Trasferimento del diritto di proprietà su un determinato bene da un soggetto a un altro. Divieti negoziali di a.: in generale, le limitazioni poste dall’autonomia privata al potere di disposizione, ovvero alla possibilità per un soggetto di trasferire un suo diritto. Possono essere disposti per contratto (c.c., art. 1379): in questo caso sono validi solo se contenuti entro convenienti limiti di tempo e se rispondono a un apprezzabile interesse di una delle parti; comunque hanno effetto solo tra le parti, per cui non escludono la possibilità di un trasferimento, salva la responsabilità dell’alienante nei confronti del soggetto con cui il divieto è stato pattuito. Per es., hanno dato vita a una ricca casistica giurisprudenziale le clausole con cui i dipendenti di case automobilistiche acquistavano autovetture a condizioni particolari ma si impegnavano a non alienare le vetture prima di un certo tempo. I divieti di a. possono essere imposti anche per testamento, ma ne è discussa l’efficacia.
Per l’alienazione a scopo di garanzia ➔ garanzia.
Processo per cui ciò che originariamente appartiene all’uomo ed è opera sua gli diviene alieno o estraneo, finendo, da ultimo, con il dominarlo e asservirlo. In Rousseau il tema è posto in rapporto con quello della sovranità. Se la sovranità è alienata, cioè ceduta dal popolo (titolare originario) ai suoi rappresentanti, si produce una duplice scissione: nella società, tra sfera pubblica e sfera privata, e nell’uomo, tra citoyen e bourgeois. La perdita o il trasferimento ad altri di qualcosa (la libertà), che è parte integrante della persona o del corpo sociale, determina una condizione dimidiata, cioè uno stato di interna separazione o lacerazione.
Questo motivo dell’anormalità e infelicità, connessa alla scissione, è al centro anche degli sviluppi che l’idea di a. riceve nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (1807). Anche qui l’a. si produce dalla divisione di un’unità originaria, ma quest’unità non è più il popolo o la comunità, bensì l’idea assoluta. L’idea si aliena, cioè si fa altra da sé, ponendosi od oggettivandosi come natura: l’assoluto si divide perché, per realizzarsi come spirito, ha bisogno di prender coscienza di sé, cioè di oggettivarsi e, così, conoscersi. Se il processo, pur implicando scissione, è globalmente positivo quando lo si consideri dal punto di vista dell’idea, non altrettanto può dirsi per l’ordinario intelletto umano. Prima che l’uomo arrivi ad adeguare la propria coscienza al processo dell’idea e, quindi, a innalzare il proprio punto di vista soggettivo a quello dell’assoluto o del sapere filosofico, è inevitabile che sperimenti l’a. come infelicità, come separazione tra io e mondo, soggetto e oggetto, intelletto e natura. Prigioniero di queste antitesi, l’uomo ha una rappresentazione capovolta della realtà: la natura gli appare come una realtà originaria e indipendente e il pensiero come un che di subordinato e condizionato. In questa prospettiva, il superamento dell’a. viene a coincidere, per Hegel, con l’abbandono del punto di vista ingenuamente materialistico del senso comune e con il passaggio alla filosofia o idealismo, che adegua finalmente la coscienza umana al processo attraverso cui si sviluppa l’idea.
Una concezione opposta a quella di Hegel è offerta da Feuerbach, che individua il fenomeno dell’a. soprattutto nel campo della religione e, in particolare, del cristianesimo. Per Feuerbach, l’a. sorge dal fatto che l’uomo proietta e personifica (inconsapevolmente) nella figura di Dio gli attributi e le qualità umane più alte, per adorarle, poi, come virtù e requisiti di questa potenza estranea. Anche in questo caso si tratta di un processo di scissione: i predicati dell’uomo vengono separati dall’uomo e trasformati in entità indipendenti.
Marx fuse alcuni aspetti delle teorie di Hegel e di Feuerbach, ma indicando il luogo di nascita dell’a. non più nella religione o nella filosofia, bensì nella società capitalistica moderna. Nella società del mercato, lo scambio dei prodotti richiede, di fatto, l’eguagliamento dei diversi lavori dei produttori. Ma il lavoro umano eguale o astratto, che è presupposto e risultato dello scambio, implica che la forza lavorativa umana sia considerata e calcolata a prescindere dagli individui reali. In tal modo, la forza lavorativa viene trasformata in un’entità a sé, diviene cioè valore delle merci, qualcosa d’indipendente dai produttori e che li fronteggia e li domina. Questo rapporto capovolto è chiamato da Marx il ‘feticismo’ delle merci. Il mondo delle cose appare animato di vita propria, cioè personificato; il mondo dei soggetti umani, viceversa, appare ‘reificato’, cioè ridotto a rapporti tra cose. L’a. culmina, per Marx, nel lavoro salariato, cioè nello scambio tra capitale e lavoro, dove il capitale, che è un prodotto del lavoro, appare assoggettare e soggiogare a sé ciò da cui deriva e il lavoratore diventa una semplice appendice di ciò che esso stesso ha prodotto.
Una ripresa e uno sviluppo significativo della concezione marxiana dell’a. è contenuta nell’opera giovanile di Lukács Storia e coscienza di classe (1923), in cui, tuttavia, il concetto marxiano di a. è reinterpretato in termini hegeliani. Lo scandalo dell’a. non risiede più nel fatto che il lavoro si oggettivi in un prodotto che ha la forma di merce, bensì nel fatto che esista un’oggettività naturale, esterna e indipendente dalla soggettività pensante. Questa svolta segnata da Lukács ha influenzato profondamente molte concezioni contemporanee dell’alienazione. Nell’esistenzialismo, per es., dove pure il termine non compare espressamente, alcuni dei significati implicati da esso si trovano nell’analisi di quella che Heidegger ha chiamato ‘esistenza inautentica’: quel tipo di esistenza in cui l’uomo vive immerso nell’universo delle cose. È un mondo reificato: il mondo fisico-naturale che ci esibisce la scienza e in cui trova il suo appagamento sia la nostra propensione al dominio della natura sia il bisogno di sicurezza che caratterizza ciò che Heidegger chiama anche ‘quotidianità’. Quest’esistenza inautentica è il regno dell’anonimato.
Un’analisi dell’a., incentrata sulla critica della scienza e della tecnica, s’incontra anche negli autori della cosiddetta scuola di Francoforte (M. Horkheimer, T.W. Adorno e H. Marcuse). Qui l’obiettivo della critica, più che il capitalismo in quanto tale, è la società industriale moderna, con la sua razionalità impersonale, integratrice e falsamente tollerante.
Nel suo uso sociologico più generale il termine a. denota un estraniamento o una separazione della personalità individuale da alcuni aspetti del mondo dell’esperienza. Di qui l’a. dell’operaio alla catena di montaggio; l’a. del singolo in una società di massa spersonalizzante che distrugge le comunità locali, le associazioni volontarie, i gruppi primari; l’a. dell’individuo che interiorizza solo parzialmente le norme di comportamento richieste dalla cultura societaria e che quindi non è in grado di conformare i suoi bisogni-disposizioni alle aspettative di ruolo che essa sviluppa. Solo negli anni 1960 si è compiuto qualche serio tentativo di definire l’a. in termini univoci e in qualche modo operativi identificando cinque significati, o dimensioni, dell’a. (impotenza, mancanza di senso, mancanza di norme, isolamento, auto-estraniamento) misurabili con diverse scale di atteggiamento.