Istituzione comune a molte religioni antiche e moderne per cui le funzioni sacrali di ministro del culto vengono riservate a particolari categorie di persone. Nell’uso comune, senza alcuna specificazione, sacerdote è il ministro del culto cattolico, cioè chi ha ricevuto il sacramento dell’Ordine e ha la potestà spirituale di amministrare i sacramenti e predicare la parola di Dio.
Presso diversi popoli specialmente, ma non soltanto, tra i cosiddetti primitivi, le funzioni sacrali fanno parte delle normali attività dell’individuo. La prima discriminazione tra persona e persona, in questo caso, non è di carattere specifico dal punto di vista del s.: come da certe altre attività di particolare importanza sociale, così anche da quelle sacrali possono essere escluse le donne, i bambini, gli ammalati, gli stranieri ecc. Più notevole è l’inserirsi, nella distinzione tra le persone nel campo delle attività sacrali, del principio della rappresentanza, particolarmente là dove le funzioni del capo diventano complesse e gravose; così nell’antico Egitto, nello shintoismo giapponese e nell’antica Roma. Nell’India vedica le funzioni religiose conservavano un forte carattere privato e le famiglie celebravano i riti per conto proprio, ma l’esecuzione valida dei riti era condizionata a competenze speciali di cui disponevano soltanto i sacerdoti, chiamati perciò dai privati, volta per volta, per i loro bisogni rituali: questa situazione dava nascita, ancora nella preistoria indiana, a una particolare casta sacerdotale; qualcosa di simile a una casta sacerdotale esisteva anche nella Persia antica. Meno rigido era il sistema del s. nell’antica Grecia: anche qui ogni cittadino, e il capofamiglia per la famiglia, i magistrati per la città, potevano offrire sacrifici, e il sacerdote subentrava al loro posto solo in virtù della sua competenza specifica. In tutti i tipi di s. finora menzionati, per ricoprire la carica sacerdotale la persona deve corrispondere a esigenze rituali, che variano non solo di religione in religione ma anche tra i singoli culti della stessa religione.
Vi è però un’altra categoria fondamentale del s. che si riscontra anche nelle religioni primitive: essa è condizionata a particolari qualità personali dell’individuo, ritenuto dotato di peculiari capacità (per es., di guaritore, indovino, purificatore, esorcista ecc.), che gli derivano da una possibilità, superiore a quella degli individui comuni, di entrare in contatto con le potenze sovrumane (divinità, spiriti ecc.). La differenza fra i due tipi di s. appare totale, tanto che si è potuto dire che il primo tipo rappresenta la comunità di fronte alle potenze sovrumane, mentre il secondo rappresenta le potenze sovrumane di fronte alla comunità.
Tuttavia già nelle religioni primitive la separazione tra i due tipi non è sempre netta: anche il re-sacerdote, che potrebbe essere concepito sacerdote in quanto rappresentante del proprio popolo, è dotato di capacità superiori (per es., può ottenere la pioggia, guarire ecc.; a volte può entrare in comunicazione diretta, per es., con gli spiriti dei propri antenati). Né i limiti tra le condizioni rituali dell’attività sacrale e le pratiche ascetiche dirette a ottenere una maggiore facilità di entrare in contatto con la divinità sono sempre precisi: il sacerdote dell’India vedica, pur essendo sostanzialmente un esperto e specialista del rito, è nello stesso tempo un asceta che agisce in condizioni soprannaturali. Nelle religioni interiorizzate, in cui il rito perde d’importanza, il s. del primo tipo scompare o diventa marginale, mentre il secondo può svolgersi sulla linea del misticismo individuale o eventualmente nelle forme del monachesimo.
Nell’ebraismo, in senso lato l’intero popolo di Israele deve essere, rispetto agli altri popoli, secondo le parole di Dio rivolte a Mosè sul Sinai, «un regno di sacerdoti» (Esodo 19,6), ma al suo interno sono propriamente sacerdoti i discendenti maschi di Aronne, fratello di Mosè. Nell’antico ebraismo il sommo sacerdote era a capo di tutti i sacerdoti e, per il ruolo centrale della religione nella società, rappresentava una delle massime autorità.
Nella Chiesa cattolica, il s. è l’ordine sacro che dà la potestà di consacrare e offrire il corpo e sangue di Cristo nel sacrificio della messa, di amministrare i sacramenti, di predicare la parola di Dio; questa potestà spirituale è conferita dal sacramento dell’ordine. Il s. è considerato un sacramento istituito da Gesù quando comandò agli apostoli di ripetere il rito eucaristico (Luca 22, 19) e quando conferì loro il potere di rimettere i peccati (Giov. 20, 22-23). Negli Atti degli Apostoli compaiono persone rivestite di un carattere sacro; sono i presbiteri, detti anche episcopi (Atti 20, 17-28), cui presto si uniscono i diaconi, ossia uomini con funzioni liturgico-amministrative secondarie. Sia per gli uni sia per gli altri si richiede un rito particolare (imposizione delle mani con preghiere appropriate) perché ottengano la dignità di servire da responsabili della comunità. Al tempo di s. Ignazio di Antiochia si delinea la distinzione tra vescovi, presbiteri, diaconi. La teologia posteriore sviluppò e precisò il concetto dell’Ordine o s. come sacramento.
Le chiese protestanti ammettono soltanto il s. universale dei fedeli: l’amministrazione dei sacramenti, la predicazione e l’insegnamento sono semplici ministeri affidati a membri della Chiesa che si ritiene ne abbiano le capacità, ma che per ciò stesso non si differenziano dagli altri membri del popolo di Dio.