Genericamente, persona che, parlando per ispirazione divina, predice il futuro o rivela cose ignote alla mente umana; che ha cioè il dono della profezia. Questo appartenne anche alle donne (profetesse), come le Sibille.
Originariamente p. è colui che parla in nome della divinità e ne annuncia la volontà: così presso i Greci, nel cui ambito sorge il termine, è l’interprete degli oracoli, e anche presso gli Ebrei, più che un annunciatore del futuro, è un portavoce e un interprete di Yahweh; ma in tutti e due i casi predice anche l’avvenire, da cui il significato di veggente, indovino, che si precisò in seguito, e divenne prevalente, in connessione col fenomeno del profetismo. Il criterio per distinguere il p. da un sacerdote, indovino o stregone che ugualmente possono, in certe religioni, interpretare la volontà divina, sta nel particolare significato sociale del profetismo, nel fatto che il p. tende a influire sul modo di vivere e di agire del suo popolo e suscita movimenti di carattere religioso, morale e politico; d’altra parte, normalmente, il p. si distingue dal fondatore di religione per il fatto che egli agisce nell’ambito di una religione costituita.
Il fenomeno del profetismo così inteso si riscontra anche in alcune religioni non occidentali. Tra gli Indiani dell’America Settentrionale dalla fine del 17° sec. alla metà del 19° si sono avuti diversi movimenti originati da personalità profetiche che, richiamandosi a visioni avute, predicavano un ritorno ai costumi tradizionali e preconizzavano la nuova indipendenza degli indigeni e la scomparsa dei Bianchi. Uguale sfondo, in parte religioso in parte irredentistico, ha il profetismo che si è sviluppato nella Polinesia e nella Melanesia, sempre con il motivo escatologico di una futura età aurea senza i Bianchi.
La mescolanza di istanze politiche, sociali, morali e religiose, che è dunque caratteristica del profetismo anche in contesti sociali non occidentali, si ritrova ugualmente nei movimenti di carattere profetico nella Grecia antica, dove l’attività di singoli veggenti s’inserì nel processo di emancipazione degli strati meno abbienti della popolazione.
Un’importante e originale manifestazione di profetismo è quella che si trova nell’Antico Testamento. Alla base della missione profetica stanno l’ispirazione e la chiamata di Dio, spesso inattesa, o anche non voluta: vi sono casi in cui il p. appare riluttante alla sua missione. La vocazione ha carattere individuale; ma dai dati biblici risulta pure l’esistenza di corporazioni dei p. e la loro connessione con il culto regolare. Il profetismo pertanto si presenta nell’Antico Testamento sotto aspetti molteplici; ai quali va aggiunta la frequente distinzione tra veri e falsi p., connessa alla condanna di questi ultimi. L’Antico Testamento documenta l’esistenza di p. cananei, caratterizzati dal loro agire in uno stato di esaltazione psichica, del quale sono conseguenza atti come lo spargimento del proprio sangue. In questo precedente può trovarsi un inquadramento del profetismo ebraico e una chiarificazione di alcune sue forme: è indubbio tuttavia che, nel suo contenuto e nelle sue realizzazioni, esso attinse il più alto grado di originalità.
Le vie attraverso cui Dio si rivela ai p. ebrei sono i sogni e, soprattutto, le visioni: si tratta di azioni sulla fantasia, nelle quali la volontà divina appare sovente per simboli, o semplicemente di azioni sull’intelletto, nelle quali Dio parla e ingiunge di parlare senza l’ausilio di alcuna immagine. Conseguenza delle rivelazioni è lo stato di estasi, descritto accuratamente per alcuni p.: le forze vengono meno, le membra tremano, la vista si annebbia, il respiro manca prima che la parola divina trovi la via dell’espressione.
L’attività del p. si realizza nell’azione e nella parola: azioni simboliche attraverso le quali i p. fanno intendere al popolo quanto hanno in animo, parabole, che attraverso immagini tendono allo stesso fine, e infine oracoli, i cui p. direttamente esprimono quanto intendono. Gli elementi essenziali della predicazione sono: proclamazione dell’unico Dio; affermazione della giustizia e della moralità, sia individuali sia sociali; purificazione del culto; annunci di punizione, consolazione e redenzione universali.
Alla venerazione di cui erano circondati i p. si univano spesso la reazione e l’ostilità. La storia della monarchia ebraica, specie nell’età dei regni divisi, è spesso storia del contrasto tra potere politico e autorità carismatica dei p.; ed è indubbio che la conservazione del monoteismo ebraico attraverso il tempo si deve in gran parte all’ammonizione e al richiamo plurisecolare dei profeti. La tradizione ebraica considera Mosè come il primo p.; più tardi, nel periodo dei Giudici, attribuisce lo stesso titolo a Debora e a Samuele. Tuttavia, in senso stretto, si è soliti far cominciare il movimento profetico dal 9° sec. a.C., durante il quale agiscono nel regno d’Israele Elia ed Eliseo, cui si deve l’abolizione del culto fenicio sotto il re Iehu. Questi primi sono chiamati spesso p. attivi, in opposizione ai posteriori, a partire dall’8° sec. a.C., chiamati rapsodici o scrittori, perché si servono della parola e degli scritti per ammonire il popolo. I p. attivi, di cui abbiamo i relativi libri, sono: per il periodo precedente all’esilio babilonese (586 a.C.), Amos, Osea, Isaia, Michea, Nahum, Sofonia, Abacuc, Geremia e probabilmente Abdia; per il periodo dell’esilio (586-538 a.C.), Ezechiele e Daniele (che nel canone ebraico non è incluso tra i profeti); per il periodo successivo, Aggeo, Zaccaria e Malachia; di epoca incerta, Gioele. Tra i p. rapsodici emergono, per l’ampiezza e l’importanza delle loro rivelazioni, Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele: a loro va il nome di p. maggiori, in opposizione agli altri detti minori. Malachia, che agisce intorno alla metà del 5° sec. a.C., chiude la serie dei p. ebrei.
Nel cristianesimo primitivo la profezia, sia nel senso di ammonimento alla comunità sia nell’altro di predizione di eventi futuri, fu uno dei carismi più importanti, come si ricava specialmente dalle lettere di s. Paolo; e nello stesso canone del Nuovo Testamento è accolto un libro profetico, l’Apocalisse. Anche la letteratura apocrifa e quella apostolica sono ricche di elementi profetici, sia che vi si accenni al futuro della Chiesa, sia che vi si cerchi di precisare gli avvenimenti degli ultimi tempi. Ancora più vivo l’impulso profetico in alcune tendenze ereticali come il millenarismo (➔), che tentò di interpretare letteralmente profezie precedenti relative agli ultimi tempi, e il montanismo (➔), che, in fervida attesa degli ultimi tempi, rivalutò il carisma della profezia contro l’autorità della gerarchia.
Mentre il cristianesimo antico si chiude con la personalità di s. Agostino, avversario di ogni atteggiamento che evada dall’autorità gerarchica e pertanto ostile al profetismo, alle soglie del Medioevo Gregorio Magno sente sé stesso p., come annunciatore delle vicende degli ultimi tempi, che devono quanto prima realizzarsi. Si riaccende così la profezia non più come carisma, bensì come annuncio dell’imminenza del ritorno di Cristo e del suo giudizio, o anche come esame della propria epoca, intesa come età in cui già si realizzano i preannunci del giudizio divino. Tra il 6° e il 9° sec. compaiono, variamente rimaneggiate da testi greci, le opere profetiche di Metodio, pseudovescovo di Patara, e della Sibilla Tiburtina, e un numero cospicuo di operette minori, esortazioni e ammonimenti di ogni genere, che hanno avuto notevole importanza nella vita religiosa e politica dell’epoca.
Suggestioni profetiche si riscontrano tra le turbe della prima crociata e nei moti antisemitici della metà del 12° sec., che vide fiorire personalità profetiche di notevole rilievo come Ildegarda di Bingen. In una posizione particolare è Gioacchino da Fiore: nell’esame della ‘concordia’ del Vecchio e Nuovo Testamento e dell’Apocalisse, si eleva da una considerazione dello sviluppo religioso del popolo ebraico e del mondo cristiano a un vero e proprio ministero di p., nel senso biblico della parola, verso la Chiesa del proprio tempo e verso quello che sarà il suo futuro. A seguito dell’opera di Gioacchino il profetismo del Medioevo acquista, nel 13° sec., un’importanza di primo piano, divenendo elemento discriminante di controversie politiche e religiose.
Con il 14° sec. il grande profetismo tende a scomparire e nel 15° sec. si muta sostanzialmente in calcolo astrologico, provocando la dura reazione di Pico della Mirandola; a Firenze, da un lato il profetismo tende a essere razionalizzato da Marsilio Ficino, dall’altro si colora di estreme tensioni bibliche nella predicazione dell’ultimo grande p. del Medioevo, Girolamo Savonarola. Il profetismo si riaccese più tardi nei movimenti rivoluzionari che accompagnarono lo sviluppo della Riforma protestante (anabattismo, spiritualismo).
Insieme alle gerarchie angeliche, ai Padri e ai Dottori della Chiesa e ai santi, i p., rappresentati in gruppo (in contesto non narrativo), entrano a far parte dei programmi decorativi di edifici sacri nell’arte bizantina e occidentale. Hanno il rotulo o il cartiglio, che di solito riporta un brano del testo biblico relativo alla loro profezia e, in ambito bizantino, a volte l’aureola; sono rappresentati generalmente in numero di 12, spesso affiancati alle Sibille o a creare un riscontro con gli apostoli.
Fin dall’età paleocristiana è frequente anche la rappresentazione di singoli p. in scene narrative, relative alle loro profezie, spesso come tipi o prefigurazioni del Nuovo Testamento: Daniele nella fossa dei leoni; Giona rigettato dalla balena; Ascensione di Elia, portato in cielo nel carro di fuoco; Visione di Ezechiele di Dio con i Tetramorfi, poi adottati come simbolo degli evangelisti; Isaia, insieme con Geremia nell’Albero di Jesse.