Accordo, patto stretto fra due o più persone, fra enti pubblici, fra Stato e Stato.
Le c. costituzionali sono regole politiche, cioè regole che nascono da un accordo o un consenso tra attori politici o soggetti istituzionali, e che, tuttavia, rivestono una grande importanza per il diritto costituzionale, soprattutto con riferimento alla forma di governo (Forme di Stato e forme di governo). L’esperienza giuridica dove storicamente le c. costituzionali sono nate e dove tuttora viene riconosciuto loro un ruolo preminente è il regno Unito: tutti i caratteri peculiari dell’assetto istituzionale britannico sono, infatti, il prodotto di specifiche c. costituzionali (la fiducia parlamentare, la nomina del Primo Ministro, lo scioglimento della Camera dei comuni ecc.). Britannica è anche la dottrina che le ha studiate più a fondo: basti pensare che le c. costituzionali sono state oggetto di studio da parte di giuristi come Marshall, Jennings, e Dicey, che ad esse dedicò un capitolo specifico della sua opera sul diritto costituzionale inglese.
Le c. costituzionali rivestono una certa importanza, anche se minore in virtù del suo carattere scritto e rigido anche per quanto riguarda l’ordinamento repubblicano italiana (Revisione costituzionale): ad esempio, gran parte del procedimento di formazione del Governo e, in particolare, la fase delle consultazioni si basa esclusivamente su c. costituzionali. In proposito, non sempre agevole è distinguere tra c. e consuetudine costituzionale. In linea di principio, la c. si distingue dalla consuetudine costituzionale perché solo la seconda e non la prima ha il requisito della giuridicità: le c. costituzionali, pur se di tutto rilievo, non sono infatti fonti del diritto e non sono quindi suscettibili di applicazione giudiziaria. Esse non sono infatti altro che regole politiche, valide e applicate fintanto che non vengono mutate da quegli stessi attori politici o soggetti istituzionali che le hanno poste in essere. Questo non vuol dire, dunque, che le c. costituzionali siano prive di una loro vincolatività. D’altra parte, è anche vero che un comportamento, disciplinato da una c., può, con il passare del tempo e la sua costante reiterazione, trasformarsi in una vera e propria consuetudine costituzionale, quando lo sorregga la convinzione soggettiva, oggettivamente verificabile, della sua obbligatorietà giuridica.
C. europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. - Concepita in seno al Consiglio d’Europa, è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed è entrata in vigore il 3 settembre 1953; è stata adottata dai 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Costituisce al contempo il primo dei trattati regionali a tutela dei diritti umani e quello più avanzato sotto il profilo dei meccanismi di controllo di carattere giurisdizionale. A essa sono seguiti 14 Protocolli aggiuntivi che hanno ampliato la gamma dei diritti tutelati e modificato il meccanismo giurisdizionale di tutela.
Ogni individuo che ritenga gli sia stato negato uno dei diritti contenuti nella C. ha accesso diretto a una Corte (Corte europea dei diritti dell’uomo), che ha sede a Strasburgo ed è formata da un numero di giudici pari a quello degli Stati contraenti; si suddivide in quattro sezioni, la cui composizione, fissata per tre anni, deve essere rappresentativa, dal punto di vista geografico e della partecipazione dei due sessi. La Corte, che deve anche tenere conto dei diversi sistemi giuridici esistenti nelle parti contraenti, è articolata in vari organi: Comitati di 3 giudici costituiti in seno a ciascuna Camera, che giudicano prima facie sull’ammissibilità dei ricorsi; le Camere, composte da 7 giudici per ciascuna sezione, competenti a pronunciarsi sul merito dei ricorsi mediante una sentenza; una Grande camera, composta da 17 giudici, che in casi eccezionali può effettuare un riesame di una sentenza di una delle Camere; un’Assemblea plenaria, composta da tutti i giudici, con funzioni di tipo organizzativo. Le sentenze della Corte sono obbligatorie e vincolanti per le parti in causa. Sono adottate a maggioranza del collegio giudicante e ogni giudice può allegare alla sentenza la propria opinione dissenziente. Oltre ad accertare l’esistenza della pretesa violazione, la Corte può concedere alla parte lesa un’«equa soddisfazione» nel caso in cui l’ordinamento dello Stato responsabile non consenta la rimozione integrale delle conseguenze della violazione del o dei diritti.
C. internazionali contro la doppia imposizione. - Accordi stipulati fra gli Stati al fine di evitare ipotesi di tassazione in Stati diversi del medesimo presupposto giuridico o economico.
Fino alla seconda metà del 19° sec., la strutturazione dei sistemi fiscali attraverso imposte a carattere reale, comportando una naturale ripartizione delle diverse giurisdizioni fiscali su base strettamente territoriale, scongiurava la nascita di problemi legati alla duplicità dell’imposizione. Il progressivo affermarsi del principio della capacità contributiva, quale espressione di una concezione solidaristica del concorso alle spese pubbliche, ha successivamente determinato l’esigenza di rendere imponibili tutti i redditi degli appartenenti alla collettività, a prescindere dalla localizzazione della loro fonte produttiva. Con la diffusione del criterio della imponibilità dei redditi dei soggetti residenti su base mondiale e dei non residenti su base territoriale, gli Stati da un lato non hanno rinunciato alla tassazione dei redditi comunque prodotti all’interno del proprio territorio e dall’altro hanno assoggettato a tassazione i redditi dei propri residenti, anche se prodotti o localizzati all’estero. Discipline di questo tipo hanno determinato un’evidente sovrapposizione di presupposti impositivi. Di qui la necessità di individuare, in relazione a ciascuna categoria di fattispecie imponibili, un unico criterio di tassazione, in grado di evitare il sovrapporsi del potere impositivo dei singoli Stati. Le profonde differenze intercorrenti tra i sistemi tributari degli Stati hanno condotto, per lo meno in materia di imposte dirette, alla pressoché esclusiva utilizzazione di strumenti bilaterali, i cui primi esempi sono rinvenibili già nella seconda metà dell’Ottocento. Tra il 1926 e il 1927 la Società delle Nazioni elaborò i primi due modelli di c. per eliminare la doppia imposizione, rispettivamente in materia di imposte sul reddito e di imposte di successione.
Oggi è l’OCSE ad aver ereditato l’impegno nella lotta contro la doppia imposizione internazionale; a tale istituzione si deve la redazione, sin dal 1963, di uno schema di c., da ultimo emendato nel 2005. Tale modello, la cui adozione in sede di stipulazione delle c. funge da mera raccomandazione, è ampiamente utilizzato quale riferimento, tanto dagli Stati membri dell’OCSE, quanto dai paesi che di esso non fanno parte. Lo schema elaborato dall’OCSE conferisce particolare rilevanza al criterio della residenza, il più idoneo a proteggere gli interessi dei paesi esportatori di capitali. Da sempre a esso avversi sono i paesi in via di sviluppo e, in particolar modo, quelli latino-americani, sulla base della considerazione che, attraverso l’imposizione del reddito mondiale, risulta frustrata la possibilità, per regimi fiscali meno onerosi, di attrarre capitali provenienti dai paesi industrializzati. Per questi motivi, nel 1971, fu adottato dagli Stati membri del cosiddetto patto Andino, un modello di c. che conferisce più accentuato rilievo al criterio della fonte. Particolarmente sensibile alle esigenze dei paesi in via di sviluppo è anche il lavoro delle Nazioni Unite, alle quali si deve la predisposizione, sin dal 1980, di un ulteriore modello, da ultimo revisionato nel 2000.
Le c. internazionali contro la doppia imposizione contengono anche strumenti funzionali a evitare l’evasione fiscale. A tal fine, nasce l’istituto dello scambio di informazioni, previsto all’art. 26 del modello OCSE, il quale, originariamente inteso come strumento per una corretta applicazione delle c., si è progressivamente emancipato da tale funzione originaria, permettendo altresì una corretta applicazione dei sistemi tributari dei singoli Stati. A ciò si aggiunge la recente introduzione nel modello OCSE di una clausola avente a oggetto l’assistenza amministrativa nella riscossione dei crediti tributari.
Sul piano dell’efficacia, tali c. seguono il regime dei trattati internazionali, i quali, secondo l’insegnamento tradizionale, assumono, una volta che a essi sia data esecuzione nell’ordinamento interno, il rango della fonte che in esso ha prodotto le regole corrispondenti. Con la precisazione che, atteso il loro carattere di specialità, le regole dell’ordinamento interno, che in essi traggono fondamento, prevalgono, in linea di principio, sulle norme, tanto precedenti quanto successive, con esse contrastanti, a meno che appaia inequivoca l’intenzione del legislatore di venir meno agli impegni internazionali.
L’impostazione tradizionale sembra oggi posta in seria discussione da quanto disposto dall’art. 117 della Costituzione (emergente dalla riforma del titolo V del 2001), con il quale si stabilisce che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’odinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Tale norma sembra aver riconosciuto un rango pari a quello costituzionale alle disposizioni contenute nei trattati internazionali.
Patti diretti a regolare il regime patrimoniale della famiglia. La riforma del diritto di famiglia (avvenuta con l. 151/1975), secondo la quale il regime legale patrimoniale, in mancanza di diversa convenzione, è quello della comunione (➔) dei beni, pare limitare l’ambito delle c. matrimoniali (di cui all’art. 162 c.c.) a quello delle sole c. che derogano al regime legale dei rapporti patrimoniali fra coniugi, cioè a quelle che regolano la proprietà o l’acquisto dei beni fra coniugi. Le c. sono rimaste contratti formali, dovendo essere stipulate per atto pubblico sotto pena di nullità (art. 162 c.c.). A differenza, poi, della norma precedente la riforma del diritto di famiglia, le c. possono essere stipulate in ogni tempo. Il loro cambiamento successivo alla celebrazione del matrimonio è soggetto ad autorizzazione del giudice. Le c. matrimoniali e le loro modificazioni sono soggette a pubblicità, o mediante annotazione a margine dell’atto di matrimonio o a mezzo dei registri immobiliari e mobiliari. La inosservanza delle norme relative alla pubblicità importa l’inopponibilità delle c. ai terzi. La modifica delle c. ha effetto solo se l’atto pubblico è stipulato col consenso di tutte le persone che sono state parte delle c. medesime o dei loro eredi. La morte di un coniuge dopo che ha consentito con atto pubblico alla modifica delle c. non impedisce che la modifica abbia effetto se le altre parti esprimono anche successivamente il loro consenso e vi sia l’omologazione del giudice. In osservanza di una sentenza della Corte costituzionale, l’art. 164 c.c. è stato modificato consentendo ai terzi di provare la simulazione delle c. matrimoniali. Anche l’art. 165 c.c., che riguarda la capacità del minore, è stato modificato per adeguarlo alle innovazioni relative alla maggiore età e alla potestà dei genitori.
L'impatto del diritto europeo sul processo penale di Giorgio Spangher