sottosviluppo In economia, situazione di grandi aree geografiche di singoli paesi o di zone limitate di un paese, in cui si registra una crescita economica costantemente inferiore a quella che si verifica in altri paesi (specialmente in quelli a capitalismo avanzato) o nel complesso dell’economia nazionale; si manifesta nel basso livello dei consumi, misurato convenzionalmente attraverso il reddito medio pro capite (anche se tale indicatore è ritenuto solo parzialmente attendibile), e, in alcuni casi, nelle condizioni di povertà assoluta in cui versa gran parte della popolazione; più precisamente è caratterizzato per l’impiego di tecniche produttive arretrate, per la bassa produttività del lavoro (specialmente nel settore primario), per la scarsa disponibilità di capitale. Tale situazione è stata spiegata in modi diversi: come effetto di cause interne, di carattere economico (quali la scarsità di risorse naturali, lo squilibrio nella distribuzione del reddito tra settore primario e settore secondario), politico (la presenza di istituzioni politiche e gruppi di potere che ostacolano la formazione di una classe imprenditoriale) o culturale (quali lo scarso sviluppo e la limitata diffusione di conoscenze tecniche e scientifiche); oppure come risultato di fattori esterni, riconducibili soprattutto ai meccanismi che regolano i rapporti di scambio tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, consentendo ai primi di trarre vantaggi considerevoli a danno dei secondi (➔ sviluppo).
Nell’ambito del paradigma della modernizzazione, il concetto di sviluppo indica il processo di industrializzazione dei cosiddetti paesi ‘sottosviluppati’ o ‘poveri’. Tali paesi, secondo questo modello, dovrebbero essere aiutati a conquistare gli stessi obiettivi tecnologici, scientifici, economici ecc. già raggiunti dai paesi occidentali, depositari di uno stile di vita che rappresenta il massimo punto di arrivo della civiltà. Nella seconda metà degli anni 1960 l’antropologia latinoamericana di ispirazione marxista, con la sua critica al paradigma della modernizzazione ha invitato a riconsiderare la dicotomia sviluppo/s., vedendo quest’ultimo non come il risultato della combinazione di fattori quali l’isolamento, l’esistenza di strutture tradizionali e l’arretratezza sociale, bensì come il prodotto storico di relazioni di dipendenza che le società occidentali hanno imposto alle altre. L’espansione mondiale del sistema capitalistico avrebbe comportato infatti una suddivisione tra ‘centri’ (sviluppati) e ‘periferie’ (sottosviluppate) che avrebbe legato in modo imprescindibile le società non capitalistiche a un preciso destino: quello di diventare il serbatoio da cui attingere sia per le materie prime, sia per la manodopera a basso costo. Anche sulla base di questo tipo di analisi, gli studi antropologici più recenti ritengono che lo sviluppo non possa essere considerato nei termini dell’imitazione di modelli esogeni (occidentali) e sottolineano la necessità di volgere lo sguardo ai processi di autodeterminazione delle popolazioni dei paesi emergenti. Lo sviluppo è concepito allora come un mutamento (economico, tecnologico ecc.) pianificato che non può essere eterodiretto, e che deve procedere secondo direzioni orientate dagli attori locali. Particolare attenzione deve essere rivolta in tal senso alle strategie che garantiscono il rispetto dei valori, dei sistemi politici, delle risorse e delle identità locali.