Termine storiografico usato per indicare quel complesso processo spirituale e politico, quella serie di trasformazioni economiche e sociali, di atteggiamenti letterari e culturali, di eventi diplomatici e militari, che tra la fine del Settecento e l’Ottocento, intrecciandosi e contrastandosi, portarono l’Italia dal secolare frazionamento politico all’unità, dal dominio straniero all’indipendenza nazionale, dall’assolutismo monarchico allo Stato liberale e costituzionale sotto la dinastia sabauda (v. fig.).
Il Congresso di Vienna (1814-15) aveva riportato l’Italia alla frammentazione in vari Stati, soggetti al dominio diretto o indiretto dell’Austria. Contro la Restaurazione (➔) si formarono alcune società segrete di orientamento democratico-radicale, che animarono la prima fase del R. battendosi per un’Italia libera, unita e indipendente: la Carboneria organizzò i moti del 1820-21 nei regni delle Due Sicilie e di Sardegna e del 1831 in Emilia Romagna e nelle Marche; la Giovine Italia di G. Mazzini promosse diverse insurrezioni. Il fallimento di queste azioni favorì la nascita di correnti moderate, che cercarono la collaborazione di sovrani e ceti dominanti. Il neoguelfismo, propugnato da V. Gioberti, proponeva una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del papa; C. Balbo e M. d’Azeglio promossero il ruolo di guida del Piemonte sabaudo; C. Cattaneo mirò a una federazione italiana di repubbliche autonome. La breve stagione delle riforme, inaugurata dall’elezione al pontificato di Pio IX (1846), vide i sovrani concedere gli statuti, ma si concluse con le rivoluzioni del 1848. Carlo Alberto di Savoia dichiarò guerra all’Austria, dando inizio alla prima guerra d’indipendenza; nella prima fase i piemontesi furono affiancati da Pio IX, Leopoldo di Toscana e Ferdinando re delle Due Sicilie, ma, dopo il ritiro degli alleati, la controffensiva austriaca fu affrontata dai soli piemontesi. Dopo la sconfitta di Carlo Alberto (1848) a muoversi furono i democratici, con la proclamazione delle Repubbliche di Toscana, Venezia e Roma. Nel 1849 Carlo Alberto attaccò nuovamente l’Austria, ma, dopo essere stato sconfitto a Novara, abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II. Cadute le Repubbliche, tutte le Costituzioni furono revocate, a eccezione dello Statuto albertino. Dopo il fallimento dei tentativi insurrezionali mazziniani, l’iniziativa passò alla monarchia sabauda e a Cavour, capo del governo piemontese, che cercò in Europa le condizioni diplomatiche per la seconda guerra d’indipendenza, assicurandosi l’appoggio di Napoleone III. Il conflitto (1859-60), dopo le insurrezioni dell’Italia centrale e la spedizione dei Mille di G. Garibaldi, si concluse con i plebisciti per l’annessione delle regioni centro-meridionali e la proclamazione del Regno d’Italia (1861) da parte del Parlamento di Torino e quindi con il successo del programma monarchico unitario.
Con il nome di guerre del R. si designano le guerre, dette d’indipendenza, combattute contro l’Austria le prime due dal Regno di Sardegna e la terza dal Regno d’Italia. Guerre del R. si considerano anche tutte le campagne del 1860, cioè la spedizione garibaldina per la liberazione della Sicilia e del Mezzogiorno, e la spedizione piemontese per la liberazione dell’Italia centrale, alle quali seguì la proclamazione del Regno d’Italia. Dopo tali guerre e campagne rimanevano ancora fuori dell’Italia unificata il Lazio e Roma, liberati nel 1870, e il Trentino, Trieste e l’Istria, liberati con la Prima guerra mondiale.
La prima guerra d’indipendenza. Il 23 marzo 1848 il re Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria. All’esercito piemontese (ca. 80.000 uomini) si aggiungevano i reparti volontari degli altri Stati italiani (6000 Toscani, 14.000 Romani, 14.000 Napoletani e nuclei di Parmensi, Modenesi, Lombardi e Veneti). L’esercito austriaco (ca. 70.000 unità) era comandato dal maresciallo J. Radetzky. L’8 e 9 aprile i Piemontesi occuparono i passi più importanti sul Mincio, e divennero padroni delle porte per entrare nel Quadrilatero (formato dalle fortezze di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago). Tuttavia solo il 28 aprile l’esercito piemontese intraprese un’avanzata sotto Verona allo scopo di costringere Radetzky a uscire dalla città. Fallito questo tentativo, le operazioni conobbero uno stallo; assediata Peschiera, i Piemontesi ne attendevano la caduta. Frattanto Radetzky decise di prendere l’offensiva, aggirando le posizioni nemiche per tagliar loro la ritirata (28-29 maggio). Tale manovra venne a urtare, sulla linea Curtatone-Montanara, contro i battaglioni degli studenti toscani che combattendo eroicamente diedero tempo ai Piemontesi di rispondere. Dopo la battaglia di Goito (30 maggio), gli Austriaci dovettero ritirarsi su Mantova; lo stesso giorno Peschiera capitolava. Ai primi di giugno Radetzky costrinse alla resa, intorno a Vicenza, l’esercito pontificio. L’incerta condotta dell’esercito sardo, la diffidenza dello Stato Maggiore nei confronti dei volontari e l’isolamento in cui era rimasto il Piemonte dopo l’allocuzione pontificia del 29 aprile, con il successivo ritiro dal fronte di tutti i reparti regolari degli Stati italiani, contribuirono a capovolgere la situazione. L’offensiva asburgica (23-25 luglio) culminò nella battaglia di Custoza. Dispostisi intorno a Milano, i Piemontesi dovettero cedere. Nella notte del 4 agosto il re chiese una capitolazione, cui seguì (9 agosto) l’armistizio, stipulato dal generale C. Canera di Salasco, per il quale i Piemontesi si ritiravano al di là del Ticino. Nella seconda metà d’agosto, Garibaldi tentò un riuscito colpo di mano su Varese; ma, costretto poi a ritirarsi, si rifugiò in Svizzera.
Fallite le trattative di pace, l’esercito piemontese fu oggetto di riforme organiche. Per il comando supremo fu scelto il polacco W. Chrzanowski. Cedendo alle pressioni dei democratici e degli emigrati, il Piemonte il 12 marzo 1849 denunciò l’armistizio. Il 20 marzo, grossi contingenti austriaci passarono il Ticino senza incontrare resistenza. Chrzanowski dispose allora un completo cambiamento di fronte a S, mentre gli Austriaci avanzavano ancora. Il 23 marzo l’esercito piemontese fu battuto a Novara da quello austriaco. Carlo Alberto, travolto dalla sconfitta, abdicò a favore di Vittorio Emanuele che il 24 concludeva l’armistizio di Vignale, in base al quale le truppe austriache occupavano la Lomellina e il Novarese, e i Piemontesi dovevano sgomberare dai territori di Piacenza, Modena e Toscana.
La seconda guerra d’indipendenza. Mentre Cavour preparava il Piemonte alla guerra sul piano politico interno e internazionale con l’alleanza francese, il generale A. La Marmora, ministro della Guerra, attendeva a migliorare l’esercito. I volontari provenienti da tutta l’Italia furono in parte incorporati nelle truppe regolari (ammontanti a ca. 60.000 combattenti), mentre i più costituirono corpi speciali autonomi, come i Cacciatori delle Alpi, comandati da G. Garibaldi. Il 26 aprile 1859, rifiutato dal Piemonte l’ultimatum austriaco, ebbe inizio la guerra. I Francesi (ca. 120.000 uomini) scesero in Italia e si concentrarono attorno ad Alessandria facendo massa con i Piemontesi (16 maggio). Solo dopo energiche pressioni da parte di Vienna il capo dell’esercito austriaco, generale F. Gyulai, si decise all’azione, dispersa in vari e non coordinati tentativi di passare il Po e poi di puntare su Torino. Sconfitti a Montebello (20 maggio) e a Palestro (31 maggio), gli Austriaci furono costretti a ripiegare oltre il Ticino. Napoleone III puntò allora in direzione di Milano e il 4 giugno si ebbe lo scontro di Magenta, il cui esito rimase incerto finché Gyulai decise la ritirata generale verso il quadrilatero veneto. L’8 giugno i sovrani del Piemonte e di Francia entravano in Milano, mentre nello stesso giorno si svolse il combattimento di retroguardia di Melegnano.
Intanto, con poco meno di 5000 volontari Garibaldi aveva sostenuto con successo il 26 maggio un combattimento a Varese, seguito il 27 da un altro successo a San Fermo (Como). Dopo Magenta, poté occupare anche Lecco, Bergamo e Brescia. Garibaldi fu poi inviato in Valtellina, da dove intendeva invadere il Trentino, ma la firma dei preliminari di Villafranca gli impedì di mettere in atto i suoi piani.
Il 22 giugno l’imperatore Francesco Giuseppe, che aveva assunto il comando dell’esercito assistito da H.H. Hess, ordinò di ripassare il Mincio per un attacco in grande; gli Austriaci e i Franco-Sardi il 24 si scontrarono a S del Garda, a Solferino e a San Martino. Dopo combattimenti accaniti la battaglia fu vinta dagli Alleati. La sera stessa gli Austriaci ripararono dietro il Mincio, per poi entrare nel Quadrilatero. Mentre Garibaldi teneva sotto la sua minaccia il Trentino e l’Alto Adige, la flotta alleata avrebbe dovuto attaccare Venezia, ma Napoleone III propose a Francesco Giuseppe l’armistizio, firmato la mattina dell’8 a Villafranca; i due imperatori poi s’incontrarono l’11, ancora a Villafranca, e siglarono i preliminari di pace.
La liberazione del Mezzogiorno e dell’Italia centrale. Mentre nell’Italia meridionale, sotto la guida di G. Garibaldi si svolgeva la Spedizione dei Mille (➔ Mille, Spedizione dei), Cavour spingeva avanti gli ultimi preparativi per l’invasione dello Stato pontificio. Il 10 settembre 1860 mandava un doppio ultimatum alla corte di Roma e al generale Lamoricière, perché licenziassero le truppe straniere; alla risposta negativa, l’11 Cavour ordinava d’invadere lo Stato pontificio. Lamoricière tentò di raggiungere Ancona, dove confidava di ricevere soccorsi dall’Austria via mare; ma fu battuto a Castelfidardo. Il 28 settembre Ancona capitolava e il 3 ottobre vi faceva il suo ingresso Vittorio Emanuele, assumendo il comando supremo. Si voleva infatti al più presto essere presenti là dove operava Garibaldi, dovendosi compiere l’accerchiamento delle forze residue di Francesco II dopo la battaglia del Volturno (1°-2 ottobre). I Borbonici si ritrassero dietro il Garigliano; quindi si rifugiarono a Gaeta, che resistette fino al 13 febbraio 1861, poiché Napoleone III si era deciso a ritirare la flotta francese solo verso la fine di gennaio.
La terza guerra d’indipendenza. La terza guerra d’indipendenza è strettamente legata, nei suoi precedenti diplomatici e nelle sue vicende, alla contemporanea guerra austro-prussiana. Per quanto riguarda le operazioni del Veneto, la superiorità numerica dell’esercito italiano era nettissima, essendo l’Austria impegnata in Boemia. Quanto alle forze di mare, il rapporto risultava ancora più favorevole agli Italiani. L’esercito italiano, che era comandato da Vittorio Emanuele II e aveva come capo di Stato Maggiore A. La Marmora, era supportato da un numeroso corpo di volontari, agli ordini di Garibaldi, per la difesa della Valtellina. L’esercito austriaco era comandato dell’arciduca Alberto; a difesa del Trentino fu costituito un corpo di montanari, agli ordini del generale F. Kuhn. Sei giorni dopo l’inizio delle ostilità fra Austria, Baviera, Hannover, Sassonia, Württemberg da una parte, e Prussia dall’altra, il 20 giugno 1866 l’Italia dichiarò la guerra e il 23 La Marmora iniziò il passaggio del Mincio. La mattina del 24 si accese la battaglia di Custoza. L’insuccesso italiano costrinse La Marmora a ordinare la ritirata dell’armata del Mincio sulla destra del fiume. Gli Austriaci non poterono però muovere all’inseguimento, poiché il disastroso andamento della guerra in Boemia dopo la battaglia di Sadowa (3 luglio) rese necessario richiamare forze dal Veneto per avviarle al Danubio e affidare all’arciduca Alberto il comando delle operazioni contro la Prussia. Nel campo italiano, dimessosi La Marmora, il comando supremo fu affidato a E. Cialdini. Intanto l’Austria decise di dare immediato corso alla convenzione segreta del 12 giugno 1866 stipulata con Napoleone III e rimetteva a questo in anticipo la Venezia, che avrebbe dovuto consegnargli solo dopo la guerra, in caso di vittoria dell’Austria sulla Prussia. Napoleone III fece pressione sull’Italia perché sospendesse le operazioni, ma l’insistenza dell’opinione pubblica e del governo spinsero il re a continuare la guerra tentando di ottenere la liberazione del Trentino e della Venezia Giulia prima che si giungesse alla pace. L’8 luglio Cialdini passava il Po dirigendosi su Rovigo. Un nuovo piano di guerra fu preparato il 14 luglio. Fino all’Isonzo (24 luglio) l’avanzata fu compiuta senza incontrare il nemico, ma l’annuncio dell’armistizio austro-prussiano rese necessario arrestare le operazioni (12 agosto, armistizio di Cormons). Contemporaneamente Garibaldi, che si era aperto la via di Trento, ricevette l’ordine di sgombrare tutto il Trentino occupato.
La conquista di Trieste fallì completamente anche in mare. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia (20 giugno), la flotta, comandata dall’ammiraglio C. Persano, da Taranto si portò ad Ancona, dove giunse il 26. Il comandante della flotta asburgica, W. von Tegetthoff, il 27 giugno si presentò con la sua squadra davanti al porto di Ancona e la flotta italiana, in gran parte ancora immobilizzata, non gli uscì incontro. Tegetthoff ripiegò verso Pola. In sostanza nulla di grave era avvenuto in quel giorno, ma l’episodio fu considerato come un’evidente prova di pavidità di Persano. Il ministro della Marina, A. Depretis, ordinò allora di tentare l’occupazione dell’isola di Lissa, per costringere gli Austriaci a uscir fuori dalla loro munita base di Fasana. Pur dopo lo scacco, gli Italiani disponevano di una netta superiorità quantitativa sugli avversari, ma l’armistizio di Nikolsburg costrinse il quartier generale di Ferrara a ordinare la fine di qualsiasi operazione nell’Adriatico.
Sul piano storiografico il R. è stato a lungo oggetto di polemiche accese. I primi contrasti interpretativi esplosero all’indomani stesso dell’unificazione politica dell’Italia: le esaltazioni apologetiche e agiografiche dei vincitori, monarchici, moderati, liberali da una parte, le requisitorie e le recriminazioni dei vinti, mazziniani e repubblicani, borbonici e clericali dall’altra, hanno radici nelle stesse lotte e passioni risorgimentali. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, alle rappresentazioni spesso convenzionali dell’epopea risorgimentale si contrappose un proficuo lavoro di ricerca filologica e archivistica, di pubblicazione di documenti e di ricostruzione biografica.
Alcuni studiosi, sensibili all’orientamento idealistico prevalente nella cultura italiana dell’epoca, richiamandosi esplicitamente al mito di rigenerazione umana proclamato dai profeti risorgimentali (V. Alfieri, U. Foscolo, G. Mazzini, V. Cuoco, V. Gioberti ecc.), finirono con il ridurre l’intero periodo a questa unica matrice culturale. In opposizione a questa unilaterale interpretazione del R., sotto la spinta inoltre di una ripresa delle forze democratiche nella lotta politica e con l’affermazione del pensiero socialista, verso la fine dell’Ottocento scesero in campo gli storici della cosiddetta scuola economico-giuridica.
A complicare e confondere il puro problema storiografico s’insinuarono nel dibattito anche preoccupazioni di carattere nazionalistico: storici e pubblicisti cercarono di rivendicare la piena originalità e autonomia del processo risorgimentale rispetto alle influenze politiche e culturali straniere, soprattutto rispetto alla Rivoluzione francese e al dominio napoleonico, a cui tradizionalmente si facevano risalire gli inizi di quel processo. Contro la dilagante ondata nazionalistica, che poi divenne particolarmente insistente durante il fascismo, lo stesso B. Croce intervenne sostenendo che, sul piano politico, di storia propriamente italiana si poteva parlare soltanto a partire dal 1860, da quando il popolo italiano si era costituito politicamente in un effettivo organismo statale.
Studiosi di ogni tendenza storiografica si dedicarono all’analisi delle epoche anteriori al Settecento, nell’intento di cogliere sul nascere le prime aspirazioni unitarie e liberali: furono condotte ricerche sulle condizioni politiche e diplomatiche dell’Italia e dell’Europa alla fine delle guerre di successione e sulle profonde trasformazioni sociali avvenute durante il dominio spagnolo in Italia. Per effetto di questo allargarsi delle indagini si ripudiò la data del 1815, tradizionalmente assunta come inizio del R., e si tese a riportare sempre più indietro le origini del movimento patriottico, sia sul piano culturale, sia sul piano più propriamente politico. Una tale esaltazione della continuità storica rischiò di dissolvere il concetto stesso di R.: una volta dissociati e singolarmente riportati alla loro origine i motivi confluiti nella sintesi risorgimentale, la sua storia si risolveva senza residui nella più generale storia italiana del 18° e del 19° secolo.
Come tradizionalmente veniva narrata, la storia del R. appariva opera di un’esigua minoranza, e il fenomeno della frattura fra minoranza intellettuale e popolo era stato soltanto sfiorato, ma mai sviluppato nelle sue implicazioni. Sotto l’urgenza delle agitazioni sociali scoppiate alla fine della Prima guerra mondiale, alcuni uomini politici e studiosi furono indotti a rivolgere la loro attenzione a questo problema: si riparlò allora di conquista regia, di grettezza conservatrice e di tradimento degli ideali morali e religiosi affermati da Mazzini e dagli altri protagonisti risorgimentali. Tra i numerosi studi pubblicati in questo filone spiccano le opere di P. Gobetti. Esse dettero impulso a una più meditata valutazione del R., che il clima instaurato dal fascismo non riuscì a soffocare: La Storia del liberalismo europeo di G. De Ruggiero, gli scritti sul R. e in particolare L’opera politica del conte di Cavour di A. Omodeo e la Storia d’Europa nel sec. XIX di B. Croce nacquero anche come risposta polemica alle tesi antiliberali del fascismo. Sul motivo religioso insistevano altri studiosi tra cui F. Ruffini, i quali vedevano nel giansenismo italiano del Settecento una delle componenti essenziali del R., e a partire da questo ricostruirono l’ambiente morale e intellettuale in cui si formarono uomini come Manzoni e Cavour. Ma anche sul terreno religioso si doveva constatare la frattura che divideva il popolo italiano dalle aristocrazie intellettuali.
Nuovo vigore e nuovi spunti problematici alle ricerche sul R. portò nel 1949 la pubblicazione delle riflessioni di A. Gramsci Sul Risorgimento, in cui il processo che condusse all’unificazione è classificato come la prima grande rivoluzione politica dell’età contemporanea, da analizzare nei suoi aspetti economici e sociali a partire dall’apporto delle varie componenti della società italiana. L’analisi di Gramsci rinnovò completamente la storiografia italiana del secondo dopoguerra, stimolando una più acuta sensibilità ai temi delle classi popolari e della questione agraria, e introducendo ottiche e strumenti nuovi nello studio dei movimenti politici e delle sette segrete.
Negli ultimi decenni del 20° sec. accanto a ricerche su vari aspetti del ‘politico’ nel R. italiano (leader, organizzazioni, idee, istituzioni) si fece largo un’inclinazione non ideologica, con studi sulle formazioni sociali (nobiltà, borghesie, ceti popolari), le dinamiche economiche (processi di accumulazione e di trasformazione, soprattutto nel settore agrario) e gli assetti istituzionali (giurisprudenza e strutture statuali degli Stati preunitari) dell’Italia di primo Ottocento. Tuttavia, sia la prospettiva storiografica tradizionale (interessata agli aspetti politico-ideologici) sia quella più originale (interessata alle questioni economiche, sociali e istituzionali) avevano, per ragioni diverse, messo in second’ordine un aspetto essenziale per la comprensione del processo risorgimentale, ossia la formazione e il radicamento di un senso di appartenenza a una comunità nazionale italiana e, di conseguenza, anche la profondità culturale del processo di edificazione di uno Stato-nazione che da tale senso di appartenenza era derivato. A colmare questa lacuna si sono dedicati prima studi che hanno indagato i rituali di ‘nazionalizzazione delle masse’ nell’Italia postunitaria, fra cui spiccano, in particolare, quelli di B. Tobia (Una patria per gli italiani, 1991), di U. Levra (Fare gli italiani, 1992) e di I. Porciani (La festa della nazione, 1997). A essi hanno fatto seguito ricerche più direttamente impegnate nella ricostruzione delle connotazioni fondamentali dell’idea di nazione in epoca risorgimentale (A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, 2000; C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, 2001; Le immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti, R. Bizzochi, 2002; e Storia d’Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, 2007).