In contabilità, l’uguaglianza dei totali delle due sezioni di un conto o prospetto contabile (situazione, bilancio ecc.); più propriamente il termine è usato nelle aziende pubbliche per esprimere l’uguaglianza delle entrate e uscite previste.
Nella scienza delle finanze, il principio del p. fra le entrate e le spese ordinarie (ricavato per analogia dall’economia familiare e dell’impresa, in cui generalmente si accetta che le spese correnti debbano essere finanziate con entrate correnti) era, nell’impostazione classica, la regola indiscussa cui doveva ispirarsi la politica del bilancio statale. Si presumeva infatti che la piena occupazione delle risorse produttive disponibili fosse assicurata dallo spontaneo gioco del mercato senza bisogno di interventi e che lo Stato e gli altri enti pubblici dovessero limitarsi a fornire i servizi necessari all’ordinato svolgimento dell’attività produttiva, coprendo le relative spese con entrate tributarie. Avanzi e disavanzi di bilancio erano quindi ritenuti deprecabili in quanto significavano, rispettivamente, eccessiva sottrazione di risorse al mercato e gravoso ricorso all’indebitamento. Abbandonata ormai la fiducia nei meccanismi riequilibratori che automaticamente avrebbero dovuto ripristinare l’equilibrio tra domanda e offerta al livello di piena occupazione delle risorse disponibili, è radicalmente mutata anche la concezione dell’attività finanziaria dello Stato, considerata oggi soprattutto in funzione anticiclica e redistributiva.
Nella moderna finanza funzionale, il concetto di p. annuo del bilancio non ha più questo significato; le imposte, più che come copertura di spese, vanno considerate come strumenti regolatori del potere d’acquisto dei privati e quindi della domanda effettiva e il deficit spending mira attraverso il moltiplicatore a far crescere il reddito nazionale. Il p. viene tuttavia considerato obiettivo da perseguire, ma definito lungo l’intero ciclo e non anno per anno.