriore erano già profondamente mutate e l'impero assiro aveva già iniziato la sua marcia verso occidente, mirando alla sottomissione completa del territorio tra l'Eufrate e la costa del Mediterraneo. Alle ripetute spedizioni assire in Siria gli stati aramei opposero una lunga e valida resistenza, ma finirono col soccombere dinnanzi alle forze preponderanti del terribile avversario. Naturalmente anche il regno d'Israele fu implicato nella lotta, e già sotto Acab entrò, forzatamente alleato al re di Damasco, nella coalizione antiassira. Appunto i successi degli Aramei contro gli Assiri permisero ai primi, dopo rotta l'alleanza con Acab, di sottomettere gran parte del territorio d'Israele. Pertanto Iehu cercò aiuto presso gli Assiri, e si dichiarò tributario di Salmanassar III (tale infatti appare nell'obelisco di questo re, dell'842 a. C.). Ma Hazael di Damasco, vittorioso contro gli Assiri, ridusse all'impotenza completa il successore di Iehu, Ioachaz, imponendogli il disarmo quasi totale. A Gioas, successo a Ioachaz, riuscì di riacquistare l'indipendenza e il territorio perduto profittando di una vittoria degli Assiri su Damasco, e anche Giuda ritornò sotto l'egemonia d'Israele. La situazione migliorò anche più sotto Geroboamo II, quando, vinti ancora gli Aramei dagli Assiri, il re d'Israele poté sottomettere di nuovo i Moabiti.
Nel frattempo il regno di Giuda aveva traversato tempi procellosi. La regina Atalia, figlia di Acab, si era impadronita del trono, tentando forse di far fronte, dopo la strage della sua famiglia in Israele, alla dinastia usurpatrice di Iehu; ma, dopo pochi anni, una congiura ordita dal gran sacerdote la tolse di mezzo e mise sul trono un nipote di Atalia, il bambino Gioas. Questi nel suo lungo regno rimase vassallo d'Israele; il suo successore Amasia, che felici successi contro gli Edomiti avevano indotto a dichiararsi indipendente, fu umiliato e vinto da Gioas d'Israele. Un risollevamento notevole si ebbe sotto Azaria (variante Ozia) il quale, sembra, in seguito a un accordo col re d'Israele riebbe la piena indipendenza e riuscì a tenere il territorio di Edom, riattivando il porto salomonico sul Mar Rosso.
Sennonché la pressione dell'Assiria, la quale, fattasi più forte sotto il grande re conquistatore Tiglatpileser III (IV), aveva indotto Menahem re d'Israele a dichiararsi tributario, parve insopportabile a Facea (Pekah), anch'egli usurpatore del regno a danno del figlio di Menahem, il quale si alleò con Damasco e mosse guerra a Giuda, poiché esso si rifiutava di entrare nella coalizione antiassira. Ma questa finì disastrosamente: Damasco fu presa dagli Assiri e spopolata; Israele fu invaso e il suo territorio mutilato. Un'altra rivolta soppresse Pekah e gli sostitui Osea, che si sottomise all'Assiria; in ciò l'aveva preceduto Achaz di Giuda, che spinse la sua dedizione fino a introdurre nel tempio culti assiri. Ma, avendo Osea rifiutato il tributo, gli Assiri decisero di sopprimere definitivamente anche quanto rimaneva del regno d'Israele: Samaria assediata per tre anni da Salmanassar V e poi da suo figlio Sargon, resistette gagliardamente, ma finì col cadere (722), e fu trattata spietatamente, come risulta dagli stessi documenti assiri: la classe abbiente della popolazione fu deportata in Mesopotamia (secondo il sistema assiro per fiaccare le resistenze più aspre, già usato per Damasco); il territorio d'Israele venne parzialmente ripopolato con coloni tratti da varie parti dell'immenso impero assiro. Queste misure distrussero per sempre la compagine nazionale israelitica: dei deportati nessuna traccia è rimasta in seguito; ed essi furono certamente assorbiti gradualmente dalle popolazioni tra le quali erano stati stanziati. Né i nuovi abitanti dell'ex-regno d'Israele, per quanto finissero con l'assimilarsi al fondo della popolazione rimasta in patria e con l'assumerne in parte le credenze e il culto, furono mai in grado di assurgere a una qualsiasi importanza politica e culturale. Soltanto dopo quasi tre secoli, e sotto l'influsso della religione di Gerusalemme, si affermò colà una comunità religiosa ebraica, giudicata peraltro eretica dai Giudei, i Samaritani.
Gli ultimi tempi del regno d'Israele furono, come si è visto, di profondo turbamento politico, cui si accompagnarono naturalmente gravi crisi economiche e sociali. Di tutto ciò si ha traccia in alcuni degli scritti più singolari e più importanti che la letteratura mondiale abbia conservati: i libri profetici (per il loro elenco completo e le questioni storico-letterarie v. bibbia; profeti e le voci relative ai singoli profeti). Benché giunti a noi in uno stato poco soddisfacente, essi ci tramandano integra l'espressione della loro passione religiosa. Alla seconda metà del sec. VIII appartengono Amos, Osea, Michea, i quali, mentre annunziano l'ineluttabile fato del regno, ne vedono la causa nella disobbedienza del popolo d'Israele ai comandi divini, disobbedienza che non consiste già nell'aver trascurato preghiere e sacrifici, ma nell'aver tradito l'intima essenza della religione di Iahvè. Anche per essi, come per i grandi profeti del sec. IX ma con maggiore intensità di accento e con sentimento religioso e morale più raffinato, non le forme esterne del culto hanno efficacia presso Dio, bensì la purezza del cuore e la giustizia delle azioni; anch'essi protestano contro le usurpazioni commesse dai ricchi e dai potenti, contro quella che essi chiamano, riprendendo e approfondendo un antico motivo della tradizione nazionale, l'infrazione del patto stretto tra Iahvè e il popolo d'Israele. La religione dei profeti è soprattutto religione di popolo: i problemi sociali preponderano in essi su quelli individuali (o meglio questi sono sentiti in funzione di quelli), e perciò, pur non essendo politici in senso stretto, anzi negando ogni valore effettivo alla politica in nome di un principio superiore di moralità, la loro azione è in continuo e stretto rapporto con la vita pubblica. Manca loro, sia che non lo comprendano sia che lo sdegnino, ogni riguardo per le contingenze quotidiane, ma hanno la visione sicura dell'avvenire riservato alla loro predicazione e presagiscono il giorno nel quale il giudizio di Dio verrà a giustificarla e a confermarla.
Benché i profeti si pongano dal punto di vista nazionale, la considerazione dei peccati del popolo contro la religione di Iahvè fa sì che Israele venga a essere collocato sullo stesso piano dei popoli stranieri che non conoscono il vero Dio. Anche questi sono peccatori al pari d'Israele, anche contro di loro si scatenerà l'ìra divina. Così l'orizzonte del profeta si allarga: egli si erige ad accusatore dell'umanità intera in quanto questa si sottrae alla legge divina, e questa legge, dapprima strettamente nazionale, va assumendo il valore di norma universale. Di tale atteggiamento si aveva già, come si è visto, qualche traccia presso Elia ed Eliseo, ma soltanto nei profeti del sec. VIII esso assume piena coscienza di sé e giunge a formulare il principio del monoteismo universalistico.
La caduta del regno d'Israele, comunque potesse essere accolta dai contemporanei del regno di Giuda che lo consideravano nemico benché fratello, fu fatale anche ad esso. A dir vero il piccolo regno giudaico, ridotto ormai a tributario regolare dell'Assiria, si mantenne per quasi un secolo e mezzo, ma la sua posizione divenne sempre più precaria, la sua indipendenza sempre più menomata e insidiata. L'estensione del dominio assiro sulla Siria e sulla Palestina settentrionale faceva della Giudea lo stato cuscinetto tra l'Assiria e l'Egitto, mentre d'altra parte la morte di Sargon e le conseguenti ribellioni scoppiate tra i vassalli del regno di Assiria sotto il suo successore Sennacheribbo fecero nascere in molte città della costa fenicia e nel re di Giuda Ezechia la speranza di potere scuotere il giogo assiro con l'aiuto dell'Egitto. Ma Sennacheribbo, domata la ribellione della Babilonia, entrò rapidamente in Siria, batté un esercito egiziano e sottomise le città fenicie (70r); quindi, invaso il territorio di Giuda, lo devastò con la crudeltà metodica propria degli Assiri, venendo a porre l'assedio a Gerusalemme. Ezechia si sottomise pagando una forte indennità, ma sembra che questa spedizione, che gli annali assiri riferiscono tacendo o attenuandone le vicende sfavorevoli, non finisse con un successo completo. Il racconto biblico (IV [II] Re, XIX, 35), che offre strette analogie con quello di Erodoto (II, 141), parla della distruzione improvvisa dell'esercito che assediava Gerusalemme per opera di un angelo sterminatore; in realtà Sennacheribbo dovette ritirarsi in fretta, forse perché non preparato a sostenere una ripresa offensiva degli Egiziani, forse perché richiamato in patria da nuove ribellioni. Comunque, la liberazione di Gerusalemme apparve come un singolare favore divino, tanto più apprezzato in quanto Ezechia aveva seguito una politica religiosa contraria ai culti stranieri e idolatri (distruzione del neḥushtān, il serpente di bronzo che la tradizione riattaccava a un'istituzione mosaica) e aveva prestato ascolto ai consigli d'Isaia, la più grande figura del profetismo ebraico e il più antico dei profeti di Giuda di cui siano conservati gli scritti. Ma il figlio e successore di Ezechia, Manasse, nel suo lunghissimo regno fu interamente sottomesso agli Assiri, la cui potenza andava sempre più crescendo sotto i successori di Sennacheribbo, Asarhaddon e Assurbanipal, finché quest'ultimo raggiunse il fine supremo dell'imperialismo assiro con la conquista dell'Egitto (663), che tolse a Giuda ogni speranza d'indipendenza. A Manasse la tradizione biblica attribuisce la persecuzione dei profeti e il ripristinamento di tutte le forme paganeggianti del culto, compresa l'istituzione o restituzione nel tempio, della prostituzione sacra che suscitava particolarmente lo sdegno dei profeti. In queste misure deve vedersi sia il tentativo di acquistar favore presso i fedeli dei culti cananei, scontentati dalla politica religiosa di Ezechia, sia soprattutto il desiderio di mostrarsi fedele agli Assiri (molte delle innovazioni religiose di Manasse, specie i culti di carattere astrale, erano di modello assiro) e l'influenza della civiltà di questi. La politica di Manasse, forse la sola che gli fosse consentita dalla situazione internazionale, prolungò di mezzo secolo la vita nazionale di Giuda, ma dopo la sua morte fu sconfessata dal popolo e dai sacerdoti, i quali, deposto e ucciso suo figlio Amon, proclamarono re il figlio diciottenne di questo, Giosia, al nome del quale è legata da un lato la penultima catastrofe politica del popolo ebraico, dall'altro la più importante riforma compiutasi dopo l'erezione del tempio salomonico, le cui conseguenze sono state decisive non solo per la religione ebraica ma per quella dell'intera umanità.
Sotto l'influsso dei sacerdoti e dei profeti, questa volta uniti nella difesa del culto nazionale contro le intrusioni straniere, Giosia decise non soltanto di abolire i culti introdotti da Manasse, ma anche di purificare il tempio di Gerusalemme da ogni forma di culto che non fosse quello di Iahvè, senza immagini e senza divinità subordinate, e di accentrare in esso ogni forma di culto esterno, sopprimendo i santuarî provinciali e trasferendo al servizio del tempio di Gerusalemme i sacerdoti di essi. Questa radicale riforma fu promossa dal rinvenimento, nel 622, nelle fondamenta del tempio messe allo scoperto da un lavoro di restauro, di una legge religiosa attribuita a Mosè, che prescriveva appunto l'unità di culto.
La critica è quasi unanime nel ritenere che la legge scoperta e pubblicata sotto Giosia sia il Deuteronomio (v.), benché siano discordi i giudizî intorno all'origine del testo e alla sincerità della scoperta. A molti appare probabile che la redazione della legge sia contemporanea di Giosia, ma anche in tal caso essa non va ritenuta una composizione nuova, bensì una compilazione fatta su testi di varia età e di varia indole, costituenti verosimilmente la dottrina tradizionale dei sacerdoti di Gerusalemme, animata tuttavia dallo spirito nuovo e puro del profetismo, che si rivela soprattutto in alcune prescrizioni morali, improntate a un altissimo sentimento religioso e umanitario. Comunque sia, la legislazione di Giosia segna il punto di partenza di quella che sarà la caratteristica della religione ufficiale ebraica nell'età del secondo tempio, dal ritorno dall'esilio babilonese alla conquista romana. Un rigido monoteismo, il cui carattere arcaico è denotato dall'assenza completa d'immagini cultuali; i riti sacrificali accentrati nel tempio di Gerusalemme (la piccola estensione del territorio di Giuda consentiva tuttavia anche agli abitanti più lontani di recarsi facilmente al tempio nelle grandi ricorrenze festive) ed esercitati esclusivamente da un collegio ereditario di sacerdoti; il sacerdozio divenuto monopolio dei discendenti di Aronne e gli altri Leviti, sacerdoti dei santuarî provinciali, degradati a funzioni inferiori di servizio nel tempio. Il cerimoniale, preciso e minuzioso, doveva essere in sostanza quello dei culti cananei, ma raffinato e purificato da ogni elemento sensuale e feroce; vi prevalevano i riti di purificazione e di lustrazione; vi aveva gran parte la musica e il canto (salmi). Se anche questo tipo di culto, col suo formalismo rigoroso, non rendeva lo spirito più profondo della predicazione profetica, rispondeva ai postulati di monoteismo assoluto e di moralità da essa posti a fondamento della religione, e pertanto in esso si venne a quell'accordo tra sacerdozio e profetismo, che troverà la sua espressione tipica in Ezechiele.
Ma il re Giosia, nonostante le sue benemerenze religiose, non fu fortunato nella sua azione politica. La situazione internazionale si era frattanto complicata: alla riscossa nazionale dell'Egitto sotto Psammetico I e alla cacciata degli Assiri si accompagnarono, ad accelerare la rovina del grande impero già avviato alla decadenza, le invasioni dei Cimmerî e degli Sciti che devastarono l'intera Mesopotamia e penetrarono fino in Siria, e finalmente l'offensiva dei Medi e la ribellione dei Babilonesi. Sotto i colpi combinati di questi, l'impero di Assiria crollò (612), e il faraone d'Egitto colse l'occasione per prendere piede in Siria: Giosia gli mosse contro, non è ben chiaro se al servizio degli ultimi avanzi dello stato assiro o, come sembra più probabile, a quello dell'impero babilonese suo successore; ma a Megiddo venne totalmente disfatto e, ferito a morte, morì poco dopo. Giuda cadde in potere dell'Egitto, pur mantenendosi i suoi re; ma anche il dominio egiziano in Asia durò poco, per l'intervento dei Babilonesi: sconfitto a Qarqemish sull'alto Eufrate il faraone Necho II dal principe ereditario di Babilonia, Nabucodonosor (605), il crollo della politica egiziana fece passare Giuda sotto l'egemonia babilonese. Il piccolo stato, stremato dalle lunghe lotte e deluso dagl'insuccessi patiti (che forse una parte della popolazione attribuiva all'ira divina per la soppressione dei vecchi culti), sembra essersi rassegnato al suo destino, e uno spirito di sconforto e di scetticismo essersi diffuso tra gli Ebrei. Non ci è nota la ragione che spinse il re Gioachimo a ribellarsi; certo l'intervento punitivo del re babilonese fu immediato: Gerusalemme fu presa, il re (Gioacchino, successo nel frattempo al padre) deportato a Babilonia con gran numero dei cittadini più ricchi e degli artigiani (597). Il regno non fu del tutto soppresso, ma, disarmato e dissanguato, non poteva presentare nessun pericolo di futura disobbedienza. Tuttavia il re Sedecia, posto sul trono dallo stesso Nabucodonosor, credette di poter scuotere il giogo allorché il faraone Hofra (Apries) intraprese una nuova spedizione in Siria. Molte città fenicie (in primo luogo Tiro) e molti staterelli vassalli di Babilonia si unirono all'Egitto e la guerra fu questa volta singolarmente difficile per Babilonia. Ma il regno di Giuda non ne vide la fine, e cadde, vittima di secondo ordine del conflitto dei due grandi imperi. Gerusalemme, assediata nel 586, fu presa d'assalto e ridotta in rovine: in particolare furono distrutti il tempio e la residenza reale. Gli abitanti scampati al massacro furono deportati in Babilonia col re, che, fatto prigioniero prima della caduta della città in una sortita disperata, era stato accecato. A quanti rimasero nella desolata regione venne dato come governatore un connazionale, Godolia; ma, assassinato costui in un nuovo tentativo di ribellione, gran parte dei rivoltosi si rifugiò nel Basso Egitto. Ormai il territorio di Giuda, spopolato e impoverito, era destinato a imbarbarirsi per l'occupazione dei campi e dei pascoli abbandonati da parte dei Samaritani e delle tribù nomadi degli Edomiti e degli Arabi.
Come la storia di Giuda nei torbidi anni seguiti alla caduta del regno d'Israele è dominata dalla figura di Isaia, così nell'ultimo periodo della sua indipendenza vi spicca quella di Geremia. Aspro critico della politica dei re di Giuda (e uno di questi, Gioachimo, lo punì di prigione), severo censore, al pari dei suoi predecessori, sia delle colpe dei popoli stranieri sia di quelle del proprio, in cui l'idolatria si accompagnava alla spensieratezza di fronte al pericolo imminente, Geremia ha perduto ogni speranza di salvezza. Con cupa rassegnazione egli vede venire il castigo, e proclama solennemente che solo l'espiazione rimane al popolo infedele a Dio, che Iddio ha abbandonato definitivamente. Nel profondo pessimismo di Geremia si affacciano, non peranco affermati esplicitamente, alcuni dei principî religiosi i quali domineranno lo svolgimento ulteriore della religiosità ebraica: la giustificazione individuale, l'azione redentrice del castigo. Per questo suo caratteristico atteggiamento Geremia chiude la serie degli antichi profeti: quelli che verranno dopo di lui, durante e dopo l'esilio presentano un aspetto che li differenzia dai loro antecessori e mostra una trasformazione profonda nella religione ebraica.
L'esilio di Babilonia. - Con l'esilio di Babilonia la storia degli Ebrei in quanto stato nazionale è finita (salvo la parentesi dell'età dei Maccabei). Considerata nel quadro generale della storia dell'Asia anteriore essa non è che un episodio d'importanza secondaris di uno dei grandi movimenti migratorî dei popoli semitici che portò alla penetrazione nella Siria e nella Palestina, già semitizzate, di tribù nomadi, le quali, amalgamatesi con gli abitanti delle regioni invase, costituirono numerosi piccoli stati nazionali, destinati a essere gradatamente assorbiti nell'orbita politica e culturale dei grandi imperi egiziano, assiro, babilonese. Decine e decine di simili staterelli, sorti in condizioni analoghe a quello ebraico, ebbero vicende storiche simili, delle quali la scarsità delle fonti consente solo d'intravedere le linee generali: una maggiore abbondanza di notizie mostrerebbe senza dubbio analogie anche maggiori nello sviluppo sociale e politico, nella letteratura e nella stessa religione. Infatti la medesima fusione di elementi religiosi beduini e siro-cananei dovette aver luogo, come tra gli Ebrei, così presso gli altri popoli affini. E forse, se non ne fosse perduta interamente la documentazione, potrebbe perfino trovarsi anche altrove quel contrasto tra le vecchie e le nuove concezioni che impronta di sé la storia religiosa degli Ebrei. L'originalità eccezionale della storia ebraica sta in ciò, che, appunto nel periodo in cui la decadenza politica fu più rapida e più intensa, la coscienza religiosa di alcuni individui salì ad altezze spirituali ignote agli altri popoli, e affermò il valore eterno della giustizia e della moralità di fronte a quello effimero della forza materiale. Questo paradosso sublime fu di una piccola minoranza finché la situazione politica non ancora disperata richiamava l'attenzione dei più sui problemi della vita pratica e lasciava l'adito alla speranza di soluzioni favorevoli; ma quando la catastrofe della libertà ebraica ebbe fatto cadere ogni illusione, la fede predicata dai profeti rimase l'unico patrimonio e l'unico conforto dei vinti della vita. e si mantenne come affermazione solenne di un'incoercibile volontà di resistenza al male e di un'inestinguibile speranza in un avvenire migliore.
Da questa speranza nasce il messianismo, il cui sviluppo, complicato da elementi di svariatissima origine e natura, appartiene al periodo della storia ebraica posteriore all'esilio, ma i cui inizî si riscontrano già nei profeti preesilici (per quanto da alcuni si neghi l'interpietazione tradizionale di molti passi messianici e altri, il cui carattere è indubitabile, si vogliano ritenere interpolati) e la cui penetrazione nella coscienza ebraica avviene durante l'esilio. Esso si concreta nella speranza nel ritorno del regno di David, il cui ricordo glorioso costituisce il modello ideale a cui l'anima popolare si volge nella miseria attuale. Questo motivo, dapprima indipendente da quello del giudizio finale, in cui, partendo da antichi miti orientali, s'inserisce, animandoli di spirito nuovo, l'anelito di giustizia dei profeti, finirà poi, in una fase posteriore, con lo sposarsi a esso, costituendo, nell'escatologia apocalittica, uno dei momenti fondamentali della storia della religione.
Intorno alle vicende e alle condizioni degli Ebrei nell'esilio sono scarse le notizie positive: la maggior parte degli esuli fu stanziata in colonie, probabilmente agricole, sul basso Eufrate; altri nella stessa città di Babilonia. Le condizioni materiali degli esuli non dovettero essere troppo tristi, e la maggior parte dovette riuscire a occuparsi in lavori agricoli, industriali o commerciali. Lo stesso re Gioacchino, deportato nel primo esilio del 597, fu, dopo un lungo periodo di prigionia, liberato e trattato come ospite, con ogni onore, dal successore di Nabucodonosor, Evil Merodach (Amelu Marduk): sintomo questo di una politica di conciliazione verso le nazioni vinte. Tuttavia il senso di disagio e di umiliazione che non poteva mancare negli ambienti degli esuli, e soprattutto in quelli che avevano costituito la classe dominante del regno, doveva far loro desiderare intensamente il ritorno in patria. Se questa aspirazione avesse qualche probabilità di essere soddisfatta mentre sussisteva l'impero babilonese è impossibile dire; ma la caduta di esso sotto i colpi dei Persiani (539) trasformò la situazione degli Ebrei. Ciro, inaugurando una politica di tolleranza e di autonomie nazionali sotto la sorveglianza di funzionarî persiani, consentì la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (il rescritto che l'autorizza, conservato in Esdra, VI, 3-5, è stato spesso impugnato di falsità dalla critica, ma senza fondamento) e nel 538 un forte gruppo di esuli (la lista in Esdra, II, li fa ammontare a 50.000) prese la via del ritorno.
Durante l'esilio lo zelo religioso degli ambienti sacerdotali non solo non si spense per l'allontanamento dal tempio (il solo luogo dove, secondo lo spirito che aveva trionfato nella riforma di Giosia, si poteva adorare Iahvè), ma anzi s'intensificò al punto da indurli a elaborare e fissare la legislazione rituale e le memorie storiche del passato. Quanto dell'aspetto attuale dei testi biblici sia stato fermato durante l'esilio babilonese è arduo stabilire: se anche la parte legislativa dei libri mosaici (il cosiddetto "codice sacerdotale": vedi pentateuco) non sia stata tutta compilata durante l'esilio, non vi è dubbio che l'attività dei sacerdoti e dei leviti fu intensa in questo periodo. Ne è prova, tra l'altro, Ezechiele, il quale rinnova in questa età l'unione del sacerdote e del profeta, scioltasi, come si è visto, nello sviluppo della religione nell'età regia. Nella profezia di Ezechiele, le cui grandiose visioni preludono alla letteratura apocalittica, la prima parte, composta nella Babilonide tra la prima e la seconda presa di Gerusalemme, ha carattere e stile analoghi alle composizioni profetiche precedenti, e contiene come al solito rampogne contro i culti idolatri, previsioni di sventure per il regno di Giuda e per i popoli vicini. Ma la seconda parte, posteriore alla distruzione del tempio, contiene una visione dell'avvenire in cui il tempio stesso è veduto rifatto e restituito al culto in uno splendore non mai visto; e s'indugia con amoroso compiacimento a descriverne minutamente l'architettura, la disposizione interna, le cerimonie.
In questa speranza d'una restaurazione integrale, in questa gelosa cura di salvare dall'oblio ogni più minuta particolarità del rituale, si manifesta splendidamente quell'ostinato attaccamento alla tradizione che costituirà in seguito una delle caratteristiche del giudaismo. Ma esso rischiava di sopravalutare, come infatti fece, l'elemento estrinseco e formale della religione in confronto al suo più intimo contenuto spirituale e all'efficacia dinamica dei principî proclamati dal profetismo. I profeti avevano, da un lato, dichiarato l'inutilità, anzi la peccaminosità del culto esterno considerato solo per sé stesso, avevano dall'altro lato superato il nazionalismo religioso e affermato l'universalità della provvidenza divina. Questi motivi sono ripresi e svolti in appassionate effusioni liriche da un ignoto e altissimo poeta religioso la cui opera (se intera o frammentaria s'ignora) si ritiene aggiunta redazionalmente al libro di Isaia, così da essere passata nel canone sotto il nome di questo (Isaia, XL-LV), e la critica la chiama convenzionalmente "il Secondo Isaia". Composta per il momento in cui un gruppo di esuli si accinge a ritornare a Gerusalemme per riedificare il tempio, essa contiene il programma dell'ebraismo futuro, programma che non sarà di gretto egoismo nazionale, ma d'illuminazione benefica delle genti pagane, alle quali l'Israele rinnovato dovrà servire di guida e d'esempio. In questa aspirazione, che l'avvenire doveva avverare in una maniera immensamente più complessa di quanto certamente i contemporanei del Secondo Isaia potessero immaginare, è contenuta la missione dell'ebraismo nella seconda fase della sua storia.
Bibl.: Della sterminata letteratura sull'argomento (registratas annualmente in G. Krüger e W. Köhler, Theologischer Jahresbericht, II, Lipsia 1882 segg. e nei bollettini bibliografici delle riviste bibliche quali Biblica, Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft, ecc.) si ricordano solo alcune opere fondamentali o recenti: E. Renan, Histoire du peuple d'Israël, 3ª ed., voll. 3, Parigi 1887; J. Wellhausen, Israelitische und jüdische Geschichte, Berlino 1899 (8ª edizione 1921); B. Stade, Geschichte des Volkes Israel, voll. 2, Berlino 1881 (nella Storia universale dell'Oncken: trad. it.); R. Kittel, Geschichte des Volkes Israel, voll. I-II, 6ª ed., Gotha 1923-25, III, i, Lipsia 1929 (Handbücher zur alten Geschichte, I, 3: la più copiosa per raccolta di fonti e indicazioni bibliografiche); E. Selli, Geschichte des israelitisch-jüdischen Volkes, I, Lipsia 1924; S. A. Cook, in Cambridge Ancient History, voll. II, III (1925-1926); Ed. Meyer, Geschichte des Altertums, 2ª ed., II, i-ii Stoccarda 1928-1931; L. Desnoyers, Histoire du peuple hébreu des Juges à la captivité, voll. 3 (fino a Salomone), Parigi 1922-30; A. Lods, Israël des origines au milieu du VIIIe siècle, Parigi 1930 (L'évolution de l'humanité, XXXII; con ricca bibliografia); G. Ricciotti, Storia d'Israele, Torino 1932. Per le antichità bibliche: I. Benzinger, Hebräische Archäologie, 3ª ed., Lipsia 1927; A. Bertholet, Kulturgeschichte Israels, Gottinga 1919 (trad. francese, Parigi 1929); J. Pederse, Israels, its life and culture, Copenaghen 1926. Le fonti extrabibliche a scelta di materiale archeologico in H. Gressmann, Texte und Bilder zum Alten Trestament, voll. 2, 2ª ed., Lipsia 1926.
Dal ritorno dall'esilio alla distruzione del secondo tempio. - Gli Ebrei di Palestina fino al 70 d. C. - La colonia giudaica che, in seguito all'editto di Ciro (538 a. C.), si trasferì dalla Babilonia in Palestina ebbe a lottare contro gravi difficoltà derivate soprattutto dall'ostilità delle popolazioni che durante l'esilio dei Giudei ne avevano occupato il territorio, dai pochi Ebrei rimasti in esso, e dai popoli limitrofi. Suoi primi capi furono Zerubabel, discendente dal re David, e il sommo sacerdote Giosua. Il governo persiano, dopo qualche incertezza, finì per dare pieno appoggio agl'immigrati. Costruito il tempio e organizzata la comunità, specialmente per opera di Esdra e Neemia, venuti dalla Babilonia verso la metà del sec. V, con ampî poteri da parte del governo, il popolo s'impegnò a mantenersi fedele alla legge di Mosè, e vennero presi varî provvedìmenti sociali per migliorare e rinsaldare la compagnie del popolo. S'inizia quindi un periodo di circa un secolo per cui ci mancano quasi interamente le notizie. Lo stato giudaico, che godeva di ampie autonomie, era governato da una specie di aristocrazia a capo della quale stava il sommo sacerdote.
Pochissimo anche sappiamo dei tempi di Alessandro Magno, sotto il cui dominio passò la Giudea dopo la caduta dell'impero persiano: la tradizione ricorda i tempi di lui come anni di tranquillità per la Giudea. Lui morto, la Giudea fu teatro e oggetto di lotte fra i successori: alla fine essa venne in potere di Antioco III di Siria (198). Segue quindi un periodo di lotta pro e contro l'infiltrazione ellenica, che scoppiò viva e violenta durante il regno di Antioco IV Epifane. Questi tentò d'imporre l'ellenizzazione con la forza, vietò l'osservanza del culto ebraico, mandò eserciti contro la Giudea e intervenne anche personalmente. I conservatori, che si organizzarono sotto la guida dei figli del sacerdote Mattatia della famiglia degli Asmonei, tra cui specialmente famoso Giuda, detto il Maccabeo, riuscirono a riportare vittoria, rioccupando e riconsacrando, nel dicembre 165, il tempio, che i Siri avevano trasformato in santuario pagano. Morto Antioco, nuovi combattimenti ebbero luogo fra Siri e Giudei, finché ai Giudei venne garantita la libertà di attenersi alle norme della loro legge. Dopo la morte di Giuda (160), che aveva stretto alleanza coi Romani, i suoi fratelli Gionata e Simone che gli succedettero seppero abilmente trarre partito dalle lotte fra i varî pretendenti al trono di Siria, e riuscirono a ottenere la piena indipendenza della Giudea. Simone nel 142 divenne sovrano indipendente col titolo di sommo sacerdote e principe dei Giudei, e così s'iniziò il principato degli Asmonei, sotto i quali, dopo un periodo di lotte coi re di Siria ai tempi di Simone (ucciso nel 135) e del figlio di lui Giovanni Ircano, lo stato giudaico crebbe molto in estensione e potenza assoggettando anche alcune città greche di Siria. Esso fu però ben presto turbato dalle discordie fra i partiti, specialmente dei Farisei e dei Sadducei, che furono in modo particolare violente durante il regno di Alessandro Ianneo. Le lotte fra Aristobulo e Ircano, figli di Alessandro Ianneo, determinarono l'intervento romano. Riusciti vani i tentativi di conciliazione, Pompeo pose l'assedio a Gerusalemme, e vi entrò. Aristobulo e due suoi figli furono condotti a Roma prigionieri; moltissimi suoi partigiani furono messi a morte; Ircano fu riconosciuto sommo sacerdote, e gli fu dato il titolo di etnarca; la Giudea fu sottoposta a tributo (63). In seguito il proconsole Gabinio divise la Giudea in cinque distretti, governati ciascuno da un consiglio di notabili. In questo periodo la Giudea ebbe spesso a soffrire per la cupidigia della maggior parte dei procuratori romani. La costituzione di Gabinio fu poi abrogata in seguito alla politica ligia ai Romani seguita da un certo Antipatro, di origine idumea, che si guadagnò così i favori di Cesare e ottenne onori e uffici per sé e per i suoi figli, uno dei quali fu Erode. Questi riuscì a essere riconosciuto da Roma re di Giudea, vassallo dei Romani (v. erode). Alla sua morte (4 d. C.), la Giudea fu per alcuni anni travagliata dalle lotte fra i pretendenti alla sua successione, dai saccheggi e dalle violenze dei procuratori romani, tra cui Ponzio Pilato, sotto il quale ebbero luogo il processo e la condanna di Gesù, e da dissidî interni. Un breve periodo di relativo benessere è segnato dal regno di Agrippa I (41-44). Le cose mutarono in peggio dopo la sua morte, né migliorarono durante il regno di Agrippa II. La Giudea era in preda all'anarchia, percorsa da bande di malfattori, detti sicarî, e agitata da persone turbolente, mentre il governo romano era ogni giorno più odiato per la cupidigia e la violenza dei procuratori. Una insurrezione più violenta delle altre, nel 65, indusse l'imperatore Nerone a mandare contro la Giudea (66) Vespasiano, il quale, impadronitosi della Galilea e della Perea, penetrò in Giudea avviandosi a Gerusalemme. Morto Nerone, Vespasiano corse a Roma e l'impresa fu condotta a termine dal figlio di lui Tito, che, dopo lungo assedio, riuscì a vincere l'eroica resistenza degli Ebrei e s'impadronì della città e del tempio che venne arso (agosto 70). Gli Ebrei cessarono di costituire un'unità politica e si andarono sempre più sparpagliando fra i varî paesi. La storia degli Ebrei diventa la storia di varî nuclei di Ebrei materialmente separati, e spesso privi di rapporti reciproci, ma spiritualmente uniti dalla comunanza di tradizioni, di fede, di costumanze, di aspirazioni per l'avvenire.
La Diaspora ebraica fino al 70 d. C. - I luoghi nei quali abitavano certamente Ebrei in numero rilevante prima del 70 sono la Mesopotamia, la Persia, la Siria, l'Asia Minore, l'Egitto, la Cirenaica, la Grecia, la Macedonia, l'Italia. Specialmente notevole è la diaspora ebraica in Egitto. Nell'isola di Elefantina, presso le foci del Nilo, esisteva nel sec. V una numerosa colonia ebraica con un proprio tempio, nel quale si offrivano sacrifizî (v. elefantina). Ai tempi dei successori di Alessandro, un quartiere di Alessandria era destinato agli Ebrei, e, fra le varie sinagoghe, una splendida e vastissima fu da loro costruita. Un nuovo tempio fu costruito da un sacerdote Onia, fuggiasco da Gerusalemme ai tempi della lotta contro i re di Siria, nella città di Leontopoli, sul Delta del Nilo; esso venne, nel 73 d. C., chiuso dai Romani. Degli Ebrei di Persia nulla sappiamo all'infuori dell'episodio narrato nel libro biblico di Ester, d'una grave persecuzione decisa e poi non eseguita, ai tempi di un re che, secondo ogni verosimiglianza, è Serse. Nell'Asia Minore vi furono Ebrei almeno a partire dalla metà del sec. IV. Antioco III stanziò numerose famiglie, provenienti dalla Mesopotamia, in Lidia e Frigia. In Siria, a Damasco, si formò una setta ebraica che, secondo l'opinione che appare la più accettabile, fu costituita da fuggiaschi della Giudea ai tempi di Antioco Epifane.
In Italia, Roma ebbe popolazione giudaica almeno a partire dal sec. II a. C., ma si trattava probabilmente di popolazione occasionale: la prima espulsione, che ebbe luogo nel 139 a. C., pare riguardi appunto Ebrei che si trovavano in Roma per ragioni di commercio. Poco più tardi, certo fino dai primi decennî del secolo I a. C., popolazione ebraica stabile si trovava anche in altre città d'Italia. Gli Ebrei avevano diritti e doveri di cittadini, ma erano esentati da alcuni servizî che la legge ebraica impediva loro di prestare. Fecero proseliti fra i Romani e persino fra appartenenti alla corte e alla famiglia imperiale. V. anche diaspora.
La religione fino alla chiusura del canone biblico. - Più che singoli fatti o episodî (scisma samaritano, tempio di Leontopoli, origine delle sette, istituzione di feste, ecc.: su cui v. sopra e gli articoli speciali) si considererà qui il processo storico che conduce all'unificazione di culto e credenze, sotto l'impulso del fariseismo, nel giudaismo "normativo" o "rabbinico". In questo svolgimento, l'esilio non rappresentò una brusca interruzione, bensì la caduta dello stato ebraico favorì l'individualizzarsi della religione, con la piena affermazione della responsabilità e della retribuzione del singolo. Questa dottrina sollevò difficoltà, che appaiono chiarissime in Giobbe: perché deve soffrire il giusto? Era diffcile non cadere nel dualismo o non attribuire il male a Dio: a quest'ultima soluzione si opponeva il bisogno di concepire Dio come misericordioso, in stretta connessione con la dottrina della penitenza, che presuppone appunto la pietà di Dio per il peccatore che si converte. E la "penitenza" (o meglio "conversione" o "resipiscenza" teshubāh: "ritorno") è l'unico modo di redimersi dal peccato, cioè da ogni trasgressione della Legge. Rimaneva una via: concepire la retribuzione divina trasferita nell'oltretomba. La percorsero i farisei. La nuova escatologia si collocò accanto all'antica speranza messianica, che assunse gran varietà di forme, fino alla raffigurazione universalistica del "regno di Dio" come dominio effettivo di lui e della sua legge (cioè, dell'unica vera religione dell'unico Dio) su tutta la terra. Agli apologisti del monoteismo giudaico nel mondo pagano si pose perciò il problema dell'origine dell'idolatria: ma essi presentarono il giudaismo come un mistero, la cui soteriologia era la dottrina della penitenza; e questa, come condizione per l'avverarsi delle speranze messianiche. Ma i giudei ellenisti accolsero la dottrina greca dell'immortalità dell'anima (i farisei parlavano di "risurrezione dei corpi") e della trascendenza - in senso stretto - di Dio, onde la necessità d'intermediarî tra lui e il mondo: mentre il fariseismo esprime, con la frase "Padre nei cieli", una relazione personale (memrā "parola" shekintā (ebr. shekināh) "presenza"; yeqārā "gloria" sono in realtà metonimie per "Dio"). Allo stesso modo il fariseismo si oppone all'eccessivo impinguarsi dell'angelologia e della demonologia, e alla soverchia importanza data all'"avversario" (Satana; v.) di Dio: credenze accolte nella letteratura apocalittica apocrifa e con ogni probabilità d'origine straniera (persiana); finché non fu eliminata ogni traccia di pericolose tendenze dualistiche, quali esistevano presso alcune sette, come esseni e terapeuti, dediti a un rigoroso ascetismo (cfr. la recitazione di Isaia, XIV, 7 prima dello shema‛). Così gl'influssi stranieri e la varietà di tendenze - testimoniata dall'esistenza di numerose sette - vennero eliminati.
L'uniformità fu favorita dalla sinagoga - luogo di preghiera e di studio della Legge - la più caratteristica istituzione del giudaismo, completata dall'aula scolastica, beth ha-midrash, dove si formano gli "scribi" (sopherīm). Ma questa unificazione non avvenne senza altre lotte. Contro una sapienza tutta pratica (come in buona parte della cosiddetta "letteratura sapienziale") s'afferma il concetto che la "Sapienza" (anche personificata) è la Legge: così in Gesù Siracide, che esalta lo scriba ideale, ma anche il sommo sacerdote Simeone il Giusto. Ma lo scriba è un laico; mentre le classi sacerdotali si lasciarono abbastanza facilmente ellenizzare da Antioco IV, gli scribi sono sostenuti dai farisei, che più d'una volta, nei contrasti con gli Asmonei e nell'ambasciata a Pompeo contro Ircano e Antipatro (in realtà, contro il potere regio) manifestano le loro tendenze. Il vero re d'Israele è Dio; l'unica forma di governo possibile, la teocrazia (in senso etimologico).
Gli argomenti di dissenso tra sadducei (reclutati tutti nelle classi sacerdotali e più elevate, mentre i farisei hanno l'appoggio di varî ceti della popolazione) sono appunto la dottrina della risurrezione e l'accettazione della legge orale. Sotto questo aspetto, i farisei rappresentano l'elemento innovatore, che insiste sul valore della tradizione: ma la legge orale fu anch'essa rivelata a Mosè sul Sinai, e tramandata (secondo i Pirqē Aboth) da Esdra agli uomini della "Grande Sinagoga", da questi alle "paia" di scribi, fino a Shammai e Hillēl (al tempo di Erode) e alle scuole dei tannaiti, in Palestina e Babilonia. Tra legge orale e scritta non vi può essere contrasto: di ogni disposizione della prima si trova la base nella seconda. Rivelata, la legge ha tutta la stessa importanza; e va difesa, col crearle intorno una "siepe".
L'unificazione è completa, quando, imposta la credenza nella risurrezione come un dogma, i sadducei sono ridotti a una setta eretica; quando si compila la maggior parte delle preghiere, si stabilisce il ciclo delle letture bibliche e si cerca d'assicurare l'uniformità anche della traduzione aramaica (targūm) che rende i libri sacri intelligibili al popolo; quando, nella scuola riorganizzata, verso la fine della guerra contro Vespasiano, da Iohanan ben Zakkai a Iamnia (Iabneh), sotto la presidenza di Gamaliele II, si tronca la discussione tra le due scuole di Shammai e Hillēl, riconoscendo canonici l'Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici, apocrifi l'Ecclesiastico e le opere scritte dopo: tra cui il "Vangelo e gli altri libri eretici". L'unità raggiunta crea quella che si chiama la "comunità d'Israele" (letteralmente "sinagoga", Kenesheth): religione al tempo stesso universale e nazionale, l'unica tra quelle del mondo mediterraneo precedenti il cristianesimo (se si eccettuino gli scarsi avanzi dello zoroastrismo) che sia sopravvissuta fino ai giorni nostri.
Bibl.: W. Bacher, Die Agada der Tannaiten, I: Von Hillel bis Akiba, 2ª ed., Strasburgo 1903; I. Elbogen, Die Religionsanschauungen der Pharisäer, Berlino 1904; S. Schechter, Studies in Judaism, Londra 1908; id. Some aspects of rabbinical theology, Londra 1909; P. Volz, Jüdische Eschatologie von Daniel bis Akiba, Tubinga 1903; W. Bousset, Die Religion des Judentums im neutestam. Zeitalter, 2ª ed., Berlino 1926; H. Strack e P. Billerbeck, Kommentar z. Neuen Test. aus Talmud u. Midrasch, voll. 4, Monaco 1922-1928; J. Touzard, L'âme juive au temps des Perses, in Rev. biblique, 1916-1920, 1923, pp. 59-79; E. Sereni, Il libro di Tobit, in Ricerche Religiose, 1928-1929; G. F. Moore, Judaism in the Christian era, voll. 3, Cambridge, Mass., 1928-1930.
Dalla distruzione del secondo tempio all'inizio del Medioevo. - Gli Ebrei nell'Impero romano. - Anche dopo la distruzione dello stato, la vita ebraica continuò in Palestina con notevole intensità e con notevoli autonomie politiche. Il capo dell'accademia principale e del tribunale supremo, che continuò a esistere, prima a Iamnia, poi in altre sedi, ebbe il titolo di Nāsi' ("principe", ἐϑνάρχης; patriarcha), riconosciuto dal governo romano. Il patriarcato era ereditario in una famiglia che la tradizione affermava discendente, in linea femminile, dal re David. Al patriarca era, tra altro, riconosciuto il diritto esclusivo di fissare il calendario e a lui spettava nominare i giudici e varî altri funzionarî nelle comunità della Palestina; mandava messi (sheliḥīm, apostoli) alle comunità della dispersione, riscuotendo una tassa per il suo mantenimento. Seguì, fino all'impero di Traiano, se si prescinde da una persecuzione ai tempi di Domiziano, un periodo di pace. Le imprese di Traiano in Oriente determinarono agitazioni in varie provincie orientali: a queste presero parte gli Ebrei di Cirene, dell'Egitto e di Cipro, che si sollevarono contro Roma e contro i Greci. Anche in Palestina questi fatti ebbero la loro ripercussione, e sotto Adriano scoppiò una vera e propria rivolta determinata soprattutto dal fatto che l'imperatore emanò decreti che limitavano agli Ebrei la libertà di vivere secondo la loro legge. L'anima dell'insurrezione fu Aqībā ben Yōsēph, uno dei più illustri dottori di quel tempo; l'eroe della guerra che ne seguì fu Simone bar Kozibah (probabilmente dalla sua città natale), detto Bar Kōkĕbā (figlio della Stella; cfr. Num. XXIV, 17) perché da alcuni contemporanei ritenuto il Messia. Gl'insorti riuscirono a rendersi padroni di Gerusalemme (132), costruirono un altare e instaurarono il culto. Gerusalemme fu poi ripresa dai Romani (134) e distrutta, e sulle sue rovine venne edificata la città di Elia Capitolina, nella quale fu vietato agli Ebrei di risiedere. Gl'insorti si ritirarono a Biter, a SO. di Gerusalemme: dopo una lunga ed eroica difesa, anche Biter cadde, e si rinnovarono le stragi del 70. Adriano vietò la circoncisione, lo studio e l'osservanza della Legge: coloro che non tennero conto di questi ordini, e fra essi Aqībā, furono crudelmente messi a morte.
In seguito, se si prescinde da qualche particolare transitorio, la condizione degli Ebrei sotto i Romani non fu cattiva fino al prevalere del cristianesimo ai tempi di Costantino. L'attitudine dei primi imperatori cristiani e dei loro ufficiali fu ostile agli Ebrei. Atteggiamento opposto assunse Giuliano, che anzi promise la ricostruzione del tempio; pare che i lavori siano stati iniziati e poi interrotti da un incidente a cui si attribuì causa soprannaturale: la morte dell'imperatore fece sì che non si parlò più di riprenderli. Per quanto Teodosio I e Teodosio II abbiano riconosciuto il principio della tolleranza verso gli Ebrei, questi furono sottoposti a restrizioni giuridiche ed economiche di varia natura. Con la morte del patriarca Gamli'ēl VI (425) il patriarcato, che aveva perduto molto della sua importanza specialmente dopo che il patriarca Hillēl II (verso il 361) aveva dato le norme per un calendario fisso, cessò di funzionare, e le somme che annualmente gli venivano inviate dalle varie comunità dovettero essere pagate al fisco imperiale (429). Così venne a mancare l'ultimo avanzo di un'organizzazione nazionale ebraica e la Palestina cessò di essere il centro spirituale della diaspora ebraica.
Fin dai primi secoli a. C. popolazione ebraica numerosa si trovava in parecchi luoghi dell'Apulia e della Calabria: a Venosa Taranto, Capua, Napoli, Siracusa, Palermo, Agrigento, e, nell'alta Italia, a Ravenna, Aquileia, Bologna, Brescia, Milano, Genova.
Fuori d'Italia, è sicura o per lo meno assai probabile la presenza di Ebrei in Europa prima del 476 in Spagna, Francia, Germania.
Gli Ebrei in Persia, Mesopotamia e Arabia fino al prevalere dell'islamismo. - Numerosissima era la popolazione ebraica in Mesopotamia, dedita all'agricoltura e all'esercizio di varî mestieri: essa era particolarmente segnalata per essersi mantenuta pura da mescolanze con altre razze. Le comunità più importanti erano Nĕharde‛'ā, Nisibi (Nĕṣībīn), Māḥōzā, Pümbĕdīta, Sūrā, che divennero tutte sedi di famose accademie. A capo del giudaismo babilonese stava un esilarca, di famiglia discendente in linea maschile da stirpe davidica, che viveva come un vero e proprio sovrano, con la sua corte fastosa. Con l'andare del tempo, l'autorità degli esilarchi si fece, però, puramente nominale, e veri capi della popolazione ebraica in Babilonia divennero i capi delle accademie, detti Gĕ'ōnīm.
Il governo degli Arsacidi segna un periodo di calma e di benessere per gli Ebrei. I Sassanidi, fanatici segnaci della religione di Zoroastro, non di rado inflissero loro persecuzioni religiose.
Popolazione ebraica abbastanza numerosa si trovava in Arabia fin dall'età romana, e si accrebbe in seguito alle persecuzioni che gli Ebrei ebbero a soffrire in Babilonia. Essa era dedita all'agricoltura e al commercio, e in gran parte assimilata alla popolazione indigena. Nel sec. V il re di un piccolo stato di popolazione mista ebraica e sabea si convertì al giudaismo (v. dhū nuwās).
Il Medioevo. - Gli Ebrei nell'impero bizantino. - Giustiniano impose notevoli restrizioni al libero svolgimento della vita spirituale ebraica, e la stessa politica fu in genere seguita dai suoi successori. Con Leone I l'Isaurico s'iniziano tentativi di costringere gli Ebrei ad accettare il cristianesimo (721). La storia degli Ebrei nell'impero bizantino è una serie quasi ininterrotta di persecuzioni, umiliazioni e oppressioni. Ciò nonostante, essi riuscirono a dedicarsi con successo all'industria, specialmente alla fabbricazione della seta e della porpora. Tali condizioni durarono fino alla caduta dell'impero in mano dei Turchi (1453)
Gli Ebrei negli stati italiani. - Caduto l'impero d'Occidente la situazione degli Ebrei in Italia non mutò. Teodorico riconfermò i loro diritti, e concesse loro giurisdizione propria in materia civile. Tali condizioni rimasero inalterate al tempo del dominio dei Goti. Passata l'Italia sotto l'impero d'Oriente, si applicarono agli Ebrei le norme restrittive del codice di Giustiniano. Gregorio Magno favorì la conversione degli Ebrei mediante la persuasione; ma vietò le conversioni i forzate.
I particolari relativi alla storia degli Ebrei in Italia nell'alto Medioevo e nei primi secoli dopo il Mille sono pochissimo noti. A partire dal sec. XIII è sicura la presenza di Ebrei in quasi tutte le parti d'Italia. Nelle regioni subalpine vennero a stanziarsi molti degli espulsi dalla Germania e dalla Francia. In genere in Italia le persecuzioni contro gli Ebrei non assunsero mai le forme violente che si manifestarono in altri paesi.
Nel Concilio Lateranense, convocato da Innocenzo III nel 1215, venne stabilito per gli Ebrei l'obbligo di portare sugli abiti un segno per cui essi venissero facilmente distinti dalla popolazione cristiana, e confermato il divieto fatto agli Ebrei di tenere schiavi cristiani; furono emanate disposizioni restrittive riguardo al prestito a interesse, che costituiva una delle principali occupazioni degli Ebrei; veniva d'altra parte riconosciuto loro il diritto all'inviolabilità delle persone e degli averi; i crociati furono però spesso dichiarati esenti dal pagamento dei debiti verso gli Ebrei. Innocenzo IV si oppose decisamente alla calunnia di omicidio rituale di cui spesso furono accusati gli Ebrei, insulsamente incolpati di usare sangue cristiano per la preparazione del pane azzimo destinato alla Pasqua. I papi e altri principi d'Italia si servirono spesso di medici ebrei.
Più tristi si fecero le condizioni degli Ebrei con l'aumentare del potere dell'Inquisizione: nel 1321 il papa Giovanni XXI decretò la distruzione delle copie del Talmud esistenti nel suo stato. Durante la pestilenza del 1348-49, che in altre parti d'Europa segnò un periodo più acuto delle sofferenze degli Ebrei, questi furono, in Italia, relativamente tranquilli.
Molte citt., specialmente quelle dove il commercio era in fiore, chiamarono gli Ebrei perché vi esercitassero il prestito: così Venezia (1366), Firenze (1437), Mantova (1454), Milano (1465), nonostante l'opposizione di alcuni religiosi che favorirono l'istituzione dei Monti di pietà. L'espulsione degli Ebrei dai dominî aragonesi ebbe per conseguenza che essi dovettero, nel 1492, abbandonare anche la Sicilia e la Sardegna.
Gli Ebrei in Francia. - I primi re franchi trattarono gli Ebrei alla pari dei Romani, e, nonostante l'avversione che per essi dimostrava l'alto clero, i rapporti fra cristiani ed ebrei furono, nel complesso, intimi e cordiali. Sotto i Merovingi cattolici le condizioni degli Ebrei andarono peggiorando. Dagoberto espulse dal regno tutti gli Ebrei che non vollero accettare il battesimo (629). Essi rimasero nei distretti meridionali della Francia, soggetti ai Visigoti; ma nel 674 ne furono espulsi per aver preso parte alla ribellione contro il re Wamba. Non pare però che il decreto di espulsione sia stato eseguito alla lettera. Comunque, nel 720 gli Ebrei ritornarono insieme con i conquistatori arabi.
Il dominio forte dei primi Carolingi segna un periodo di benessere e di prosperità per gli Ebrei a loro soggetti: ai tempi di Carlo Magno e di Lodovico il Pio essi riuscirono a concentrare nelle loro mani quasi tutto il commercio d'importazione ed esportazione, e ottennero speciale protezione dal governo; le restrizioni imposte dai concilî rimasero per lo più lettera morta. Col decadere della potenza dei Carolingi e il conseguente aumento di quella dei feudatarî e del clero, alcuni privilegi vennero revocati, limitazioni alla libertà commerciale vennero imposte e non di rado la popolazione ebraica o i suoi capi dovettero subire atti umilianti da parte dei grandi del regno. La situazione rimase presso che invariata sotto i primi Capetingi. Migliori le condizioni nel sud della Francia, nella Provenza e nella Linguadoca.
Gli Ebrei di Francia furono, come quelli di Germania, assaliti dai crociati; però in Francia le stragi non furono così sanguinose, perché, più che contro la vita, le schiere dei crociati si scagliavano contro le sostanze degli Ebrei. Il papa Eugenio III, quando bandì la seconda crociata, dispensò i crociati dall'obbligo di pagare gli interessi dovuti agli Ebrei, e il re Luigi VII, dietro richiesta di Pietro di Cluny, autorizzò i crociati a depredare gli Ebrei. Lo spirito ostile agli Ebrei determinatosi durante le prime crociate continuò a farsi sentire anche in seguito: stragi, espulsioni e rapine si succedettero a brevi intervalli. Lo spirito che animò la lotta contro gli Albigesi si rivolse anche contro gli Ebrei; soprattutto essi ebbero a soffrire sotto il re Luigi IX. Egli indisse una disputa sul Talmud, rappresentato come un libro eretico e anticristiano, in seguito alla quale ordinò la distruzione di tutti gli esemplari del Talmud che si trovavano nel suo regno. Nonostante il tentativo di alcuni Ebrei che ricorsero al papa perché il giudizio fosse riveduto, la condanna fu confermata dal legato pontificio (1245). Il continuarsi di persecuzioni e di accuse di omicidio rituale indusse il papa Innocenzo IV a richiamare i principi a un maggior senso di giustizia e di umanità verso gli Ebrei; ma senza effetto: nel 1254 Luigi IX espulse gli Ebrei, e da questo momento la loro storia è un'alternativa di espulsioni con confische di beni, richiami, persecuzioni, spogliazioni, nuove espulsioni. Tra le persecuzioni è specialmente degna di nota quella del 1321, in seguito all'accusa mossa agli Ebrei di avere fatto avvelenare i pozzi. Finalmente, nel 1394, Carlo VI li scacciò completamente dal regno. Gli espulsi dalla Francia emigrarono in Germania, Italia e Polonia. A Lione rimasero però Ebrei fino al 1420.
Storia a sé hanno gli Ebrei di Provenza fino a che (1229) quasi tutta la regione passò sotto il dominio del regno di Francia. Essi vissero in ottimi rapporti col resto della popolazione, possedettero beni stabili e si dedicarono all'agricoltura e al commercio. Dopo l'espulsione degli Ebrei dalla Francia, alcuni degli espulsi si rifugiarono nelle parti della Provenza non soggette al regno di Francia. Si ha notizia di Ebrei in Provenza fino alla fine del sec. XV.
Gli Ebrei di Germania e dell'Impero. - In Germania notevoli stanziamenti di Ebrei prima del 1000 si ebbero a Colonia, Metz, Worms, Magonza, Praga, Magdeburgo, Merseburgo, Ratisbona. Essi si occupavano esclusivamente di commercio. Fino al trattato di Verdun (843), essendo la Germania unita all'impero franco, gli Ebrei di Germania seguirono le sorti di quelli di Francia. I primi Ottoni (936-983) posero gli Ebrei sotto la giurisdizione dei vescovi. Enrico II ordinò l'espulsione degli Ebrei da Magonza (1012): in tale circostanza alcuni Ebrei accettarono il battesimo. Ma la condizione degli Ebrei rimase, in complesso, buona fino all'età delle crociate. Le cose mutarono improvvisamente alla fine del sec. XI, quando fu bandita la prima crociata. Le bande dei crociati, aizzate da fanatici, presero ad assalire e a massacrare gli Ebrei. Si ritiene che oltre 50.000 ne siano caduti fra il maggio e il giugno del 1096. Il martirio ebbe termine col ritorno dall'Italia dell'imperatore Enrico IV, che prese gli Ebrei sotto la sua protezione e permise il ritorno all'ebraismo di coloro che erano stati battezzati per forza.
Ai tempi della seconda crociata (1146) si rinnovarono, ma con minore gravità e con più efficace opposizione da parte di autorità laiche ed ecclesiastiche, gli episodî di violenza della prima; la terza crociata non segna, per gli Ebrei di Germania, un periodo di particolari sofferenze. A cominciare dai tempi di Federico Barbarossa, essi, per mezzo del pagamento di una speciale tassa, ottennero di essere considerati come possesso personale dell'imperatore (schiavi della Camera imperiale). Così vennero a trovarsi in una speciale condizione giuridica: erano sottoposti alla giurisdizione diretta dell'imperatore che accordava loro, come a oggetti di sua proprietà, particolare protezione contro i soprusi dei grandi. Federico II accolse parecchi Ebrei nella sua corte, specialmente in Sicilia.
Nuove persecuzioni di Ebrei ebbero luogo in seguito all'invasione dei Tatari che, entrati in Russia e Polonia, minacciavano la Germania: gli Ebrei furono accusati di complicità con gl'invasori.
Anche in Austria e particolarmente a Vienna, dacché questa città era diventata un importante centro commerciale, vivevano numerosi Ebrei. Nel 1237 il duca Federico II li escluse da ogni ufficio e li dichiarò schiavi perpetui. Più tardi però (1244) emanò uno statuto per regolare la loro condizione, molte restrizioni vennero abrogate o mitigate, e fu accordata agli Ebrei giurisdizione civile propria. Questo statuto servì poi di modello per quelli in seguito emanati in Boemia, Moravia, Ungheria, Slesia, Polonia.
Il periodo d'interregno che seguì alla morte di Federico II (1250-1273) e quello del regno di Rodolfo di Absburgo e dei suoi successori registrano continue spoliazioni e massacri di Ebrei; la protezione imperiale, se pure qualche volta tentò di farsi sentire, riuscì per lo più inefficace. Le persecuzioni si fecero poi oltre ogni dire violente quando, scoppiata la terribile pestilenza designata col nome di "morte nera" (1348-1350), ne furono ritenuti colpevoli gli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi e le cisterne. In tutte le regioni della Germania, come pure di altri paesi, caddero a migliaia gli Ebrei. In questo tempo si fece più rigoroso l'obbligo imposto a questi di abitare in quartieri separati.
Ma, per quanto gli Ebrei fossero oggetto di odio e di sospetto, i principi e i vescovi ritenevano necessaria la loro presenza nei proprî dominî. Nella Bolla d'oro, emanata da Carlo IV nel 1356, gli elettori ottennero per sé il privilegio di tenere Ebrei e di tassarli. Subito dopo si tornarono a formare importanti stanziamenti ebraici nei luoghi che in seguito alle ultime persecuzioni ne erano rimasti privi.
L'indebolimento del governo centrale rese di mano in mano più precaria la condizione degli Ebrei. Nuove sanguinose stragi, espulsioni e spoliazioni ebbero luogo in molte città della Germania in seguito all'opera del domenicano Giovanni Capistrano, che, inviato dalla S. Sede per combattere l'eresia degli Ussiti, eccitò in pari tempo le popolazioni contro gli Ebrei; l'odio contro di loro si manifestò con particolare violenza quando gli Ebrei di Trento furono, in seguito alla predicazione del francescano Bernardino da Feltre, accusati di omicidio rituale di un bambino cristiano, di nome Simone, trovato morto sulla riva dell'Adige (1475), e che venne poi beatificato da papa Sisto V.