(gr. Σίβυλλα, lat. Sibylla) Nell’antichità classica, fin dal periodo arcaico della Grecia, particolare tipo di veggente femminile. I primi dati letterari (da Eraclito in poi) parlano di una S., al singolare e senza precisazione del luogo della sua attività; da Aristotele in poi si allude a più S. e si cominciano a distinguere S. locali, fino ad arrivare a cataloghi di 10 S., come quello riportato da Varrone (S. persiana, libica, delfica, cimmeria, eritrea, samia, cumana, ellespontica, frigia, tiburtina), e anche di 20 in alcune tradizioni.
La S. ha la caratteristica di non essere legata a un culto oracolare fisso: ‘profetizza’ quando e dove è ispirata, anche senza essere interrogata; la sua ispirazione è concepita come ‘possessione’ divina, e per tale ragione la profetessa si mantiene vergine. Le S. divennero esseri leggendari; mediatrici tra dio e uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe e dee esse stesse; non immortali, ma miracolosamente longeve, continuerebbero a vivere e profetizzare anche per un millennio.
Le S., rappresentate autonomamente o associate ai profeti, per le loro qualità divinatorie furono interpretate come profetesse dell’avvento di Cristo nel mondo pagano. Le rappresentazioni di singole S., fin dal Medioevo, vedono protagoniste per lo più la S. Eritrea, la S. Cumana (in riferimento a fonti romane, dall’Eneide alle Metamorfosi di Ovidio) e la S. Tiburtina, quest’ultima legata alla leggenda della fondazione della chiesa romana dell’Aracoeli, che ebbe grande diffusione grazie ai Mirabilia Romae, alla Legenda aurea di Iacopo da Varazze, alle sacre rappresentazioni. La raffigurazione delle S. in gruppo, per lo più associate ai profeti, si diffuse a partire dal 14° sec., ma soprattutto dopo l’edizione a stampa delle Institutiones divinae di Lattanzio (1465) e la pubblicazione delle Discordantiae del domenicano F. Barbieri (1481), che distinguevano fino a 12 Sibille. Il tema, diffuso in tutta Europa, ebbe grande fortuna soprattutto nell’arte italiana del Rinascimento.
Connessi alla S. cumana, i Libri sibillini erano una raccolta di testi oracolari adoperati nella religione pubblica romana; un collegio sacerdotale, originariamente di 2, poi di 10, quindi di 15 membri (II viri - X viri e XV viri - sacris faciundis), era addetto alla consultazione di questi libri, in occasione di certi prodigi o di situazioni critiche dello Stato, per appurare la volontà degli dei. Essi spesso prescrivevano l’introduzione di nuovi culti, tra cui quelli di origine greca. Secondo la tradizione i libri sarebbero stati venduti al re Tarquinio Prisco o a Tarquinio il Superbo dalla S. cumana: questa avrebbe offerto al re una raccolta più ampia, di 9 volumi, distruggendone un terzo al primo rifiuto e un terzo al secondo rifiuto del re di acquistarli. I libri erano custoditi nel tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio e andarono distrutti nell’incendio dell’83 a.C. Augusto ne promosse una nuova raccolta e fece collocare i testi nel tempio di Apollo sul Palatino. Consultati fino al tempo di Giuliano l’Apostata, verso il 400 furono bruciati per ordine di Stilicone. Ne restano vari frammenti. Oracoli sibillini Raccolta in 14 libri che Ebrei della diaspora, soprattutto dell’Egitto, misero insieme, utilizzando una precedente letteratura ‘profetica’ pagana a fini apologetici e per proselitismo religioso. Vengono così attribuiti alla mitica S. precetti e vaticini che rispecchiano i capisaldi della fede giudaica: monoteismo e condanna del culto degli idoli, giustizia di Dio estesa a tutte le genti, prospettiva apocalittica. Gli oracoli sibillini ebbero larghissima diffusione andando soggetti, per la loro stessa natura, a continue manipolazioni e aggiunte, alcune delle quali anche di mano cristiana proseguirono nel Medioevo.
Per l’iconografia delle S. come profetesse dell’avvento di Cristo nel mondo pagano ➔ profeta.