Decameròn (o Decàmeron, o Decameróne) Raccolta di cento novelle di G. Boccaccio, la cui stesura definitiva può essere attribuita agli anni tra il 1349 e il 1351. Consta d'un proemio, di un'introduzione e di dieci giornate (in greco δέκα ἡμέραι), comprendenti dieci novelle ciascuna. Le cento novelle si fingono raccontate da sette donne (Pampinea, Filomena, Neifile, Fiammetta, Elisa, Lauretta, Emilia) e tre giovani (Filostrato, Dioneo, Panfilo), in campagna presso Firenze, dove la brigata si era rifugiata per l'infuriare in città della pestilenza del 1348. Nella prima giornata si ragiona "di quello che più aggrada a ciascheduno", nella seconda di avventure e peripezie terminate felicemente, nella terza della conquista di beni agognati, nella quarta di amori a triste fine, nella quinta di liete avventure amorose, nella sesta di motti arguti, nella settima di inganni delle mogli ai mariti, nell'ottava di burle e beffe, nella nona di vari fatti a piacimento del novellatore, nella decima di imprese e atti magnanimi. Al principio della quarta giornata e in una Conclusione alla fine del Decameron, l'autore lo difende dai malevoli.
Approfondimento di Natalino Sapegno, da Boccaccio, Giovanni (Dizionario Biografico degli Italiani)
§ Decameròn. Il B. scrisse il suo capolavoro in breve giro di anni, fra il 1349 e il '53, secondo l'ipotesi più attendibile. L'ampia tradizione manoscritta permette di riconoscere, come mostrò fin dal 1927 il Barbi, diverse fasi e stratificazioni del testo, con varianti talora cospicue, aggiunte e soppressioni di singole frasi, fino alla redazione definitiva, attestata da un gruppo numeroso di codici, fra cui è da ricordare il berlinese Hamilton 90, che già nel secolo scorso il Tobler e lo Hecker e di nuovo recentemente il Branca e il Ricci hanno segnalato come autografo, con buone argomentazioni, non tali tuttavia da consentire un'assoluta sicurezza.
Il Decameròn conclude l'esperienza giovanile, e cioè la fase propriamente inventiva e fantastica, dell'attività dello scrittore, e ne riprende la ricca materia sentimentale, liberata ormai dal peso di un prepotente autobiografismo, e le varie sperimentazioni formali, spoglie alfine di ogni pedanteria e ostentazione, perfettamente assimilate e fuse nel pieno possesso di un linguaggio e di uno stile. Al tempo stesso l'opera s'innalza, incomparabilmente superiore ai poemi e romanzi precedenti, per l'ampiezza del disegno, la complessità e l'ordine della struttura, la varietà e la ricchezza dei motivi d'ispirazione: non più strumento di un appassionato sfogo individuale, ma specchio di una società, espressione di un momento storico del sentimento e del costume. C'è evidentemente alla radice del mondo poetico del B., quale appare dal capolavoro, una concezione coerente della vita, che definisce e armonizza i molteplici aspetti della personalità dello scrittore, reperibili, in varia misura, in ciascuna delle opere minori: e l'occasione di questa sintesi si può ravvisare nel ritorno a Firenze del B., nel conseguente accostarsi allo spirito della civiltà borghese del Comune, nella partecipazione, sempre più piena e cosciente, ai costumi di tale società, che ha raggiunto un grado altissimo di sviluppo ed è già in fase di lenta discesa. I cardini di questo sostrato ideale, che costituisce il terreno d'incontro tra lo scrittore e la società fiorentina del suo. tempo, si individuano in una schietta e spregiudicata considerazione degli umani affetti, accettati nella loro oggettiva validità, disancorati da qualsiasi pregiudiziale di ordine trascendente, e nel riconoscimento più aperto e sincero dell'intelligenza, operante nel campo di concrete esperienze e non di sterile dottrina, audacemente impegnata per piegare le resistenze della natura e della fortuna. Su una base siffatta di concrete corrispondenze poteva essere accolto e riproposto dal B. quanto di più originale era stato prodotto dalla cultura borghese (non soltanto quella consegnata alle pagine dei trattati e delle cronache o espressa nella varia letteratura dell'età comunale, ma quella radicata nella pratica di mercanti e di pubblici funzionari, di tecnici e di giuristi, viva nel costume degli ingegni più disincantati e polemici), e poteva ordinarsi in una struttura che non trova paragone, per vastità e ricchezza di motivi, se non con la Commedia di Dante. Alla quaIe tuttavia si contrappone, più che affiancarsi, ché, mentre il libro dell'Alighieri suggella secoli di cultura, il Decameròn è piuttosto l'anticipazione di un nuovo senso della realtà, improntato ad un decoro che si modella ancora sugli ideali cavallereschi della sfarzosa civiltà feudale, ma libero e aperto, indulgente verso le passioni e aspro contro ogni forma di ipocrisia e di corruzione. L'opera, che è passata nel ricordo dei più come un repertorio di situazioni comiche e licenziose, vuole essere invece un messaggio profondamente serio, il richiamo ad un concetto sereno e coraggioso della vita tutt'altro che sordo ai valori morali e religiosi, pur senza concedere in nessun punto al fideismo e al moralismo filisteo. Sotto questo aspetto si giustifica la tragica cornice del libro: la descrizione della peste, che avvolge entro schemi narrativi dichiaratamente impersonali le reazioni del sentimento offeso dallo spettacolo della strage, include anche una lezione morale, prendendo le mosse dall'immagine di un disfacimento fisico ed etico-sociale, onde risultino annientati, nella corruzione di ogni norma di vivere civile e nel trionfo del più cieco egoismo, persino i vincoli dell'amicizia e del sangue, e fra i superstiti si impongano "quasi di necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini".
Su questo sfondo di morte, di disordine morale e quasi di rinnovata barbarie, si delinea per contrasto la condizione volontariamente attuata, e per dir così costruita artificiosamente, di alcuni giovani - sette fanciulle e tre uomini - che, incontratisi per caso nella chiesa di S. Maria Novella, decidono di ritirarsi a vivere insieme per qualche tempo in una villa in collina, dove si sforzeranno di evadere da quell'atmosfera di lutto e di incubo, alternando agli svaghi, alle danze, ai giochi, alle piacevoli conversazioni, ai banchetti, alle gite, anche il racconto di novelle piacevoli e interessanti: quelle stesse che costituiscono la sostanza del libro, cento in tutto, recitate in dieci giorni dai dieci novellatori, sul tema proposto di volta in volta da quello di loro cui spetta in quel giorno di reggere la brigata. In tale proposito di evasione si scopre un'antitesi tra il medievale trionfo della morte e un trionfo della vita che si realizza nell'esaltazione di valori mondani, degli istinti e della ragione, laddove il primo si determinava come negazione ascetica. Valga a questo riguardo l'immagine felicissima dei dieci giovani "tutti di fronde di quercia inghirlandati, con le mani piene o d'erbe odorifere o di fiori", tali che "chi scontrati gli avesse, niun'altra cosa avrebbe potuto dire se non: 0 costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti": un emblema di sapore rinascimentale, il quale deve essere comunque interpretato nel senso che l'arte dello scrittore trascende ed unifica entrambi i termini dell'antitesi, e sarà quindi la sua opera commedia e tragedia, includerà luci ed ombre, comprenderà la virtù dell'uomo e la resistenza formidabile del caso. Perciò la cornice del Decameròn si inserisce in una prospettiva coerente dell'opera anche se, per altro verso, assolve una funzione decorativa, sottolineata dalle elaborate scenografie, dalle deboli invenzioni poetiche che segnano il trapasso da una giornata all'altra. E mentre la descrizione del contagio giustifica, su un piano di assoluta eccezionalità, la spregiudicatezza di alcune novelle, il ricorso inventivo ad un eremo appartato e felice come paesaggio naturale delle gaie conversazioni rappresenta lo stato di distacco con cui i racconti sono stati concepiti e vogliono essere intesi.
Gli stessi nomi dei novellatori rievocano le figure dei romanzi giovanili, ma il loro carattere si è come smorzato in un tono di reminiscenza lontana: Panfilo, il fortunato amante; Filostrato, l'amante tradito e disperato; Dioneo, il gaudente spregiudicato, rappresentano tre facce, tre momenti ideali dell'uomo B., ma trasportati in una luce immobile e diafana. Né dissimile è il compito e il carattere delle donne: Pampinea, nel pieno rigoglio della sua gioventù, saggia e serena, amante riamata; Filomena, anch'essa savia e discreta e pur piena di "desio focoso"; Elissa, acerba adolescente, schiava di un violento e doloroso amore; Neifile, giovanissima anch'essa, ma lieta e pronta al canto e ingenuamente lasciva; Emilia, innamorata di sé come Narciso; Lauretta, amante gelosa; Fiaminetta, lieta di un ricambiato amore e pur sempre trepidante che non le sia tolto: altrettante proiezioni del remoto mondo poetico dei romanzi giovanili. Le novelle si raccolgono secondo un disegno sapiente, tra quelle raccolte nella prima giornata, dedicata agli esempi di potenti che vengono meno alla prerogativa dell'autorità, a quelle incluse nella decima giornata, vertenti sull'apologia di personaggi illustri per magnanimità e cortesia. Entro questi limiti si svolge una vastissima descrizione di casi umani, che sarebbe difficile ridurre ad un tema fondamentale. Per dimostrare la tensione tragica del libro basterebbe la rigorosa coerenza espressiva che caratterizza alcune tra le più celebri novelle: quella della moglie di Guglielmo Rossiglione (IV, 9), che, costretta dal marito a mangiare il cuore del suo amante, delibera di gettarsi dalla finestra del castello; o quella di Ghismonda da Salerno (IV, 1), che rinuncia alla vita poiché il padre le ha fatto uccidere il valletto di cui era innamorata, ove la fermezza della risoluzione ben si addice alla nobiltà del lignaggio e alla distinzione intellettuale. Su un piano di esperienze più accessibili e quotidiane il medesimo valore comporta nobiltà di costumi, finezza di consuetudini, riservatezza e disprezzo di fronte a tutto ciò che può essere giudicato volgare. È il segno che distingue l'eroica gentilezza di Federico degli Alberighi (V, 9), la cortesia di Natan (X, 3), la malinconica saggezza di Carlo d'Angiò (X, 6), la splendida regalità di Pietro d'Aragona (X, 7); ma può anche far risaltare figure meno appariscenti di poeti e artisti, come Giotto (VI, 5) e Guido Cavalcanti (VI, 9), brillare nel contegnoso decoro di un uomo di corte come Bergamino (I, 7), nella chiusa e struggente passione di una semplice fanciulla come Isabetta messinese (IV, 5), nella pronta finezza dell'ebreo Melchisedech (I, 3), nella signorilità istintiva del fornaio Cisti (VI, 2). Il limite di alcune di queste storie di virtù e di cortesia, come per esempio quella di Griselda (X, 10), o di Tito e Gisippo (X, 8), è costituito forse da un eccesso di stilizzazione: si tratta però di un limite quasi sempre superato dalle risorse inventive dello scrittore, dalla sua estrema apertura anche verso le forme più sottili e complesse di una raffinata psicologia.
Se la fortuna dispone capricciosamente dei destini umani e sembra eludere ogni saggio accorgimento inteso a piegarla entro i confini della volontà individuale, l'intelligenza consiste nel sapersi abbandonare ad essa, onde cogliere a tempo debito l'occasione propizia o rendere anche le sventure fonte d'esperienza. Tale disposizione dinamica nei confonti della fortuna, svincolata da ogni tentativo di teorizzazione metafisica e precorritrice di un concetto umanistico che sarà sviluppato dall'Alberti e poi dal Machiavelli, si unisce nel B. con il gusto per l'avventuroso (corretto però, quasi sempre, a differenza di quanto avveniva nei romanzi, da una forte esigenza di realismo), per il ben congegnato gioco di peripezie, cui deve assoggettarsi, con esito incerto, il protagonista: Andreuccio da Perugia (II, 5), Landolfo Ruffolo (II, 4) o Alatiel (II, 7). In altri casi la persistente vocazione romanzesca diventa gusto della sorpresa, come nella bellissima novella di Pietro Boccamazza e dell'Agnolella (V, 3); piega al divertimento e allo scherzo, come nel racconto di Rinaldo d'Esti (II, 2), a cui il gioco mutevole del caso riserba inaspettatamente una meravigliosa notte d'amore; o si traduce in spunto di beffa e di commedia in quello di Salabaetto e della donna siciliana (VIII, 10). Il comico occupa una parte preponderante nel Decameròn, e non solo quantitativamente, se si pensa alla felicità inventiva di alcune novelle che sono tra le più famose del libro. Bisogna tuttavia rapportare questa materia a temi ben presenti e attivi nelle intenzioni dell'autore (quello dell'umana intelligenza, ad esempio, nella novella di Pinuccio e Adriano: IX, 6) o ricondurla a motivi polemici evidentissimi, in senso antiascetico, nelle vicende di Madonna Filippa (VI, 7), della moglie di Ricciardo da Chinzica (II, 10), di Alibech romita (III, 10), e non valutarla in maniera del tutto superficiale come gioco di equivoci e di lascivie.
Altrove la materia maliziosa del racconto sottolinea la spietata rappresentazione di un ambiente (nella novella della monaca e della badessa: IX, 2), permette una acuta penetrazione psicologica, come nella storia di Masetto da Lamporecchio (III, 1); infine il motivo della beffa può sublimarsi in una sincera ammirazione per l'astuzia che trionfa non soltanto sulla sciocchezza, ma anche sul più scaltrito pregiudizio (nella novella di Ferondo: III, 8). Va inoltre considerato che il tema dell'intelligenza, o della scaltrezza, nella sua versione più immediata ed estemporanea, non si isola mai in un modulo rigido di rappresentazione, ma si inserisce in una più fitta trama di motivi, che include, da un lato, la polemica contro le viventi negazioni dell'ideologia borghese dello scrittore - monaci e chierici ipocriti, come frate Cipolla (VI, 10) o il prete di Varlungo (VIII, 2), ma anche imbroglioni come ser Ciappelletto (I, 1) - e contempla, dall'altro, una sorta di pietà e di rispetto per il mondo degli ingenui che sono vittime, non esclusivamente comiche, dell'astuzia e dello scherno: come è il caso dei racconti che si imperniano sul ridicolo e spregiato ma anche patetico e umanissimo personaggio di Calandrino (VIII, 3 e 6; IX, 3 e 5). Forse proprio questa complessità di implicazioni ideali e fantastiche ha determinato la maggior fortuna popolare di talune novelle comiche.
A questa grande varietà di temi il B. giunge in virtù di una inesauribile facoltà inventiva, che utilizza le cosiddette fonti, classiche mediolatine e romanze, popolari e illustri, come meri spunti narrativi (sotto questo aspetto è tipica la novella di Nastagio degli Onesti, V, 8, che ripropone trasformandola la trama di un exemplum già usufruito, nel suo stretto senso religioso. da Iacopo Passavanti). E la ricca gamma dei moduli narrativi trova la sua unità in una intelligenza profondamente comprensiva dei vizi e delle virtù umane, tesa verso un tipo di rappresentazione mai astratta, bensì articolata in una trama di concrete passioni; tale prospettiva invade anche le svolte più tragiche o patetiche o elegiache, condiziona le più sublimi esaltazioni della libertà morale e dell'ingegno, limita il gusto per l'avventuroso e il fiabesco, stempera il comico in una dimensione di più alta umanità e di saggezza. Sempre perfetta è l'ambientazione storica dei personaggi, rigoroso il nesso logico che determina gli avvenimenti, sì che persino le situazioni più lontane dalla realtà presentate dalle fonti acquistano una connotazione verisimile.
Alla ricchezza della materia e all'equilibrio raggiunto dalla concezione ideale dello scrittore si adegua dappertutto la pienezza e maturità dello stile. Sintassi e lessico si distendono con inusitata libertà di movenze nelle direzioni più varie. Ai modi alti e modulati, alle strutture complesse della prosa d'arte, si affiancano ora e si alternano nuove invenzioni formali, attingendo quando occorre all'arguto motteggiare e alla vivacità ellittica del parlato cittadinesco, non respingendo neppure in taluni casi le risorse espressionistiche del dialetto o, come nella novella di Belcolore (VIII, 2), le forti coloriture della satira villanesca. Nasce così la meravigliosa prosa del Decameròn (che non può esser valutata in astratto, come pure troppo spesso si fece nel corso dei secoli, ora lodandola come un modello infallibile, ora deprezzandola come una norma artificiosa, ma sempre fuori del suo contesto storico): quella prosa insieme riposata e scorrevole, sostenuta senza inutili lentezze, robusta e agile, artisticamente elaborata ma in nessun punto scolastica, flessibile varia e pronta ad assecondare le diverse intonazioni comiche o drammatiche, elegiache o patetiche, umili o solenni del racconto. Così ricca ed intensa era stata nell'autore del Decameròn la ricreazione poetica di una civiltà, la quale contiene in germe tutto lo sviluppo della storia moderna, che l'Europa intera (da Chaucer a Margherita di Navarra, da Hans Sachs all'Ariosto e al Bandello, da Shakespeare a La Fontaine) poté lungamente riconoscersi in essa e muoversi a suo agio in quell'orizzonte di idee e di sentimenti e ricavarne infiniti spunti per nuove creazioni fantastiche.