(o serbo-croato) L’insieme dei dialetti parlati nella Serbia e nella Croazia, e in parte anche nell’Istria, nella Slovenia, nel Montenegro e nella Repubblica della Macedonia del Nord, appartenenti, con il bulgaro e lo sloveno, al gruppo slavo meridionale. Se prima del dissolvimento della Federazione iugoslava vigeva il divieto di riferirsi al serbo e al croato come a due lingue distinte, e si riconosceva al più l’esistenza di due varianti, il s. e il croatoserbo, le successive vicende politiche hanno portato a un atteggiamento tendente a sottolineare le loro differenze.
La suddivisione dialettale di serbo e croato si fonda sul diverso modo di esprimere il pronome interrogativo «che cosa» (što, ča, kaj), che identifica i 3 gruppi dello stocavo, del ciacavo e del caicavo. Il serbo è fondamentalmente stocavo; il croato, anch’esso in prevalenza stocavo, si articola anche nei dialetti ciacavo (Istria, isola del Quarnaro e fascia costiera) e caicavo (regione di Zagabria, Karlovac e Bjelovar). Lo stocavo a sua volta si articola in 3 sottogruppi, corrispondenti ai 3 esiti dell’antica vocale ĕ (e, je, i): ecavo, iecavo e icavo. Il conflitto del 1991-95 ha causato devastanti sconvolgimenti etnici e linguistici che non permettono di definire con precisione i confini tra le diverse aree linguistiche.
La lingua letteraria serba, codificata verso la metà del 19° sec. da V. Karadžić, si caratterizza rispetto al croato per fatti fonetici (pronuncia dura della l), morfosintattici (semplificazione dei tempi passati, perdita dell’infinito) e per un lessico ricco di prestiti. A caratterizzare la lingua letteraria croata, codificata nello stesso periodo da L. Gaj, sono l’uso vivo dell’aoristo e dell’imperfetto, il mantenimento dell’infinito e una spiccata tendenza puristica nella creazione dei neologismi (serbo istorija, croato povijest, «storia»; serbo univerzitet, croato sveučilište, «università»). Una certa diversità tra le due lingue si registra anche nel patrimonio lessicale originario (serbo hleb, croato kruh, «pane»; serbo ostrvo, croato otok, «isola»).
L’alfabeto usato è per il serbo quello cirillico, per il croato quello latino, completato da alcuni segni diacritici che servono a differenziare ć ‹č’› e č ‹č› da c ‹z›, đ ‹ǧ’› da d ‹d›, š ‹š› da s ‹s›, ž ‹ ̌ʃ› da z ‹ʃ›. Sulla corrispondenza tra le lettere latine usate dai Croati e le cirilliche usate dai Serbi si fonda la traslitterazione dell’alfabeto cirillico adottata internazionalmente.
Lo sviluppo relativamente tardo della civiltà urbana (18°-19° sec.) e la conseguente sopravvivenza di una cultura patriarcale hanno permesso alle letterature orali dei Serbi e dei Croati di assumere funzioni che in altri contesti culturali sono proprie del discorso scritto e della letteratura d’arte. Le prime indirette notizie di una letteratura orale risalgono all’arrivo degli Slavi nella penisola balcanica (6°-7° sec.). Particolare rilievo ha l’epica, nella quale si possono distinguere vari cicli. Nel 1774 il padovano A. Fortis tradusse in francese la ballata Hasanaginica («La moglie di Hasan aga») che, tradotta in tedesco da F.A.C. Werthes, fu ripresa da J.G. von Herder nei Volkslieder (1778) e nuovamente pubblicata, in una diversa redazione, da J.W. Goethe; grazie a essa si accese in tutta Europa l’interesse per la poesia popolare dei Serbi e dei Croati.
La letteratura serba nasce e si sviluppa nell’ambito di quella civiltà slava contraddistinta dall’influenza culturale bizantina, dall’appartenenza alla Chiesa ortodossa e dall’uso dell’alfabeto cirillico. Inizialmente a carattere religioso e redatta in slavo ecclesiastico, essa si distingue dalle altre letterature slave per la forte valenza etico-politica della sua produzione agiografica: i santi di cui si scrivono le vite sono alti rappresentanti delle istituzioni statali. Durante la dominazione ottomana si ebbe una profonda decadenza delle lettere, essenzialmente legata alla fine dello Stato, la cui esaltazione aveva fino ad allora costituito il tema di fondo. Un’importante influenza continuò a essere esercitata dal monastero di Chiliandari sul Monte Athos, centro spirituale dell’ortodossia greca e slava. Con la grande migrazione serba in terra ungherese (1690), guidata dal patriarca Arsenije III Čarnojević, il centro della vita culturale si trasferì fra le colonie serbe nell’Impero asburgico, in un ambiente nel quale i Serbi si trovarono nella necessità di difendere la propria identità; la Russia, come paese con cui condividevano lingua e stirpe, divenne il loro principale punto di riferimento. Poesia didascalica e poesia barocca, sviluppatesi sotto l’influenza russa e ucraina, divennero i generi dominanti, grazie ad autori come H. Žefarović, J. Rajić, Z. Orfelin.
La cultura mantenne il suo carattere prevalentemente religioso fino agli ultimi decenni del 18° sec., quando, con le riforme che investirono tutti i popoli dell’Impero asburgico, si trovò proiettata nel pieno del movimento illuministico. D. Obradović fu il più eminente rappresentante della sintesi illuministica tra filosofia e letteratura, e il promotore di un vasto programma di riforma della cultura e della società serbe. I suoi seguaci ripresero e svilupparono alcuni elementi secondari della sua opera (l’esaltazione dei sentimenti, il culto della natura, l’idealizzazione del popolo), e il sentimentalismo divenne lo stile dominante della generazione successiva, che si dedicò in particolare al romanzo e al dramma. L. Musički diede vita a una poesia classicistica d’ispirazione oraziana, creando un modello con cui si misureranno molti autori della prima metà del 19° secolo.
La riforma culturale che segna un punto di svolta nella storia della letteratura serba fu attuata da V. Karadžić. Presupposto della sua azione fu il passaggio dalla fase dei moti spontanei contro il dominio turco a una nuova consapevolezza nazionale e sociale. La poesia di tradizione popolare prese nuovo vigore e il canto epico raggiunse la sua perfezione. Karadžić seppe coglierne l’importanza, e la sua battaglia per l’adozione di una lingua letteraria basata sul volgare e di un’ortografia di tipo fonologico, e per la creazione di una letteratura su base nazionale, ebbe conseguenze rivoluzionarie. Il suo programma fu tradotto in poesia dal montenegrino P. Petrović-Njegoš, che per primo compose un poema epico d’autore ispirato ai canti popolari. B. Radičević coniugò l’influenza della lirica occidentale (G. Byron, H. Heine) con i modi dei canti tradizionali ‘femminili’ (cioè eseguiti da donne e di contenuto lirico, a differenza di quelli eseguiti da uomini e di contenuto epico). Nacque il teatro nazionale per merito di J. Popović-Sterjia, le cui commedie denunciavano i difetti della nuova borghesia emergente. Verso la metà del secolo s’impose il Romanticismo, veicolato dalla passione politica della gioventù democratica, anticlericale e antiaustriaca, che sosteneva l’ideale della liberazione e dell’unificazione di tutti i Serbi. La città di Novi Sad divenne il centro della vita letteraria; i grandi lirici del Romanticismo europeo furono i modelli delle nuove generazioni, che vantavano poeti come J. Jovanović Zmaj, Ð. Jakšić e L. Kostić.
Dagli anni 1870 il realismo divenne lo stile dominante. La Serbia era ormai indipendente, Belgrado era la nuova capitale culturale, e, superata la fase risorgimentale, la letteratura scoprì l’osservazione della vita quotidiana e le tematiche regionali. Si leggevano e si traducevano i grandi romanzieri russi; il racconto di stile gogoliano era il genere più praticato. Teorico del nuovo corso fu S. Marković che, formatosi alla scuola del pensiero socialista, additava ai contemporanei il tema della contrapposizione tra la Serbia patriarcale di una volta e il moderno Stato burocratico. Primo scrittore realista fu J. Ignjatović. Il racconto d’ambientazione paesana fu coltivato da L. Lazarević, M. Glišić e J. Veselinović, cui si aggiunsero il dalmata S. Matavulj e S. Sremac, originario della Voivodina. Notevole vitalità dimostrava anche il teatro, dominato da B. Nušić, le cui commedie principali appartengono ormai al nuovo secolo.
Gli anni fra il 1901 e il 1914 (periodo in cui fu pubblicata la rivista Srpski književni glasnik «Il messaggero letterario serbo») videro diffondersi i modelli parnassiani e simbolisti, ma anche una rinnovata attenzione per l’elemento nazionale e popolare. A. Šantić e J. Dučić rappresentano i due poli estremi del tradizionalismo e del modernismo occidentalizzante. Il narratore più significativo è il bosniaco B. Stanković, che fuse in modo originale analisi sociologica e psicologica. Dopo le devastazioni della Prima guerra mondiale si affermarono l’espressionismo e il surrealismo; fra gli scrittori assume un ruolo di primo piano M. Crnjanski.
La storia della letteratura croata è caratterizzata fino a metà del 19° sec. da una serie di manifestazioni locali che rispecchiano la frammentazione politica conseguente al precoce e protratto assoggettamento a varie dominazioni (veneziana, ungherese, turca, asburgica), creando situazioni culturali molto diverse all’interno di un territorio limitato.
Le origini della letteratura croata sono legate all’eredità culturale degli apostoli Cirillo e Metodio: quando i loro discepoli furono cacciati dalla Grande Moravia (885), la loro tradizione si trasferì tra gli Slavi meridionali. Di tale tradizione la letteratura medievale croata possiede dunque i caratteri fondamentali: alfabeto glagolitico, lingua slava ecclesiastica, contenuto religioso, ideali universalistici, funzione di mediazione fra Occidente e Oriente europeo.
Importante la letteratura medievale della Bosnia, scritta in una particolare forma di cirillico (bosančica), fiorita alle corti dei feudatari locali tra 14° e 15° sec., e in gran parte ispirata all’eresia dei bogomili; rivendicata come propria dalle storiografie letterarie croata e serba, essa presenta in realtà caratteri compositi, che ne fanno un fenomeno a sé. A partire dal 15° sec. Venezia ebbe un’influenza decisiva sullo sviluppo della letteratura dalmata e in particolare di quella ragusea, e fu il tramite per la diffusione fra i Croati della cultura umanistico-rinascimentale latina e italiana. I maggiori scrittori dell’epoca (M. Marulić [M. Marulo]; H. Lučić [A. Lucio]; P. Hektorović [P. Ettoreo]; P. Zoranić [P. De Albis]; M. Držić [M. Darsa]) diedero origine a una notevole produzione plurilingue (italiana, latina e croata) che coniugò i modelli classici e petrarcheschi con quelli popolari slavi e caratterizzò la cultura della regione costiera fino alla metà del 18° secolo.
Il trionfo della civiltà barocca segna quello che è considerato il secolo d’oro della letteratura ragusea, nella quale spiccano i nomi di D. Gundulić (G. Gondola), I. Bučić Vučić (G. Bona) e J. Palmotić (G. Palmotta). Un importante ruolo ebbero anche i francescani bosniaci (M. Divković; S. Matijević; P. Posilović) e i gesuiti (B. Kašić; J. Križanić), le cui opere devozionali e grammaticali contribuirono alla diffusione di un progetto di unificazione linguistica e culturale degli Slavi balcanici e orientali, che anticipava le idee dell’illirismo. Anche autori di altre regioni parteciparono all’arricchimento delle lettere: gli scrittori caicavi (J. Habdelić; A. Vramec); un gruppo di feudatari del Banato (P. Zrinski; K. Zrinska; F. K. Frankopan), cui va il merito di aver cercato di introdurre argomenti profani; e P. Vitezović-Ritter, considerato un precursore del risorgimento nazionale per le sue aspirazioni all’unità linguistico-culturale dei Croati. Ultimo grande scrittore della civiltà ragusea è il gesuita I. Ðurđević (I. Giorgi), la cui lingua costituì a lungo un modello di purezza ed eleganza.
Nel 18° sec., con le riforme asburgiche, gli scrittori scoprirono il popolo: il francescano dalmata A. Kačić Miošić si indirizzò ai «poveri contadini», senza distinzione di stirpe o di fede; dalla Slavonia appena liberata, M.A. Relković esortava a innalzare il livello di vita morale e materiale delle campagne. La politica illuminata di Giuseppe II provocò però l’ostilità delle aristocrazie magiara e croata; nel loro rifiuto della cultura viennese, Ungheresi e Croati (che prima parlavano italiano, tedesco e francese, utilizzando il latino come lingua amministrativa) riscoprirono le loro lingue, dando avvio a un processo destinato a sfociare nel recupero dell’identità nazionale.
Nel 1822 la Croazia fu aggregata all’Ungheria, e nel 1830 il magiaro divenne lingua obbligatoria nell’amministrazione; la reazione croata trovò la sua espressione più lucida nel programma di riforme pubblicato nel 1830 da L. Gaj, che prevedeva l’unificazione di Croati e Sloveni con gli altri popoli slavi attraverso l’adozione di un’unica ortografia e di un’unica lingua letteraria, e che segnò la nascita dell’illirismo. Il movimento illirista, che rivendicava l’autoctonia dei Croati sul loro territorio fondandosi sulla tesi della loro discendenza dagli antichi Illiri, ebbe un’importanza capitale per lo sviluppo della cultura croata: fu grazie al suo impulso che nacquero i primi giornali, teatri e istituzioni scientifiche nazionali. La visione di una Slavia composta di popoli fratelli, che insorgevano contro gli oppressori conquistando la propria libertà spirituale e politica, alimentò i canti dei maggiori poeti romantici, I. Mažuranić e P. Preradović. La prosa di A. Šenoa dominò le lettere croate nel passaggio dal romanticismo al realismo.
Alla violenta politica di snazionalizzazione condotta dal bano ungherese K. Khuen-Héderváry durante il ventennio del suo governo (1883-1903), gli scrittori reagirono facendo della fedele descrizione della vita del popolo uno strumento di lotta e di resistenza politica. E. Kumičić, A. Kovačić e K. Š. Gjalski descrivono i soprusi inflitti dai dominatori stranieri, la scomparsa del vecchio mondo nobiliare, l’inurbamento dei contadini. Con il passaggio al nuovo secolo il disagio politico si collegò a quello sociale; i giovani croati subivano il fascino delle idee modernistiche di H. Bahr e di quelle politiche di T.G. Masaryk, denunciavano le condizioni precarie di gran parte della popolazione e l’uso dell’emigrazione come soluzione ai mali del paese. Nacque la Moderna, che condivideva con analoghi movimenti europei l’adesione ai moduli decadentistici e simbolisti, ma conservava una vigorosa componente realistica e nazionale.
V. Vidrić, J. Polić-Kamov e V. Nazor unirono scavo psicologico e indagine storica, mentre i drammi di I. Vojnović analizzavano il disfacimento spirituale del paese tra 19° e 20° secolo. Figura dominante del 20° sec. croato è quella di M. Krleža, che esordì come simbolista volgendosi poi a descrivere in modo intenso e allucinato l’ottusità della mentalità militarista e la corruzione della società borghese. In poesia T. Ujević diede voce all’intimo disorientamento della sua generazione.
Con la nascita del Regno di Serbi, Croati e Sloveni (1918), si affermò anche in campo culturale un forte impulso unitario, che conobbe tuttavia resistenze e spinte centrifughe. Le vicende successive (dalla resistenza contro l’aggressione tedesca e italiana, all’instaurazione di un regime comunista, alla successiva rottura con l’URSS, nel 1948) non furono senza conseguenze sul piano letterario: il dogma del realismo socialista conobbe una fortuna assai effimera, superato dalla sperimentazione di nuove forme artistiche e dall’apertura alle letterature occidentali. Un ruolo di primo piano ebbero gli scrittori bosniaci: I. Andrić (premio Nobel per la letteratura nel 1961), rievocando vicende del lontano passato, metteva in guardia dall’adesione meccanica a modelli provenienti dall’Est o dall’Ovest; M. Selimović denunciava i meccanismi del potere assoluto e del fanatismo ideologico. Tra i Croati, S. Novak e R. Marinković tentarono di superare le grandi sintesi romanzesche di Krleža descrivendo piccoli mondi in sé conclusi.
Tra gli anni 1950 e gli anni 1980 diversi scrittori sperimentarono nuovi generi romanzeschi; tra loro, il discusso montenegrino M. Bulatović e il borgesiano M. Pavić. Caratteristica saliente è l’insistenza sulla tematica bellica: O. Davičo, D. Čosić e M. Lalić affrontavano i problemi dell’uomo semplice che cerca di sopravvivere e di orientarsi nel turbine della guerra; A. Tišma indagò il rapporto dell’uomo con la violenza; D. Kiš rievocò, in una narrativa di grande perfezione formale, la fine della sua famiglia sullo sfondo della persecuzione nazista in Voivodina. A metà degli anni 1970 cominciarono a emergere le contraddizioni della società iugoslava, fino ad allora contenute e represse; in letteratura si affermò l’‘onda nera’ (D. Mihailović; S. Selenić; A. Tišma; V. Stevanović ecc.), che affrontò temi tabù come le repressioni subite dagli stalinisti iugoslavi, la miseria del sottoproletariato, l’emigrazione; S. Velmar Janković narra in Lagum («La mina», 1990) le angherie cui è sottoposta dai vincitori la moglie di un collaborazionista durante la Seconda guerra mondiale; il drammaturgo D. Kovačević mette a nudo la perdita d’identità di coloro che si conformano acriticamente all’ideologia del partito. A questi autori una più giovane generazione contrapponeva una concezione erudita della letteratura, aperta alle nuove influenze europee (tra cui I. Calvino e U. Eco).
L’inizio della guerra in Croazia e in Bosnia ha risvegliato l’interesse per le tematiche patrie (in primo luogo quelle legate al mito del Kosovo), ma il panorama attuale degli scrittori serbi si mostra piuttosto diviso, anche dal punto di vista ideologico. Importanti risultati, nell’elaborazione letteraria delle drammatiche vicende della cronaca attuale, hanno raggiunto scrittori come V. Stevanović (Sneg u Atini «Neve ad Atene», 1992), S. Tontić (Sarajevski rukopis «Manoscritto di Sarajevo», 1993), S. Selenić (Ubistvo s predumišljajem «Delitto premeditato», 1993). Un gruppo di scrittori serbi (M. Kovač, J. Brković, B. Čosić, ecc.), critici verso la politica panserba di S. Milošević, ha scelto la via dell’esilio in Croazia. Contro l’ideologia della pulizia etnica e il neototalitarismo dirigono i propri strali anche gli esponenti del circolo satirico belgradese (A. Baljak, P. Lazić, V. Jovičević Jov).
Lo scoppio della guerra è stato vissuto come appello alla responsabilità dell’artista croato di fronte alla storia nazionale. P. Pavličić polemizza con il disimpegno degli autori europei postmoderni dal punto di vista di uno scrittore immerso «nella storia fino alla gola» (Otvoreno pismo Madoni Markantunovoj «Lettera aperta a Madona Markantunova», 1992); Ž. Čorak descrive in Pismo iz podruma («Lettera dal sottosuolo», 1991) la sindrome da isolamento vissuta dagli intellettuali croati, la loro attesa inerte di una liberazione dall’esterno. Mentre con I. Aralica e N. Fabrio rivivono le grandi sintesi romanzesche, la poesia si muove in direzione del restauro della tradizione nazionale ed europea. Dominano in generale i temi d’attualità, in primo luogo l’esperienza della guerra, mentre il teatro dà voce (con L. Nola, P. Marinković ecc.) alla solitudine angosciosa della nuova generazione.