Secondo l’art. 2909 c.c., la cosa giudicata (o giudicato sostanziale o autorità di cosa giudicata) è il far stato ad ogni effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato formale nei confronti delle parti, dei loro eredi o aventi causa.
La funzione pratica dell’istituto, come del processo dichiarativo che a questo è fondamentalmente preordinato, è quella di soddisfare il bisogno di certezza giuridica circa la regola di diritto che disciplina i rapporti sostanziali tra le parti.
A tale esigenza, l’istituto risponde appunto garantendo che l’accertamento contenuto nella sentenza oramai non soggetta alle impugnazioni ordinarie non possa più essere rimesso in discussione in futuri ed eventuali giudizi. A tal riguardo, infatti, si parla di immutabilità, irretrattabilità o intangibilità dell’accertamento ecc. Detto risultato è tecnicamente garantito mediante la paralisi, nei successivi giudizi, dell’esercizio dei poteri processuali che le parti hanno già esercitato all’interno del processo originario o che avrebbero dovuto ivi esercitare (c.d. preclusione del dedotto e del deducibile).
Va peraltro chiarito in quali esatti limiti operi il vincolo in questione ed a tal riguardo si suole distinguere tra limiti oggettivi e soggettivi del giudicato. Stando alla regola dei limiti oggettivi, l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto soggettivo fatto valere nel processo opera in tutti i futuri giudizi in cui sia dedotto in via principale quello stesso diritto soggettivo (c.d. effetti diretti) o siano fatti valere diritti soggettivi la cui esistenza da questo dipende (c.d. effetti riflessi) (Connessione. Diritto processuale civile). Come si comprenderà, dunque, se il fenomeno dell’efficacia diretta e riflessa trova fondamento nella comparazione dell’oggetto del giudizio originario con l’oggetto del giudizio successivo, vanno a monte acquisiti i criteri che garantiscono l’esatta determinazione del diritto soggettivo fatto valere in giudizio. Il problema, solo apparentemente scontato, ha condotto la scienza giuridica ad elaborare un insieme di principi noti come teoria dell’identificazione delle azioni. Secondo quest’ultima sarebbe opportuno distinguere tra domande etero-determinate e domande auto-determinate. Alle prime andrebbero ricondotte tutte le ipotesi in cui con la domanda l’attore faccia valere diritti soggettivi che si determinano in virtù delle parti, del contenuto del rapporto e del fatto costitutivo che vi ha dato origine. L’ipotesi tipica è rappresentato da diritti relativi che hanno ad oggetto prestazioni di genere, come ad esempio il diritto al pagamento di una somma di denaro. Con le domande auto-determinate, invece, ci si riferirebbe alle ipotesi in cui con la domanda siano fatti valere diritti soggettivi individuabili in riferimento alle parti ed al contenuto del rapporto, come avviene tipicamente con i diritti assoluti quali ad esempio il diritto di proprietà su un bene infungibile.
La regola dei limiti soggettivi, invece, mira a determinare chi sia esattamente investito dall’efficacia vincolante del giudicato civile. Sotto questo profilo si ritiene, dunque, che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato vincoli, come si evince dal disposto dell’art. 2909 c.c., le parti del processo, nonché i loro eredi ed aventi causa. Salvo queste due ultime eccezioni si ritiene generalmente che coloro che non hanno preso parte al processo non debbano soggiacere all’autorità di cosa giudicata; e ciò per garantire il pieno rispetto del diritto di difesa previsto dall’art. 24 Cost.
Sempre al tema delle garanzie costituzionali è poi connesso l’ulteriore quesito se il giudicato civile costituisca una garanzia costituzionalmente prevista. La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza, sebbene lungo percorsi argomentativi anche fortemente divergenti, giungono alla soluzione favorevole sulla base dell’interpretazione del coordinato disposto degli artt. 24, co. 1 e 2, e 111, co. 7, Cost.
Cosa giudicata formale. - Nel processo civile la sentenza non più assoggettabile ai mezzi ordinari di impugnazione individuati dall'art. 324 c.p.c. (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione e revocazione ai sensi dell'art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c.) si intende passata in giudicato formale.
L'istituto disciplina la stabilità formale della sentenza ed esprime, in particolare, il più elevato grado di stabilità che l'ordinamento riconosce lla sentenza, sia pure senza giungere alla immutabilità della stessa, come chiaramente si evince dalla possibilità, per le parti ovvero per taluni terzi, di esperire le impugnazioni straordinarie.
Il fenomeno del giudicato formale interessa tutte le sentenze del giudice, sia quelle che decidono la domanda nel merito, sia quelle di rito, con le quali il giudice decide sull'esistenza o meno di un vizio di natura processuale.
Contestualmente alla formazione del giudicato formale, le sentenze che decidono il merito della controversia divengono idonee a produrre l'effetto di accertamento definitivo descritto dall'art. 2909 c.c., ossia fanno stato ad ogni effetto tra le parti, loro eredi e aventi causa.
Accertamento. Diritto processuale civile
La sentenza “Olimpiclub” della Corte di Giustizia e la stabilità del giudicato di Francesco Fradeani