Nella terminologia marxista, la differenza tra il valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento della forza-lavoro, differenza di cui in un regime capitalistico si approprierebbero gli imprenditori-capitalisti.
La teoria del p., detta anche dello sfruttamento del lavoratore, può essere storicamente ricondotta a spunti dottrinali contenuti in opere degli economisti classici e soprattutto a un suggerimento, forse involontario, di D. Ricardo. Quest’ultimo, riducendo il valore di scambio dei beni al quantitativo di lavoro necessario a produrli (dato il basso livello della tecnica di allora) e precedendo K. Marx nell’applicare la legge dello scambio anche al mercato del lavoro, mise infatti in evidenza come la quantità di lavoro contenuta nel prodotto (valore del prodotto) superasse quella che serviva a ricostituire la forza-lavoro consumata (valore del lavoro, ossia salario). Il p. quindi già in Ricardo trae origine dal lavoro non remunerato.
Marx ha elaborato ed esposto con più precisione il concetto, sempre inquadrandolo in una situazione di concorrenza perfetta e in un punto di equilibrio perfetto, lo ha distinto dal profitto e, attraverso l’analisi del capitale, è arrivato a ricollegarlo soltanto al capitale variabile (la forza lavoro), contrapposto al capitale costante cioè gli impianti: il saggio del p. o grado di sfruttamento è pertanto definito come il rapporto tra il p. e il capitale variabile. Diverso è comunque il motivo per il quale i lavoratori sono ‘condannati’ a ricevere solo un salario di sussistenza; in Ricardo ciò è dovuto alla legge ferrea maltusiana (➔ occupazione) mentre in Marx all’esercito industriale di riserva, a quella massa di disoccupati che competono con gli occupati in termini di salario, spingendolo al ribasso. L’esercito industriale di riserva è funzionale quindi al capitalista ed è ciò che gli consente di estrarre il massimo pluslavoro originando il p. di cui si appropria; secondo Marx il sistema capitalistico ha sempre la necessità che esista disoccupazione nell’economia.
In Marx la dottrina del p. costituisce il criterio fondamentale dell’analisi della nascente società capitalistica; e da essa trae origine la spiegazione economica del comunismo, in quanto da un lato costituirebbe la ragione dell’accumulazione capitalistica nelle mani di pochi e dall’altro quella del progressivo immiserimento del proletariato, presupposto per la formazione di una coscienza di classe diretta alla «espropriazione degli espropriatori».
In campo liberale, alla dottrina marxista del p. si è opposta la considerazione che un equilibrio perfetto di concorrenza non è concepibile in una situazione in cui tutti i capitalisti-imprenditori fanno guadagni di sfruttamento: giacché ognuno di essi tenterebbe di allargare la sua produzione e l’effetto di questa tendenza generale sarebbe quello di aumentare via via il saggio dei salari e annullare progressivamente i guadagni suddetti. È vero d’altra parte che Marx, più che all’analisi di un processo economico stazionario in un punto di equilibrio perfetto, mirava a quella di una struttura economica in continua variazione e che il p. potrebbe quindi tendere a scomparire e a ricrearsi. Ma, secondo i non marxisti, anche così la teoria del p. non risolverebbe i problemi sorti dal contrasto tra la teoria del valore-lavoro, oggi superata, e la realtà economica. Di fatto una società in cui tutti coloro che sono in grado di farlo lavorassero e in cui si producessero soltanto i beni strettamente necessari per consentire l’esistenza e la riproduzione della forza-lavoro, una società cioè in cui non si potesse neppure parlare di p., sarebbe condannata alla stazionarietà, dato che per avviare un processo di sviluppo è necessario, se non sufficiente, che la produzione superi i bisogni essenziali di chi produce. L’esistenza di questo sovrappiù è quindi concepibile, in senso dinamico, come incremento rispetto a un periodo precedente del reddito totale di una società, che può essere per intero reinvestito nella produzione senza ridurne i consumi.
Naturalmente al concetto di sovrappiù si può giungere soltanto considerando la produzione, come hanno fatto i fisiocrati e gli economisti classici, compreso Marx, un processo circolare in cui gli stessi beni compaiono come prodotti e come fattori produttivi, mentre il pensiero economico successivo ha rifiutato radicalmente il concetto di sovrappiù, e quindi di p., in quanto si è fondato a differenza della tradizione classica su una concezione del processo economico che comporta l’individuazione di un contributo produttivo o specifico dietro ogni forma di reddito. Per opera di P. Sraffa si è tornati a uno schema di processo economico in cui il valore della produzione può superare quello dei costi e dar luogo quindi a un sovrappiù. Una volta ammessa però l’esistenza di un sovrappiù e spiegatane la formazione bisogna affrontare il problema di chi se ne appropria e dell’uso che ne fa; se infatti venisse consumato improduttivamente, la società non potrebbe svilupparsi (in linguaggio marxiano si avrebbe la «riproduzione semplice»), mentre, se impiegato produttivamente, darebbe luogo a una «riproduzione allargata» o «accumulazione». Lo sviluppo dipende quindi dall’impiego del sovrappiù e presuppone la distinzione tra consumi necessari e non necessari alla prosecuzione e all’ampliamento del processo produttivo.
Vi è tuttavia nell’analisi marxiana del sovrappiù un germe di autodistruzione; infatti con il procedere dell’accumulazione il sistema economico investe maggiormente negli impianti, cioè nel capitale fisso (anche grazie al progresso tecnologico); essendo il p. originato dal pluslavoro, il saggio del profitto, definito come rapporto tra p. e somma del capitale fisso e variabile, decresce all’aumentare del capitale fisso. All’aumentare quindi della componente degli investimenti sul totale del capitale di impresa, il saggio del profitto diminuisce e porterà all’implosione del sistema capitalistico.