Storico greco (n. 200 circa - m. 120 circa a. C.). Venuto a Roma come ostaggio nel 168, legatosi quindi col circolo degli Scipioni, poi, dopo il 146, fu designato da Roma a provvedere all'assetto della Grecia come provincia romana. Nella sua opera principale, le Storie, si propose di narrare come in meno di 53 anni (cioè dal 220-19 al 168-7) i Romani sottoposero al loro predominio il mondo conosciuto. La sua fu la prima storia universale che mai sia stata scritta; universale, s'intende, nel senso che abbracciava, almeno virtualmente, tutti i paesi conosciuti. Nella storia di P. il nesso tra le vicende d'Italia, di Spagna, di Sicilia, d'Africa, di Grecia, di Macedonia, d'Asia, di Siria e d'Egitto è dato dalla politica romana che in tutte queste regioni operava con le arti della pace o della guerra; tutte sottoponendole al predominio di Roma, sicché c'è nell'opera un filo conduttore e un'idea dominante. E la sintesi tra il concetto di storia di Roma e di storia universale, mentre dava a quello un valore nuovo, dava a questo una organicità cui non era stato capace fino allora di assurgere.
Figlio di Licorta, influente uomo politico della lega achea, in questa ebbe nel 169 l'importante carica d'ipparco, ma dopo la sconfitta di Perseo a Pidna (168) fu incluso tra i mille ostaggi che la lega dovette consegnare ai Romani. Ottenne di poter risiedere in Roma e quivi, introdotto nel circolo degli Scipioni, poté conoscere meglio quei Romani che come Acheo aveva avversato. Di qui il suo sforzo di intendere le cause per cui Roma in nemmeno due generazioni (220-168) aveva esteso il suo dominio su tutto il mondo allora conosciuto; di qui pertanto la protezione e i favori dei suoi nuovi eminenti amici cui dovette la possibilità di compiere viaggi (Spagna, Gallia, Africa), spesso accompagnandoli nelle loro imprese (fu con Scipione Emiliano all'assedio di Cartagine nel 146). La fiducia che ormai i Romani avevano in lui fece sì che nel 146, dopo la distruzione di Corinto che concluse l'ultima lotta degli Achei per la libertà, fosse designato a provvedere al migliore assetto da dare alle città della Grecia, compito che cercò di disimpegnare senza avvilire i suoi antichi compatrioti. I suoi ultimi viaggi in Italia e le conversazioni che ebbe con Scipione verso il termine della vita di lui permisero a P. di farsi un'idea delle trasformazioni che erano avvenute in Roma per effetto della conquista. All'amico sopravvisse, perché ne lasciò nelle Storie un elogio che sembra presupporne la morte (129). Chiuse la sua vecchiaia vegeta e laboriosa, morendo per una caduta da cavallo a 82 anni, qualche anno prima del 120 a. C.
P. ebbe educazione liberale e la sua stessa opera rende testimonianza d'una cultura abbastanza larga in materia di poesia, di storia e di filosofia. Oltre ad alcune operette minori, perdute (la biografia del generale acheo Filopemene, in 3 libri, un'opera giovanile; uno scritto di tattica, Περὶ τῆς τάξεως ὑπομνήματα, e un altro sulla abitabilità della zona equatoriale), P. scrisse le Storie in 40 libri, nelle quali erano narrati gli avvenimenti dal 220-19 al 145-44 a. C.; i primi due libri sono una «preparazione» o «prefazione» alla trattazione vera e propria perché vi sono trattati in breve gli avvenimenti dal 264-63 (col 265-64 terminava l'opera di Timeo) al 220-19; col libro 5º si giungeva al 216 a. C., col 15º al 202, col 29º al 168. Dell'opera sono rimasti integri solo i primi 5 libri; abbiamo però gli estratti dai libri 1º-18º (gli Excerpta antiqua) e quelli raccolti da Costantino Porfirogenito. L'opera di P. era fondata su un rigoroso accertamento dei fatti mediante l'utilizzazione di fonti svariate: per le vicende più antiche delle quali non era stato spettatore, si giovò di storici di vario valore e tendenza, il romano Fabio Pittore, l'agrigentino e filocartaginese Filino per la prima guerra punica, forse Postumio Albino e il filocartaginese Sileno per la seconda guerra punica. Per le vicende della Grecia segue in genere la tradizione achea (per es., le memorie di Arato), respingendo violentemente la tradizione filospartana (per es., Filarco); per gli eventi dell'età sua si fonda soprattutto sulla tradizione senatoria, sui suoi particolari ricordi e sulle testimonianze orali dei protagonisti degli avvenimenti medesimi. Non gli è ignoto l'uso di fonti documentarie dirette sulle quali esercita una approfondita ricerca critica; una notevole cura mostra anche nella disposizione cronologica degli avvenimenti, secondo gli anni olimpici (almeno per quanto riguarda i libri dal 3º in poi), sebbene talvolta venga meno alla rigida osservanza di questi canoni per motivi di opportunità. P. è uno storico pragmatico, nel senso cioè che la sua indagine è unicamente volta a un rigoroso e scientifico accertamento dei fatti politico-militari, arricchiti dei chiarimenti cronologici, topografici e istituzionali indispensabili all'intelligenza dei fatti medesimi. Mancano nella sua opera quelle ampie e colorite digressioni che rendevano certo più variate le opere - nel complesso retoriche -di alcuni storici ellenistici, con i quali P. apertamente polemizza. La sua storia invece è espressa in una lingua austera, con uno stile «ufficiale» e tecnico, non sempre però molto chiaro. Viene spesso paragonato a Tucidide per l'impegno nell'indagine dei fatti e per aver bandito dalla storia, che è storia degli uomini, ogni intervento divino, ma ne resta assai lontano per l'assenza di calore umano nella narrazione, per la scarsa indagine psicologica e per la minore concretezza nell'analisi degli avvenimenti. Da Eforo P. mutua il disegno di una storia universale. Egli sembra aver posto mano alla sua storia a più riprese: ai libri 1º-29º, compiuti in un primo tempo, si aggiunsero più tardi i libri 30º-40º. Ciò risulta non tanto dal fatto che in alcuni dei primi libri Cartagine e la lega achea sono considerate come esistenti, ma soprattutto dal diverso giudizio che, della costituzione romana, si dà nell'ambito del libro 6º: ora considerata perfetta, e perciò non soggetta a decadenza, nella sua struttura «mista» di monarchia (consoli), di aristocrazia (senato) e di democrazia (tribunato della plebe), secondo l'ideale peripatetico, ora invece considerata soggetta a degenerare, secondo la dottrina stoica, dal reggimento degli ottimati a quello dei plebei. Queste incongruenze e questo mutamento di opinioni sono da giustificare secondo alcuni con una revisione cui P. attendeva negli ultimi anni della sua vita, dopo il tribunato di Tiberio Gracco (133) che aveva fatto intravedere la possibilità di un sovvertimento dell'antico ordine politico fondato sulla classe senatoria; secondo altri (e con maggiore probabilità) con la consapevolezza insorta nello storico degli elementi di crisi introdotti nella vita politica interna di Roma dalla politica di conquista e di imperialismo da questa praticata con particolare durezza negli anni 149-46.