schiavitù Condizione propria di chi è giuridicamente considerato come proprietà privata e quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio del legittimo proprietario.
Da un punto di vista antropologico, la s. è istituzione presente in numerose società umane, per la quale è spesso difficile trovare definizioni universalmente valide. Attualmente, si tende a considerare la s. come un sistema sociale complesso, piuttosto che cercare definizioni minime dell’istituzione o di cosa sia uno schiavo. Se, per es., per s. si intendesse solo lo sfruttamento coercizzato e non retribuito del lavoro umano, gran parte dei fenomeni di s. in società non occidentali non potrebbero essere definiti tali. Allo stesso modo, se si adottasse un criterio giuridico, che consideri lo schiavo un oggetto, un bene alienabile da parte del suo proprietario, non potrebbero essere mai compresi fenomeni come, per es., la s. degli Ashanti del Ghana, dove lo schiavo, spesso proveniente da società conquistate in cui non vigeva la fondamentale regola dell’appartenenza matrilineare, pur non godendo per questo motivo di un completo status sociale, poteva diventare politicamente ed economicamente importante. D’altro canto, se si ritenesse la s. un fenomeno storico legato in maniera univoca alla presenza di sistemi di mercato e connesso allo sviluppo di un’economia capitalista di scala mondiale, un buon numero dei rapporti di s. tipici di società non europee finirebbero per essere esclusi dall’analisi. È possibile dunque sostenere che la s., così come si è realizzata nella storia dei rapporti tra Occidente e mondi ‘altri’ o nelle forme in cui è stata praticata all’interno della storia europea, non è che una particolare forma di sfruttamento del lavoro umano, mentre le concezioni giuridiche, economiche e sociali a essa associate sono spesso molto distanti da modi ‘altri’ di concettualizzare un rapporto di schiavitù.
Nell’approccio antropologico alla s. possono distinguersi due punti di vista: uno sociologico-giuridico, l’altro economico-sociologico. Quello sociologico-giuridico, seguito soprattutto da studiosi anglosassoni, pone l’accento sull’importanza dell’analisi della rete concettuale che, in ogni società, definisce i ‘diritti sulle persone’. Da un simile punto di vista, la s. è istituzione che non si fonda tanto sull’accaparramento e il controllo della produzione umana, quanto piuttosto sui modi di concettualizzare l’appartenenza a gruppi di parentela e discendenza, e sulla necessità di incorporare al loro interno, in posizioni non necessariamente subordinate, membri ‘estranei’ (S. Miers e I. Kopytoff, Slavery in Africa, 1977). Nelle società Akan dell’Africa occidentale, per es., la s. tradizionale non può essere compresa se si prescinde dal quadro globale delle relazioni parentali e politiche. In tali contesti (Agni, Baule e Lagunari della Costa d’Avorio; Ashanti, Fanti, Nzema del Ghana) vigono contemporaneamente una regola di discendenza matrilinea e una regola di residenza virilocale: la donna va a vivere presso il marito. Questo può portare al sorgere di conflitti tra l’autorità paterna e quella del gruppo di discendenza matrilinea sui figli: un uomo non può mai controllare totalmente i figli che, pur vivendo presso di lui, sono membri di matrilignaggio materno. L’acquisto di una schiava, di una persona cioè priva dei diritti legali derivanti dall’appartenenza a un lignaggio matrilineo, è uno dei metodi classici per risolvere tali tensioni, rendendo possibile la procreazione di figli totalmente assimilati al gruppo del padre. L’approccio economico-sociologico, elaborato dall’antropologia marxista francese, sottolinea, invece, il carattere economico-produttivo di ogni sistema sociale di tipo schiavista. Un simile sistema, caratteristico di società di guerrieri e di mercanti, si fonda sull’accaparramento e sullo sfruttamento di forza-lavoro umana, riprodotta al proprio esterno. Per C. Meillassoux (Anthropologie de l’esclavage, 1986), principale sostenitore di questo approccio, la s. costituisce l’unico modo di sfruttamento che consenta accumulazione senza aumento dei livelli di resa produttiva e si fonda sullo sfruttamento di una classe di persone asservite, la cui riproduzione avviene attraverso la cattura o l’acquisto di esseri umani. Gli schiavi, dunque, sono esseri umani privati, più che del controllo della produzione, del controllo sulla riproduzione: se il numero degli schiavi si accresce solo attraverso guerre, razzie o acquisti, gli schiavi sono alienati del controllo della propria prole (non avranno, cioè, eredi legittimi).
Previsto e disciplinato dall’art. 600 c.p., recentemente modificato dalla l. 228/2003, il delitto di «riduzione o mantenimento in s. o in servitù», può consistere nell’esercitare su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, nella riduzione di una persona in uno stato di soggezione continuativa, attraverso l’imposizione di prestazioni lavorative o sessuali, nell’accattonaggio, in prestazioni che comportino lo sfruttamento, ovvero nel mantenimento di una persona nello stato di soggezione prima delineato. L’elemento soggettivo è il dolo generico, inteso come coscienza e volontà di ridurre la vittima a un oggetto di diritti patrimoniali e quindi atta a essere prestata, ceduta o venduta dietro corrispettivo.
L’art. 601 c.p. disciplina invece la «tratta di persone», fenomeno che, come indicato dalla Convenzione di Ginevra del 1926, si identifica in ogni atto di cattura, acquisto o cessione di individuo finalizzato alla riduzione in s., nonché in ogni atto di commercio o di trasporto di schiavi. Commette tale delitto chiunque pone in essere un atto di tratta nei confronti di chi già si trovi nelle condizioni delineate dall’art. 600 c.p., ovvero – al fine di realizzare uno dei delitti previsti da quest’ultima norma – lo induce mediante inganno o lo costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato, ovvero a trasferirsi al suo interno. In questo reato il dolo è specifico. L’art. 602 c.p. punisce, infine, l’alienazione, la cessione e il correlativo acquisto di persona che si trovi nelle condizioni di s. previste dall’art. 600 c.p. Per tutte le ipotesi sopra delineate, la pena è la reclusione da 8 a 20 anni che può essere aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso in danno di minore degli anni 18; se è diretto allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi; se dal fatto deriva un grave pericolo per la vita o l'integrità fisica o psichica della persona offesa (art. 602 ter introdotto dalla l.n. 108/2010).
In Grecia la s. fu in origine relativamente poco diffusa, e gli schiavi erano di norma trattati, come risulta dai poemi omerici, con sufficiente equità e talvolta con familiarità (s. patriarcale). Il rapido sviluppo economico del 7° e 6° sec. a.C. portò a un notevole incremento del loro numero: il commercio degli schiavi fu particolarmente attivo in Stati commerciali come Corinto ed Egina. Schiavi erano di norma individui comprati in regioni barbariche o considerate tali (Tracia, Scizia, Siria ecc.), o anche Greci caduti in s. per prigionia di guerra, per debiti, per iniquo rapimento e successiva vendita, per pene; schiavi erano inoltre i nati da due schiavi o da matrimoni ‘misti’ (tra liberi e schiavi) e i nati non riconosciuti dal padre. Il prezzo sul mercato variava da 50 dramme per uno schiavo di scarso valore, a 500-600 per un buon operaio, a 1000 fino a 6000 per chi possedesse particolari cognizioni tecniche (architetti, computisti). Numerosissimi nelle città industriali, lo erano meno nelle campagne, dove predominò sempre, seppure affiancata da opere servili, la piccola e media proprietà terriera. In entrambi i casi la mano d’opera servile, di minor costo, contraeva la richiesta della mano d’opera libera, causando spesso violenti contrasti sociali. Nelle case private gli schiavi erano numerosi, con mansioni ben caratterizzate. Il trattamento variava da luogo a luogo: molto duro nelle miniere e nei lavori agricoli, migliore nelle città e presso i privati; talvolta il padrone affidava allo schiavo mansioni di fiducia (amministrazione dei beni, gestione di botteghe, commerci ecc.). Competevano allo schiavo il vitto, un alloggio (comune con altri schiavi), un modesto vestiario, talvolta un piccolo guadagno; inoltre, alcune garanzie di carattere giuridico-sacrale e, quando fosse schiavo domestico, la partecipazione ai sacra della famiglia. Lo schiavo veniva di solito affrancato quando lui stesso (se le condizioni del lavoro gli permettevano di economizzare parte del reddito), o altri, pagava il riscatto. Non infrequente era la manomissione per atto di liberalità del padrone.
Lo svolgimento storico dell’istituto della s. presso i Romani, pur simile sotto alcuni aspetti a quanto si riscontra tra i Greci, mostra alcune peculiarità. Rari i casi in cui un civis Romanus potesse cadere in s., e comunque limitati all’età più antica: gli schiavi dei Romani provenivano dal bottino di guerra o da acquisto sui mercati (celebre quello di Delo). Anche a Roma vi erano differenze nel prezzo: 1000 sesterzi per uno schiavo comune, ma 500.000 per un eunuco e 700.000 per un grammatico. Sono caratteristiche della società romana la specializzazione degli schiavi, in gran numero addetti a funzioni culturali (bibliotecari, amanuensi, stenografi, lettori, maestri, segretari), e l’appartenenza alla condizione servile di persone che esercitavano elevate professioni (ingegneri, medici, chirurghi, professori). Numeroso il personale di servizio nella casa urbana (familia urbana), e meglio trattato che non in campagna (familia rustica). La differenza più rilevante con il mondo greco si rileva nella potestà del padrone sullo schiavo, che era piena e assoluta e corrispondeva all’autorità illimitata di cui godeva il pater familias verso tutto ciò che era sotto la sua manus: moglie, figli, servi. Quest’autorità assoluta con il tempo venne mitigandosi sia per un incivilimento dei costumi, sia per influsso delle pratiche greche, per cui allo schiavo maltrattato fu concesso, come avveniva in Grecia, di fuggire in un tempio e ottenere di essere assegnato ad altro padrone. Lo schiavo liberato, manomesso era detto liberto (➔).
A determinare la decadenza della s. contribuirono le idee morali dello stoicismo e del cristianesimo, diffondendo il concetto che anche lo schiavo è un uomo. Nel campo politico e pratico, stoicismo e cristianesimo accettarono tuttavia pienamente la s. come istituto sociale e come elemento indispensabile dell’economia del lavoro. Anche nel Medioevo la coscienza religiosa proibiva che si riducessero in s. i prigionieri di guerra, ma soltanto nel caso che prima della cattura essi fossero già di fede cattolica. Il mondo germanico considerava la s. senza quelle mitigazioni introdotte dagli ultimi imperatori romani. Nell’Europa occidentale (6°-11° sec.) la s. continuò ad avere una funzione economica di una certa importanza nelle grandi proprietà fondiarie: presso la casa del signore non mancavano gli schiavi addetti ai servizi domestici, ai lavori artigianali e a certi lavori agricoli e specializzati. Accanto a questi, nei primi secoli del Medioevo, troviamo i servi rustici veri e propri; è indubbio che, dopo la caduta dell’impero, esistessero nelle grandi proprietà gruppi di schiavi dipendenti dal signore o dal suo fattore, riuniti per lo più in abitazioni comuni e da lui forniti di vesti e di vitto. Questi schiavi discendevano in parte dai servi romani privi del beneficio della manomissione, in parte da persone ridotte in s. nel periodo delle invasioni; ma la maggior parte proveniva da acquisti sul mercato. In seguito, ebbero la possibilità di formare un nucleo familiare e di gestire autonomamente dei poderi, pagando un canone e fornendo prestazioni di lavoro ai loro padroni, finendo così per confondersi con i contadini dipendenti di condizione libera (➔ servitù). Il commercio degli schiavi fu esercitato dapprima dai mercanti orientali; nel 9° sec. dai Veneziani.
Nell’età dei Comuni, per l’aumento della popolazione, il moltiplicarsi delle famiglie coloniche e per l’attrazione esercitata dalle città, vennero meno le funzioni della s. nell’economia agraria e nella produzione industriale. La s. sopravvisse in prevalenza per i servizi domestici e quelli di guardia del corpo a sovrani o a grandi signori; per questi due scopi il commercio degli schiavi raggiunse nel 13° sec. una nuova e considerevole fioritura. Inoltre, in conseguenza delle nuove invasioni mongoliche, si moltiplicò il numero dei prigionieri di guerra o dei fuggiaschi caduti in mano dei Turchi, che li portavano sui mercati del Mar Nero e li vendevano ai mercanti occidentali. Nello stesso tempo i neri del Sudan cominciarono ad affluire ai porti nordafricani frequentati dalle navi italiane, provenzali e catalane, e per questo tramite a figurare sempre più numerosi nelle corti principesche e nei palazzi dei ricchi mercanti cristiani. Inoltre, in seguito alle esplorazioni e conquiste portoghesi in Africa, i Portoghesi acquistarono direttamente e trasportarono via mare gli schiavi sudanesi, che costituirono anzi il principale oggetto delle loro esportazioni dall’Africa, facendo così di Lisbona il maggior mercato di schiavi d’Europa.
La scoperta dell’America aprì una nuova era nella storia della s., che divenne lo strumento più efficace per lo sfruttamento agricolo delle colonie. Non mancarono i tentativi di valersi per questo scopo del lavoro forzato degli indigeni e degli stessi Europei. La mano d’opera europea era reclutata con vari mezzi (la servitù temporanea o la deportazione dei condannati). Lo sfruttamento degli Amerindi venne ostacolato da una parte dagli stessi Amerindi, che mal si adattavano al lavoro eccessivamente gravoso nelle piantagioni e nelle miniere, dall’altra dai missionari, che chiedevano trattamenti più umani per le popolazioni native. Con le leggi di Burgos (1512-13) si tentò di limitare la progressiva riduzione in s. degli Amerindi; l’intervento del missionario domenicano B. de Las Casas, vescovo di Chiapas, presso Carlo I di Spagna portò alla promulgazione di nuove leggi (1542-43) che proibirono la riduzione in s. degli Amerindi e l’istituzione di nuove encomiendas. Ma la richiesta crescente di mano d’opera e il progressivo decrescere della popolazione india provocarono la sostituzione degli indigeni americani con schiavi africani. La strada alla ‘tratta dei neri’ era stata aperta dalle numerose importazioni in Portogallo e Spagna; di una prima importazione dalla Spagna a Hispaniola si ha notizia fin dal 1502; successivi decreti del 1511, 1512, 1513 autorizzavano il traffico diretto dalle coste della Guinea alle Indie occidentali. Il lavoro degli schiavi fu esteso poco dopo nel Brasile, con l’incoraggiamento della corona portoghese, che ne ritraeva vantaggi fiscali. Alla tratta degli schiavi è legato l’estendersi delle piantagioni della canna da zucchero nel Brasile settentrionale e nelle Antille, poiché gli indigeni non si erano rivelati adatti a quel genere di coltura; perciò il traffico degli schiavi, contenuto nel 16° sec. entro limiti ancora modesti, cominciò a intensificarsi negli ultimi anni del secolo e nei due secoli successivi. Affidato dalla corona spagnola ai maggiori offerenti e passato in mano ai Portoghesi che ne tennero il monopolio fino al principio del 18° sec., il commercio degli schiavi africani sulle coste americane assunse proporzioni enormi nel 18° sec. quando per la massima parte fu esercitato da Francesi e Inglesi (fig. 1). Il numero di schiavi che alla fine del secolo si trovava nel continente americano (3 milioni ca.) non rappresentava che una piccola parte del numero di quelli che in 300 anni erano stati strappati al loro paese d’origine: la mortalità infatti fu tra essi altissima, sia durante il trasporto sia nelle piantagioni.
Nel periodo dell’Illuminismo la condizione degli schiavi cominciò ad attirare l’attenzione e le critiche dei ceti più colti; d’altra parte al commercio negriero era legato l’interesse anche dello Stato, che vedeva in esso un mezzo efficace per aumentare la propria potenza navale, impiegando un numero considerevole di navi e di marinai. La propaganda abolizionistica in Inghilterra ottenne, dopo ripetuti tentativi, il primo trionfo legislativo con il bill del 1807 che proibì la tratta marittima. L’Inghilterra fu seguita dagli USA (1807), dai Paesi Bassi (1814), dalla Svezia (1815) e dalla Francia (1815); dagli Stati dell’America centrale e Meridionale (eccetto il Brasile), nel momento in cui acquistarono l’indipendenza; dal Portogallo (1830). Il Congresso di Vienna (1815) si era pronunciato in linea di massima contro la s.; il trattato anglo-franco-russo-austro-prussiano (1841) stabilì che ognuno dei contraenti avrebbe concesso agli altri il diritto reciproco di visita a bordo dei vascelli sospetti di tratta nelle acque africane, escluso il Mediterraneo. La soppressione della tratta condusse in breve tempo all’abolizione della s. nei pochi Stati occidentali in cui ancora sopravviveva e nelle colonie d’Oltremare, con permanenza negli Stati Uniti (fig. 2). Tra il 1883 e il 1886 cedette anche il Brasile, che aveva resistito per il timore che ne derivasse la rovina delle sue grandi piantagioni di caffè. Rimaneva soltanto il continente africano, dove la schiavitù era considerata come un fenomeno endemico.