Situazione derivante da un determinato rapporto o da una determinata norma per la quale un soggetto giuridico può essere chiamato a rispondere della violazione colposa o dolosa di un obbligo giuridico.
Di r. civile, oltre che in senso lato – come r. derivante dalla violazione di un obbligo di diritto privato e che rientra, quindi, nella sfera dei rapporti fra privati – si parla anche, e soprattutto, per indicare la r. derivante da fatto illecito, della quale il codice civile tratta negli art. 2043-2059. Anzi, in senso stretto, con locuzione tratta dalla legislazione penale, si parla di responsabile civile per indicare il soggetto che è tenuto al risarcimento del danno cagionato da un altro soggetto.
Normalmente la r. richiede anzitutto un elemento subiettivo. Per quanto attiene alla violazione dell’obbligo, la r. è contrattuale o extracontrattuale a seconda che la violazione riguardi un precedente vincolo giuridico (quale che sia la fonte da cui questo deriva) o il generico precetto del neminem laedere (art. 2043 c.c.). Di r. civile, in senso proprio, si parla con riferimento alla r. extracontrattuale. E, mentre nella r. contrattuale non si prescinde dall’elemento soggettivo, nella r. extracontrattuale vi è una forte tendenza a collegare la r. alla sola sussistenza del danno e ciò in relazione soprattutto all’esercizio di determinate attività.
La r., di regola, è diretta: cioè ciascun soggetto che abbia la capacità di intendere e di volere risponde del danno che egli stesso ha cagionato con la propria azione od omissione. Tuttavia, un soggetto può anche essere obbligato per il fatto illecito altrui (incapace, figli minori non emancipati, persone soggette alla tutela, commessi, domestici ecc.). È questa quella che viene detta r. indiretta, il cui fondamento veniva una volta riallacciato a una culpa in vigilando o a una culpa in eligendo, ma che la dottrina più recente riconduce con maggiore esattezza a una r. senza colpa. Si ha, in altri termini, una situazione del tutto identica a quella dei casi in cui, anche secondo la dottrina tradizionale, è configurabile la r. oggettiva (r. per l’esercizio di attività pericolose, per il danno cagionato da animali, da rovina di edificio, da cose in custodia), nella quale si prescinde del tutto dalla ricerca della colpa. Il campo della r. oggettiva si estende sempre più, come sopra è stato detto, sia per la difficoltà della prova di un nesso di causalità fra condotta di un soggetto e danno, sia per la necessità sociale di provvedere in ogni caso al risarcimento del danno cagionato da attività particolarmente pericolose, sia per contenere entro limiti accettabili la misura della r., pur nel rispetto dell’adeguatezza del risarcimento.
Previsto e disciplinato dagli art. 83-88 c.p.p., responsabile civile è il soggetto obbligato a risarcire il danno causato dall’autore del reato, nonostante non vi abbia partecipato. Esempio paradigmatico in materia è offerto dal ruolo della compagnia assicurativa per la r. da circolazione stradale. Il responsabile civile per il fatto dell’imputato può essere citato nel processo penale a richiesta della parte civile o, in determinati casi, dal pubblico ministero; può, inoltre, intervenire volontariamente quando la persona offesa si è costituita parte civile. Chi è citato come responsabile civile può costituirsi in ogni stato e grado del processo, anche a mezzo di procuratore speciale, con dichiarazione contenente, a pena di inammissibilità, le generalità della persona fisica o la denominazione dell’associazione o dell’ente che si costituisce e le generalità del suo legale rappresentante; il nome e il cognome del difensore e l’indicazione della procura, nonché la sottoscrizione del difensore. L’imputato, la parte civile e il pubblico ministero che non ne abbiano fatto domanda possono chiedere l’esclusione del responsabile civile. Tale richiesta può essere proposta altresì dal responsabile civile che non sia intervenuto volontariamente. In entrambi i casi deve essere motivata e presentata, a pena di decadenza, non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare o nel dibattimento. L’esclusione del responsabile civile può verificarsi anche nelle ipotesi di esclusione della parte civile o di revoca della costituzione di quest’ultima. Fino a che non sia dichiarato aperto il dibattimento di primo grado, il giudice, qualora accerti che non esistono i requisiti per la citazione o per l’intervento del responsabile civile, ne dispone l’esclusione d’ufficio con ordinanza.
Condizione di chi deve rispondere di comportamenti penalmente rilevanti. Ai sensi dell’art. 27, co. 1, Cost. la r. penale è personale; ciò vuol dire che non è possibile la sostituzione della persona che deve rispondere di un illecito penale. Alla luce delle storiche sentenze additive della Corte costituzionale (364 e 1085 del 1988), tale nozione si connota anche per l’elemento della colpevolezza in quanto l’interpretazione del dettame costituzionale fornito dalla Consulta è nel senso di intendere la r. penale non solo nel significato minimo di divieto di r. per fatto altrui, bensì nell’accezione più pregnante di fatto proprio e colpevole. Secondo la Corte, infatti, l’attribuibilità di una sanzione penale presuppone che l’agente abbia posto in essere il fatto di reato almeno a titolo di colpa: ove, infatti, un qualunque elemento di lesività della fattispecie non fosse integrato dal dolo o dalla colpa, verrebbe meno il legame tra il fatto e il suo possibile autore e con esso il carattere della personalità della responsabilità penale. Solo se il reato è effettivamente opera dell’agente, è possibile muovere a quest’ultimo un rimprovero efficace per averlo posto in essere. Sottesa a tale principio è la convinzione che, salvo casi eccezionali, l’uomo abbia sempre la signoria sulle proprie scelte e sui propri impulsi e che quindi può decidere in modo autonomo come determinare la propria volontà e soprattutto quali condotte porre in essere. Ne consegue, inoltre, che sempre per l’orientamento costituzionale sopra citato, nel nostro ordinamento giuridico è esclusa l’imputazione di un reato a titolo di r. oggettiva, ovvero la possibilità di attribuire a un soggetto un illecito penale esclusivamente sulla base del rapporto di causalità tra la sua condotta e l’evento offensivo conseguente.
L’espressione può riferirsi sia alla r. della pubblica amministrazione verso altri soggetti, sia alla r. dei funzionari e dipendenti pubblici nei confronti dei terzi e nei confronti della loro amministrazione.
R. della pubblica amministrazione verso altri soggetti. In via generale, si ha r. dello Stato o di altro ente pubblico per atti legittimi ogni volta in cui un’espressa norma legislativa prevede il sacrificio di uno specifico interesse privato a vantaggio dell’interesse pubblico. I principi relativi sono stati elaborati dalla dottrina italiana sulla base delle disposizioni della l. del 25 giugno 1865, che prevede la possibilità dell’espropriazione forzata per pubblica utilità della proprietà privata e il diritto dell’espropriato a essere indennizzato. La Costituzione della Repubblica ha riaffermato detti principi (art. 42, 43 ecc.), che sono stati anche ribaditi dalla dottrina e dalla giurisprudenza nei casi in cui i diritti soggettivi dei privati siano stati lesi per azioni svolte dall’amministrazione pubblica per far fronte a situazioni di necessità o di urgenza. Lo Stato e gli altri enti pubblici possono violare, nell’ambito di particolari rapporti giuridici, gli obblighi da essi volontariamente o per legge assunti. La violazione di tali obblighi, se lesiva di un diritto soggettivo, può dar luogo a r. contrattuale dello Stato, sia che si tratti di rapporti di diritto privato (per es., compravendita tra lo Stato e un privato), sia di rapporti costituiti e regolati da norme di diritto pubblico (per es., rapporto d’impiego). In dottrina e in giurisprudenza si è sempre ritenuta la r. contrattuale come propria dell’ente pubblico, e pertanto si è escluso che i funzionari e i dipendenti dell’ente possano essere ritenuti direttamente responsabili verso i terzi. Detta r. ha trovato in seguito il proprio fondamento costituzionale nell’art. 113 Cost., il quale stabilisce che contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi. La r. extracontrattuale si ha, invece, quando il fatto illecito non è collegato a un rapporto giuridico preesistente. In ordine alla sussistenza di tale r. nei confronti dello Stato e degli altri enti pubblici, si sono avuti in dottrina e in giurisprudenza notevoli contrasti. In seguito, però, all’affermarsi della concezione della teoria organica – per la quale la persona fisica preposta a un pubblico ufficio non rappresenta l’ente, né agisce per suo conto, ma costituisce invece un suo organo, cioè l’ente stesso che a suo mezzo agisce – è oramai principio giuridico che gli atti compiuti dal dipendente sono sempre riferibili alla volontà dell’ente, per cui quest’ultimo e non la persona fisica è responsabile direttamente verso i terzi per danni eventualmente loro arrecati. L’art. 28 Cost., peraltro, stabilisce che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la r. civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». L’interpretazione della norma costituzionale è controversa in dottrina. L’orientamento dominante ritiene che con l’art. 28 si sia estesa la r. civile della pubblica amministrazione verso i terzi a tutti i fatti lesivi di diritti commessi dai funzionari e dipendenti pubblici, con la conseguenza che da ogni illecito consegue la r. diretta sia dell’amministrazione sia di colui che ha causato con la propria azione od omissione il fatto illecito.
R. dei funzionari e dipendenti pubblici nei confronti dei terzi. La specifica disciplina della r. (civile) diretta dei funzionari e dipendenti pubblici verso i terzi è contenuta nel t.u. 3/1957, sul rapporto d’impiego pubblico, il cui art. 22 dispone che la r. personale dei dipendenti pubblici sussiste solo allorché essi cagionino ad altri un danno ingiusto, intendendosi per tale la lesione dei diritti soggettivi dei terzi, commessa con dolo o colpa grave. Il privato può esercitare l’azione di risarcimento nei confronti del pubblico dipendente, autore del fatto dannoso, congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’amministrazione, qualora sussista in base alle norme e ai principi vigenti anche la sua responsabilità. Al fine di individuare le singole r., il t.u. detta alcune norme che hanno carattere generale: si esclude la r. dell’inferiore per l’esecuzione di un ordine che era obbligato a eseguire; si afferma la r. personale di chi ha agito per delega; si stabilisce che quando la violazione di un diritto sia derivata da atti od operazioni di collegi amministrativi deliberanti sono responsabili in solido il presidente e i membri del collegio che hanno partecipato all’atto o all’operazione, mentre non sono responsabili coloro che abbiano fatto registrare nel verbale il proprio dissenso; la r. è esclusa altresì nei casi in cui l’impiegato abbia arrecato danni a terzi mentre agiva per legittima difesa di sé o di altri, o comunque in stato di necessità.
R. dei funzionari e dipendenti pubblici nei confronti della loro amministrazione. La r. dei funzionari e dei dipendenti pubblici verso l’amministrazione dalla quale dipendono può essere disciplinare e patrimoniale (o amministrativa). La r. disciplinare si ha ogni qualvolta il pubblico dipendente viene meno a un suo dovere d’ufficio. La legge prevede al riguardo varie sanzioni, che vanno dalla censura al licenziamento, le quali possono essere inflitte al colpevole solo a seguito di un particolare procedimento. La r. patrimoniale, in origine espressamente prevista per i soli funzionari e impiegati dello Stato (art. 18 t.u. 3/1957), e progressivamente estesa, con una serie di provvedimenti, alla generalità dei dipendenti e funzionari pubblici, è disciplinata dagli art. 81-83 del r.d. 2440/1923 sulla contabilità generale dello Stato, dall’art. 52 del t.u. 1214/1934 sull’ordinamento della Corte dei conti e infine dall’art. 1 della l. 20/1994 (come da ultimo modificato dall’art.17, co. 3 quater, l. 102/2009, e dall’art. 1. co. 1, l. 141/2009) in tema di giurisdizione e controllo della Corte dei conti. A norma di tali disposizioni sono soggetti alla giurisdizione della Corte dei conti i funzionari pubblici onorari o impiegati, e ogni altro pubblico dipendente, che nell’esercizio delle loro funzioni, per azione imputabile anche a sola colpa o negligenza, cagionino danno allo Stato o ad altra amministrazione statale dalla quale dipendono. Il danno per l’amministrazione dello Stato può derivare anche dal risarcimento che essa abbia dovuto corrispondere al terzo, il quale, danneggiato per fatto dell’impiegato, abbia fatto valere la r. dell’amministrazione. L’art. 22 del t.u. 3/1957 prevede al riguardo che l’amministrazione possa agire contro il dipendente per la rivalsa dei danni; la relativa azione è esercitata dinanzi alla Corte dei conti. La r. dei funzionari e dei dipendenti pubblici verso lo Stato sussiste ogni volta in cui vi sia un comportamento colpevole, indipendentemente dal grado della colpa. A tale regola è fatta, in qualche caso, eccezione: per es., la l. 1833/1962 stabilisce che gli addetti alla conduzione di autoveicoli e di altri mezzi meccanici sono responsabili solo per colpa grave o dolo, e in senso analogo dispongono l’art. 1 della l. 67/1981, per gli addetti alla circolazione dei treni e art. 128 t.u.e.l. (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), per i componenti dei Comitati regionali di controllo sugli atti degli enti locali. Al fine di attenuare la r. civile dei pubblici dipendenti il legislatore ha però conferito alla Corte dei conti la facoltà, nell’esercizio della sua giurisdizione, di porre a carico del responsabile solo una parte del danno arrecato. La r. patrimoniale degli amministratori e degli impiegati dei comuni, delle province, dei consorzi e delle istituzioni amministrative dipendenti dagli enti predetti, in passato regolata dal t.u. 383/1934 della legge comunale e provinciale, è stata disciplinata dall’art. 58 della l. 142/1990 recante la riforma delle autonomie locali e ora dal d. legisl. 267/2000 (t.u.e.l.), che ha portato a compimento il processo espansivo della «giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica», attribuita dall’art. 103 Cost. alla Corte dei conti, alla quasi totalità dei funzionari e dipendenti pubblici non statali, sino a ieri in larga misura ancora soggetti alla giurisdizione del giudice ordinario.
Data l’importanza che la gestione e la conservazione del patrimonio pubblico ha per lo Stato, il legislatore ha previsto per i pubblici impiegati che esercitano la funzione di contabile una particolare disciplina della loro r., che viene qualificata contabile. Detta r. grava esclusivamente sugli agenti incaricati della riscossione, dei pagamenti, della custodia dei beni mobili ecc.; a essi sono equiparati coloro che di fatto, senza cioè alcuna autorizzazione, si ingeriscono nella gestione dei beni dello Stato. I contabili hanno l’obbligo di rendere il conto alla fine di ogni gestione. Il conto è esaminato dalla Corte dei conti, nell’esercizio della sua par;ticolare giurisdizione contabile, regolata dagli art. 44 s. del t.u. 1214/1934, e dalla l. 20/1994. La Corte, qualora ritenga il conto regolare, discarica il contabile, altrimenti gli contesta le irregolarità riscontrate. Il contabile, al fine di evitare la condanna, deve provare o che dalle irregolarità riscontrate non è derivato alcun danno all’erario, ovvero che le irregolarità stesse sono dovute a causa di forza maggiore a lui non imputabile. L’art. 93 t.u.e.l. ha stabilito che il giudizio di conto si svolga nella medesima forma anche sui conti di tesorieri, economi e consegnatari degli enti locali.
Colui che, in forza di un’espressa previsione normativa, è obbligato al pagamento dell’imposta insieme ad altri soggetti, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi ultimi, si definisce responsabile d’imposta. La natura solidale dell’obbligazione è un tratto caratterizzante della figura in esame, e la distingue da altre fattispecie in cui il soggetto diverso da quello che ha realizzato il presupposto è invece chiamato a rispondere del debito in via principale (come avviene nel sostituto d’imposta). In particolare, nella disciplina del responsabile d’imposta si è in presenza di una forma di coobbligazione solidale dipendente, perché nell’ambito del rapporto tributario si realizzano una modificazione del normale criterio di imputazione soggettiva dell’obbligo di pagamento e una estensione del vincolo che ne scaturisce. Al verificarsi del presupposto impositivo che dà luogo all’obbligazione tributaria principale si aggiungono, infatti, elementi ulteriori e diversi, che consentono di ricollegare gli effetti obbligatori a un soggetto estraneo al presupposto da cui gemma il rapporto di imposta principale. La fattispecie principale, cui si collega il debito dell’obbligato principale, e la fattispecie secondaria, da cui deriva l’obbligazione del responsabile, sono pertanto distinte ma tra loro collegate, in quanto l’effetto che deriva dalla prima costituisce uno degli elementi costitutivi della seconda. La figura si caratterizza altresì in quanto il responsabile d’imposta è coobbligato in solido al pagamento dell’imposta per fatti riferibili esclusivamente ad altri. Il responsabile d’imposta è estraneo rispetto alla situazione di fatto, che costituisce il presupposto di applicazione del tributo. La r. per un’imposta altrui si giustificherebbe sulla base di una relazione particolarmente qualificata (o di un rapporto di vicinanza) del soggetto responsabile con il soggetto che realizza in via principale il presupposto d’imposta. Nei casi in cui l’adempimento al debito d’imposta è effettuato dal responsabile d’imposta, quest’ultimo è titolare di un diritto di rivalsa verso il contribuente principale pari all’intero ammontare dell’imposta assolta.
Particolari difficoltà si incontrano per quanto attiene all’individuazione delle figure di responsabile d’imposta nel nostro ordinamento tributario. Sebbene la definizione normativa sia contenuta nel decreto relativo all’accertamento delle imposte sui redditi, le principali ipotesi sono individuate dalla dottrina nelle imposte indirette sui trasferimenti. In modo particolare, tra i responsabili d’imposta sono da annoverare in via meramente esemplificativa: i soggetti tenuti al pagamento del tributo in virtù delle pubbliche funzioni assolte, vale a dire i pubblici ufficiali che hanno redatto, ricevuto o autenticato l’atto sottoposto a imposta di registro; il cessionario di azienda, responsabile in solido con il cedente; il sostituto d’imposta nell’ipotesi prevista dall’art. 35 d.p.r. 602/1973.
In base all’art. 55 c.p.c. il giudice era civilmente responsabile soltanto quando nell’esercizio delle sue funzioni avesse agito con dolo, frode o concussione, ovvero quando, senza giusto motivo, avesse rifiutato, omesso o ritardato di provvedere sulle domande o istanze delle parti o, in genere, di compiere un atto del suo ministero. La domanda di risarcimento del danno non poteva essere proposta senza autorizzazione del ministro di Grazia e Giustizia (art. 56 c.p.c.). A seguito del referendum svolto in data 8 novembre 1987, che aveva determinato l’abrogazione di tali disposizioni, la l. 117/1988 è intervenuta per disciplinare in modo nuovo la materia. La legge si applica agli appartenenti alla magistratura ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciale che esercitino attività giudiziaria, e agli estranei che partecipino all’esercizio di tale funzione. Il principio generale è che il soggetto, il quale abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia (protratto anche dopo specifica istanza dell’interessato), può agire in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali derivanti da privazione della libertà personale. Tuttavia l’azione non può essere proposta direttamente nei confronti del giudice, ma deve essere esercitata contro lo Stato (nella persona del presidente del Consiglio dei ministri). I criteri per l’individuazione dell’organo giudiziario competente e i termini per la proposizione della domanda sono specificatamente indicati dalla legge (art. 4). È prevista una valutazione preliminare da parte del tribunale in camera di consiglio sulla ammissibilità della domanda, la quale può essere ritenuta inammissibile anche per manifesta infondatezza. Il magistrato può intervenire nel giudizio. La legge afferma espressamente il principio che non può dar luogo a r. l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove. Sono inoltre indicate specificatamente le ipotesi di colpa grave: grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; affermazione o negazione, conseguente ad analoga negligenza, di fatti in contrasto inequivoco con le risultanze degli atti del procedimento; emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. Lo Stato può esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del giudice solo dopo aver eseguito il risarcimento del danno in base a titolo esecutivo giudiziale o a eventuale transazione intervenuta dopo la deliberazione di ammissibilità del giudizio. La transazione non è opponibile al giudice nel giudizio di rivalsa. Quando la r. non è per fatto doloso, la rivalsa non può superare una somma pari al terzo di un’annualità dello stipendio netto percepito dal giudice al tempo in cui è stata proposta l’azione di risarcimento. I giudici popolari rispondono solo in caso di dolo. In caso di provvedimenti collegiali ciascun componente del collegio può chiedere che il suo dissenso dalla deliberazione adottata sia esposto, con succinta motivazione, in un verbale, il quale deve essere conservato in plico sigillato presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario (art. 16 l. 117/1988, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 18/1989, e art. 125 c.p.p. del 1988, modificato dal d. legisl. 351/1989).
Il giudice è responsabile penalmente per i reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni ed è soggetto a sanzioni disciplinari (a seguito di procedimento che si svolge davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura) qualora manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario.
È l’insieme delle conseguenze derivanti dalla violazione di un obbligo giuridico. Più precisamente, per r. internazionale s’intende il complesso degli obblighi gravanti sullo Stato che abbia commesso la violazione, e dei diritti, facoltà e obblighi dello Stato il cui diritto soggettivo sia stato leso. Quest’ultimo è il soggetto normalmente legittimato a far valere la r. internazionale dello Stato offensore. Nel diritto internazionale, infatti, in ragione della sovrana eguaglianza dei soggetti, l’attuazione coercitiva delle norme avviene per opera degli stessi consociati.
La r. internazionale, disciplinata da principi consuetudinari, è altresì oggetto di un progetto di codificazione sulla r. degli Stati per fatto illecito (approvato nel 2001 dalla Commissione del diritto internazionale), che, riproducendo in prevalenza tali principi, presenta alcuni aspetti evolutivi. Di sicura natura consuetudinaria è l’obbligo dello Stato offensore di cessare immediatamente la violazione (che, di fatto, assume rilevanza solo per l’illecito continuato), cui si unisce l’obbligo di prestare garanzie di non ripetizione dell’illecito. In secondo luogo, vi è l’obbligo di riparare i danni arrecati, materiali o morali. La riparazione può avvenire in forma specifica, ripristinando lo stato di cose anteriore alla violazione (restitutio in integrum), oppure – se ciò è materialmente impossibile o eccessivamente oneroso – mediante il risarcimento del danno economico, compresa la perdita di profitti, se accertata. È detta, poi, soddisfazione la riparazione del danno morale (offesa all’onore o al prestigio dello Stato), spesso consistente nella presentazione di scuse solenni. Le forme di riparazione possono combinarsi tra loro, dando luogo, per es., a parziale restitutio, risarcimento del danno per la parte non ripristinabile, e soddisfazione per il danno morale.
Il diritto dello Stato leso di esigere la riparazione incontra dei limiti. Se lo Stato responsabile rifiuta la riparazione, lo Stato leso ha infatti l’obbligo di esperire, anzitutto, i mezzi ordinari di soluzione pacifica della controversia. Solo ove detti mezzi non abbiano esito, esso può ricorrere a contromisure, ossia compiere a sua volta uno o più atti che ledono diritti soggettivi dello Stato offensore e che, proprio perché commessi in reazione a un illecito, non sono considerati illeciti. In passato si legittimava, così, qualsiasi ‘rappresaglia’ (che va distinta dalla ‘ritorsione’, consistente in atti inamichevoli, ma non lesivi di un diritto); attualmente, sono invece vietate le contromisure implicanti l’uso della forza militare, o contrarie ai diritti umani, al diritto umanitario o a norme internazionali imperative (ius cogens). Le contromisure devono inoltre essere sospese se l’illecito cessa, e se la controversia è sottoposta a regolamento arbitrale o giudiziale.
Il Progetto di codificazione prevede che dalle gravi violazioni di obblighi posti da norme imperative scaturisca, oltre alle conseguenze ordinarie, l’obbligo degli Stati di cooperare per porre fine alla violazione e di non riconoscere come legittime le situazioni da essa create (art. 41). Se, inoltre, l’obbligo violato è di natura solidale, ossia posto a tutela di interessi collettivi (protezione dei diritti umani, dell’ambiente ecc.), anche Stati diversi dallo Stato leso possono far valere la r. internazionale dello Stato offensore (art. 48) adottando all’occorrenza ‘misure lecite’ (art. 54). Quest’ultima norma lascia volutamente impregiudicata la questione di sapere quali contromisure possano essere lecitamente adottate, in base al diritto internazionale generale, da Stati cui sia dovuta l’osservanza dell’obbligo solidale, ma che non siano titolari di un diritto soggettivo specificamente leso dalla violazione.
In generale, situazione per la quale un agente si presenta come causa volontaria di un certo effetto, e quindi come chiamato ad averne pena o premio, a seconda che esso sia stato inopportuno od opportuno. Del concetto di r. è quindi elemento integrante quello di «causa», ma occorre anche il momento della volontarietà, nessuno potendo esser ritenuto responsabile di ciò che abbia provocato in modo assolutamente involontario. Il problema della r. si ricollega così a quello del libero volere o del libero arbitrio; cosicché la negazione deterministica o naturalistica di quest’ultimo sembra importare anche l’esclusione di ogni responsabilità. La soluzione del problema filosofico della r. dipende quindi da quella dei problemi della volontà e della libertà.
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