Vincenzo Gioacchino dei conti Pecci (Carpineto Romano 1810 - Roma 1903) fu eletto papa nel 1878. L'intervento più significativo del suo pontificato fu l'enciclica Rerum novarum (1891) che costituì il fondamento teorico della dottrina sociale cattolica e rappresentò la risposta della Chiesa sulla questione operaia. Pur condannando le dottrine socialiste, l'enciclica denunciava le ripercussioni sociali delle trasformazioni economiche provocate dall'espansione del capitalismo industriale, sollecitava la formazione di associazioni sindacali operaie, nel quadro di rapporti con i datori di lavoro improntati alla solidarietà cristiana, e affermava la necessità di un ruolo dello stato nei conflitti tra capitale e lavoro.
Entrato nel 1818 nel collegio dei padri gesuiti di Viterbo, nel 1824 si trasferì a Roma, presso il Collegio romano; nel 1832 si iscrisse all'Università della Sapienza, dedicandosi agli studi in diritto canonico e civile, e ottenendo, nel 1835, la laurea in utroque iure. Ordinato sacerdote nel 1837, nel 1838 fu nominato delegato apostolico di Benevento dove mise in mostra la sua abilità di amministratore e di politico, nonostante le difficoltà create dal brigantaggio e dalle cospirazioni mazziniane; nel 1841 fu trasferito a Perugia. Arcivescovo titolare di Damiata nel 1843, nello stesso anno fu inviato come nunzio pontificio in Belgio, dove affrontò senza successo il problema della divisione del clero locale tra intransigenti e seguaci delle idee di Lamennais, e quello dei contrasti tra governo e partito clericale. Lasciata la diplomazia, nel 1846 gli fu affidato il vescovato di Perugia, che tenne sino al 1876. Pur non condividendo la politica interna del card. Antonelli dopo il 1849, egli, cardinale nel 1857, fautore del potere temporale, si oppose all'annessione dell'Umbria al Regno d'Italia, protestando con energia contro l'introduzione della legislazione ecclesiastica piemontese. Nominato camerlengo alla morte del cardinale Antonelli (nov. 1876), la sua fama di prelato esperto ed equilibrato gli valse l'elezione al trono pontificio, avvenuta il 20 febbr. 1878. In un'allocuzione concistoriale del marzo 1878, L. ribadì le ragioni della Santa Sede, ma con un tono meno aspro di quello del suo predecessore Pio IX, sicché parve aprirsi la possibilità di una qualche conciliazione con il Regno, del resto subito compromessa dall'atteggiamento anticlericale della Sinistra al potere. L. cercò quindi, poggiando sull'opinione pubblica cattolica internazionale, di tenere viva la questione romana e, specie nel biennio 1880-82, di ottenere, mediante l'appoggio delle potenze straniere, una restaurazione del potere temporale; ma la manovra fallì, poiché la stipulazione della Triplice Alleanza mise al sicuro l'Italia anche da possibili iniziative ostili da parte dell'Austria. Migliorarono invece i rapporti con la Germania dove Bismarck, per motivi di politica interna, aveva parzialmente mitigato la sua politica anticattolica. Un'allocuzione concistoriale del maggio 1887, in cui L. auspicava un atteggiamento conciliativo anche da parte italiana, e la pubblicazione dell'opuscolo La conciliazione dell'abate L. Tosti, sollevarono ancora una volta speranze, presto svanite però per una ripresa di anticlericalismo che culminò nella destituzione del sindaco di Roma, per avere questi visitato, in occasione del giubileo sacerdotale di L., il cardinale vicario, e nell'erezione nella capitale del monumento a Giordano Bruno. L. si appoggiò allora alla Francia, che però, pur minacciando di riaprire la questione romana per i suoi interessi internazionali, non rallentò il suo indirizzo di laicizzazione della vita interna della repubblica. Negli anni successivi, nonostante l'abilità del segretario di stato card. Rampolla, L. non riuscì a ottenere un miglioramento dei rapporti della Chiesa con l'Italia; anche in Francia l'intransigenza del partito cattolico, che nonostante le esortazioni di L. (encicl. Inter innumeras sollicitudines, 16 febbr. 1892) non rinunciò al suo rigido legittimismo, rifiutando di riconoscere lo stato repubblicano, provocò la completa rottura con la S. Sede. Spirito colto, sensibile, L. alternò fasi di irrigidimento conservatore a fasi di politica aperta alle esigenze moderne e innovatrici. Fu suo merito l'apertura agli studiosi degli archivî vaticani (1881).
Se sul piano della politica internazionale, che non poteva essere più condizionata dal problema dello stato temporale, L. raccolse insuccessi, la sua azione fu diversamente feconda in altri campi: nel rinnovamento della filosofia neoscolastica, grazie all'enciclica Aeterni Patris (4 ag. 1879); nell'azione spiegata a favore di un ritorno all'unità della Chiesa dove L., sia attraverso le encicliche Grande Munus sui ss. Cirillo e Metodio, agli Slavi (1880), e Orientalium dignitas (1894), sia nell'azione pratica come il Congresso eucaristico di Gerusalemme del 1893, mostrò che l'unione delle Chiese dissidenti con Roma, orientali e protestanti, costituiva insieme al rinnovamento della società la principale e più sentita esigenza sua e della Chiesa; nell'indicare poi la concezione cattolica dello stato e della libertà (encicliche Immortale Dei, 1º nov. 1885, e Libertas, 20 giugno 1888), approvando, a eccezione della particolare situazione italiana, una sempre maggiore presenza dei cattolici nella vita politica. L'atto più importante del pontificato di L. resta comunque l'enciclica Rerum novarum (15 maggio 1891), nella quale venivano riconosciuti e fatti propri dalla Chiesa tesi e programmi del movimento cattolico-sociale. L'enciclica prendeva posizione contro il conservatorismo dei partiti liberali e l'atteggiamento eversivo e anticattolico dei socialisti; tale atto, decisivo per l'orientamento della Chiesa cattolica, additava nei partiti e nei sindacati cattolici il campo concreto per un'azione politico-sociale. Così che, proprio questa enciclica e i suoi dettami dottrinali possono essere considerati come il punto di partenza di tutto il movimento europeo dei partiti cattolici. Le indicazioni di L. offrirono infatti al mondo cattolico un nuovo modo di confrontarsi da un lato con la società capitalistica e borghese, dall'altro con il movimento operaio e il nascente socialismo. Motivo ricorrente dell'enciclica era la condanna di un'ideologia che, nella deificazione del denaro e nell'esaltazione del progresso, della scienza, della tecnica, della civiltà intesa come capacità di controllo e di sfruttamento delle forze della natura e come sviluppo della produzione e dei commerci, dimenticava un elemento cardine, un principio essenziale del cristianesimo: il rispetto dell'uomo e della sua dignità. Non mancava un'attenzione nuova nei confronti dello Stato, che doveva farsi carico dei problemi sociali e assumersi il compito di rimuovere per tempo le cause del conflitto tra operai e padroni; in sostanza, emergeva la concezione moderna di uno Stato non più estraneo di fronte ai problemi del lavoro, non più teso soltanto a reprimere con la forza le agitazioni operaie, ma arbitro e legislatore attento ai diritti e ai doveri di tutte le classi sociali. Gli ultimi anni del suo pontificato manifestarono una certa tendenza reazionaria avversa ai movimenti di democrazia cristiana (enciclica Graves de communi, 18 genn. 1901).