Complesso di segni ciascuno dei quali indica un suono consonantico o vocalico di una lingua determinata.
L’antichità ha conosciuto vari sistemi di scrittura, ciascuno dei quali è giunto dalla primitiva fase ideografica a un grado più evoluto, in cui determinati segni hanno acquistato un valore fonetico, come nella scrittura cuneiforme e in quella geroglifica, le quali offrono un sistema misto di ideogrammi e di segni fonetici. Le più antiche testimonianze di scrittura alfabetica provengono dalla Siria e dalla Palestina (iscrizioni pseudogeroglifiche di Biblo, centro commerciale sulla costa fenicia sottomessa al dominio egiziano, databili fra il sec. 15° e il 14° a.C.; tavolette di Ugarit, sec. 14° a.C.). Comunque, l’unico tentativo destinato ad avere successo fu l’a. fenicio, che sviluppò il principio dell’acrofonia, già in parte impiegato dagli Egizi, attribuendo a un segno ideografico il valore fonetico corrispondente alla sua consonante iniziale. Così per la seconda lettera b si usò il segno indicante la pianta di una tenda (bēt), per la terza lettera g il profilo di un cammello (gāmāl), per la quarta d il disegno di una porta (dālet) ecc. L’a. fenicio primitivo (tramandato in iscrizioni, oppure scritto con il pennello o il calamo su papiro importato dall’Egitto, con direzione sinistrorsa) si diffuse da Biblo sin dal sec. 10° a.C. Comprendeva solo 22 segni di contro alle varie centinaia del sistema di scrittura cuneiforme e di quello geroglifico; ciò spiega, insieme alla grande diffusione del nuovo materiale scrittorio (il papiro), la sua rapida fortuna fra Ebrei, Aramei e altri popoli semitici dell’Asia anteriore. In a. fenicio sono scritte le iscrizioni puniche di Cartagine e del suo territorio e neopuniche. L’a. ebraico (scrittura quadrata) dei codici dell’Antico Testamento è di origine aramaica. Dall’antico a. aramaico è derivato l’a. siriaco, da cui si è sviluppato attorno al sec. 5°-6° d.C. quello arabo, adottato poi con modificazioni da Persiani, Turchi, Indostani, Malesi, Berberi. L’a. aramaico diede anche origine all’a. dei Mongoli e degli abitanti della Persia medievale (a. pehlevico) fino all’introduzione dell’a. arabo. Con il tempo, negli a. semitici si cercò di indicare anche le vocali, sia impiegando l’ālef per la ā, lo yōd per l’i e lo wāw per l’ū, sia ricorrendo a lineette e punti posti sopra o sotto le lettere. L’a. libico è composto di 24 segni consonantici e tracciato ora verticalmente, ora orizzontalmente da destra a sinistra; compare dal sec. 2° d.C. in iscrizioni dell’Africa del Nord; forse deriva da una serie locale di segni simbolici, modificata dall’imitazione degli a. fenicio e sudarabici. L’a. iberico, adoperato sulla costa orientale della Spagna e nella Valle dell’Ebro dal sec. 3° a.C., consta di 27 segni sillabici o alfabetici, caratterizzati da forme rigidamente geometriche; deriverebbe in parte da un’anteriore scrittura sillabica di tradizione greco-cipriota, in parte dall’imitazione degli a. fenicio e greco, molto diffusi dal sec. 5° a.C. in Spagna.
I Greci usavano una scrittura composta di ideogrammi e segni sillabici già nel 2° millennio a.C. (lineare A e lineare B, attestata e decifrata, quest’ultima, grazie alle tavolette di Pilo del sec. 14° a.C.). Sommersa la civiltà micenea dalla crisi che portò al ‘medioevo greco’, la scrittura riapparve in Grecia dopo il 1000 a.C. come derivazione dell’a. fenicio. La tradizione attribuiva l’adozione dell’a. fenicio a Cadmo, secondo Eratostene nel 1313 a.C. (quando era ancora in uso la lineare B); è probabile che, per quanto i più antichi documenti della nuova scrittura non risalgano oltre il sec. 8° a.C., i Greci delle regioni orientali e dell’arcipelago ne facessero uso già qualche tempo prima. La successiva evoluzione dell’a. greco modificò in vario grado tutte le forme delle lettere, sia per il rovesciamento del senso della scrittura che da sinistrorsa, come era nel fenicio, divenne prima mista, cioè bustrofedica poi destrorsa, sia per la tendenza a dare ai vari segni un aspetto simmetrico e regolare, e una posizione diritta e non più inclinata a sinistra, come nel fenicio. L’a. fenicio, come gli altri a. semitici, era allora sprovvisto dei segni per le vocali; per rappresentarle i Greci usarono i segni di alcune consonanti che non avevano corrispondenza nella loro lingua (i segni per ālef, hē e ‘ayin usati per le vocali a, e, o e i segni per le semivocali yōd e wāw usati per le due vocali i e u). In seguito furono aggiunti alcuni segni speciali per consonanti aspirate e gruppi consonantici. Tra i sec. 7° e 5° a.C. la forma delle lettere subì numerose modificazioni nei vari a. locali, che con il tempo furono tutti sostituiti da quello ionico, introdotto ufficialmente in Atene nel 403-402 a.C. La nuova serie alfabetica ionica, composta di 24 segni, divenne da allora comune a tutto il mondo greco. L’a. greco fu adottato dai popoli costieri dell’Asia Minore; da esso derivano l’a. cirillico, forse quelli armeno, georgiano e gotico.
Le popolazioni della penisola italica fin dal sec. 7° a.C. adoperarono un a. derivante da quello fenicio attraverso gli a. greci. Si sono distinti 11 diversi a. italici (sabellico, a. di Sondrio, a. di Bolzano, a. dei Veneti, etrusco, campano-etrusco, umbro, osco, falisco, messapico e latino). Particolare importanza assunse l’a. etrusco, usato in Etruria e in tutte le regioni alle quali si estese il dominio etrusco nei sec. 7° e 6° a.C. e noto attraverso circa 10.000 iscrizioni. L’a. etrusco arcaico (o protoetrusco) constava di 26 lettere, cioè di 22 fenicie e di 4 introdotte dai Greci (v, Φ, Χ con il valore di ks, Ψ con il valore di kh). Successivamente, adattandosi alla fonetica etrusca, l’a. andò semplificandosi; l’a. etrusco classico risultò di 20 lettere: le vocali a, i, e, u e le consonanti c, ch, h, t, th, s, ś, z, p, ph, f, v, l, r, m, n.
L’a. latino può considerarsi come la continuazione dell’a. etrusco. L’uso della scrittura presso i latini è ricordato per il sec. 7° a.C., ma i documenti epigrafici nei primi secoli sono rari: fra essi i più importanti sono il Lapis niger e il vaso di Dueno; compaiono numerosi e significativi solo dalla metà del sec. 3° a.C. Il primitivo a. latino consisteva di 21 segni, di contro ai 24 del greco. In latino il segno F fu in un primo tempo usato come semivocale, ma in seguito sempre per f, impiegando per il suono u̯ (v della pronuncia più tarda) lo stesso segno di u (V) derivato dalla lettera greca Υ. La lettera G, assente nell’a. primitivo, è una modificazione del C, adottata per distinguere la sorda k (C) dalla sonora ġ (G). Nel sec. 1° a.C. furono introdotte le lettere Y e Z, necessarie per la trascrizione delle parole greche e poste alla fine della serie alfabetica, portando così il numero delle lettere a 23, rimasto costante per tutta l’età imperiale. Anche la forma delle lettere non subì alterazioni nella scrittura epigrafica (o lapidaria), pur distinguendosi, accanto alla forma elegante, diritta e maiuscola, una più corsiva. La scrittura, sinistrorsa presso Etruschi, Umbri, Oschi e Falisci, fu sempre destrorsa presso i latini (tranne quella del Lapis niger, bustrofedica).
Alle lettere dell’a., probabilmente in connessione con il valore magico attribuito alla parola e con il valore numerico a esse attribuito nell’antichità, si è dato spesso un significato simbolico e mistico-magico, soprattutto nel giudaismo e nelle sette gnostiche, non senza l’influsso dell’astrologia e del pitagorismo. Così i sette segni delle vocali dell’a. greco (α, ε, η, ι, ο, υ, ω) sono presi come rappresentanti dei 7 toni dell’eptacordo, che insieme formano armonie celesti, o dei 7 pianeti. Da tali credenze deriva l’uso di segni alfabetici a simboleggiare la divinità, come alfa e omega. Significato mistico-simbolico o magico hanno intere serie alfabetiche greche e latine rinvenute in lapidi e graffiti pagani e paleocristiani. Nella tradizione giudaica e gnostica le lettere sono considerate fonemi cosmici e divini dotati di potenza creatrice: Dio crea il mondo o lo suscita dal caos pronunziando le diverse lettere, che si trasformano in realtà. Analoghi valori hanno le lettere in alcune correnti dell’induismo e del buddismo.
A. fonetici Sono gli a., ricchissimi di lettere e segni speciali, usati nelle trascrizioni fonetiche a scopo scientifico, e contraddistinti dalla costante corrispondenza dei singoli segni a singoli suoni o a singoli fonemi d’idiomi determinati. Nella scelta dei segni è data generalmente la priorità alle lettere dell’a. latino. I maggiori a. fonetici moderni si possono ricondurre a due tipi fondamentali: il primo, che si fonda sull’a. latino con l’aggiunta di molti segni diacritici, risale a R. Lepsius (1855) e, variamente perfezionato (E. Böhmer, G.I. Ascoli, 1872, per l’Archivio glottologico italiano; C. Merlo, 1924, per l’Italia dialettale), è tuttora prevalente nella dialettologia italiana ed europea; al secondo, che evita per quanto è possibile i segni diacritici, appartengono tra l’altro l’a. dell’Associazione fonetica internazionale (P. Passy, 1886 riveduto e perfezionato fino al giorno d’oggi), maggiormente seguito in tutto il mondo, e l’a. proposto dalla conferenza di Copenaghen (1925).
Nella descrizione formale di un linguaggio di programmazione (per es. di tipo ALGOL, PL/I, PASCAL, ecc.), l’ a. terminale corrisponde all’insieme dei caratteri accettabili dal corrispondente programma traduttore. Contiene solitamente tre gruppi di segni: il primo comprende i segni alfabetici propriamente detti (generalmente, sulle macchine in uso in Italia, i 26 segni dell’a. inglese), il secondo i segni o caratteri numerici (0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9), il terzo i segni o caratteri speciali, che servono a indicare le operazioni oppure a delimitare le espressioni per consentire la formazione più agevole di espressioni più complesse o per distinguere alcuni tipi di variabili o di espressioni. In relazione ai codici riconoscibili da una macchina (o dal suo assembler o dal suo sistema operativo) in luogo del termine a. è utilizzata l’espressione set (o insieme) di caratteri accettabili (➔ anche codice).