T. biologico (o t. di vita, living will) Documento con il quale il testatore affida al medico indicazioni anticipate di trattamento, nel caso in cui in futuro possa perdere la capacità di autodeterminazione a causa di una malattia acuta o degenerativa invalidante, o di un incidente eccezionalmente grave. È auspicato da coloro che ritengono che in situazioni patologiche estreme e tragiche sia un bene per l’uomo morire piuttosto che continuare a vivere, definendo sulla base di un principio assoluto di autodeterminazione quali siano le condizioni alle quali il medico dovrebbe lasciare morire il paziente o assisterlo nel proprio suicidio.
Sul t. biologico è in atto da anni un acceso dibattito bioetico. I medici si interrogano sulla sua compatibilità con i loro doveri deontologici di cura e di salvaguardia della vita umana; i giuristi tendono a ridurre la questione a un problema formale di compatibilità tra le direttive anticipate e gli ordinamenti civili contemporanei che non considerano la vita alla stregua di un bene disponibile. I bioeticisti si domandano se nel principio di autodeterminazione del malato si possano includere l’atto suicidario e l’eutanasia, concepita come forma di suicidio assistito. Più in particolare, le difficili questioni bioetiche che solleva il t. biologico si possono così sintetizzare: a) prescrive soluzioni estreme per situazioni cliniche incerte nella prognosi in relazione al singolo paziente; b) promuove la sfiducia nel medico e l’idea che possa sempre prevalere l’accanimento terapeutico; c) pone sullo stesso piano situazioni ‘difficili’ e situazioni per le quali esiste una possibilità di cura/assistenza; d) si basa su concetti non chiari di interventi ‘ordinari’ e ‘straordinari’; e) non tiene conto della posizione di garanzia del medico nei confronti del paziente; f) non tiene conto della possibilità che la volontà del paziente possa modificarsi; g) vincola il medico, privandolo della sua capacità di valutazione secondo ‘scienza e coscienza’, per asservirlo alla volontà precedente e non attuale del paziente; h) non tiene conto del progresso medico e della possibile disponibilità successiva di nuovi trattamenti; i) prevede un decisore surrogato per interpretare la volontà del paziente incapace, ma non tiene conto del possibile deteriorarsi del rapporto tra decisore e paziente; l) non tiene conto del diritto civile vigente, secondo il quale il tutore non può in nessun caso adottare o autorizzare disposizioni in qualsiasi modo contrarie agli interessi (anche esistenziali) della persona affidatagli.
Il t. biologico è privo di valore giuridico nel nostro ordinamento. Dichiarazioni di tale tipo, infatti, si pongono in contrasto con diverse norme, tra cui: l’art. 5 c.c., a norma del quale gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume; l’art. 579, co. 1, c.p., a norma del quale chiunque cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni ecc.
Atto giuridico revocabile con il quale una persona dispone in forma scritta delle proprie sostanze, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte. Il testatore può disporre della propria sostanza a favore di chi vuole e come vuole. In casi particolari la legge limita questa capacità, nel senso che, per la totalità dell’asse o per una sua quota, permette di disporre solo a favore di certe persone o non permette di disporre a favore di altre (➔ successione).
La legge detta i requisiti di validità del t. come documento e come negozio giuridico unilaterale. Come documento il t. è nullo se non è fatto nelle forme di legge (art. 606 c.c.). La legge dispone forme ordinarie di t. (t. ordinari), valide per i comuni casi della vita, e forme straordinarie (t. speciali). Le prime sono: il t. olografo (art. 602 c.c.), che deve essere scritto per intero, datato e sottoscritto dal testatore; il t. pubblico (art. 603 c.c.), che deve essere ricevuto in presenza di due testimoni dal notaio che redige per iscritto le dichiarazioni di volontà del testatore, dandogliene poi lettura sempre in presenza dei testimoni; il t. segreto (art. 604 c.c.), scritto dal testatore o da un terzo, sottoscritto dal testatore alla fine delle disposizioni (se il documento è tutto redatto dal medesimo) oppure sottoscritto anche in ciascun mezzo foglio unito o separato (se il documento è scritto in tutto o in parte da terzi o con mezzi meccanici), consegnato dal testatore come atto contenente un t. al notaio in presenza di testimoni. Le seconde sono: il t. redatto in occasione di malattie contagiose, calamità pubbliche o infortuni (art. 609-610 c.c.); il t. a bordo di navi o aeromobili (art. 611-616 c.c.); il t. dei militari e assimilati. Il t. come negozio giuridico unilaterale è disciplinato con riferimento alla capacità del testatore e dei beneficiari e alla volontà testamentaria e relativi vizi. Il t. è nullo se è determinato dalla violenza fisica subita dal testatore ovvero da causa non idonea (t. redatto come modello scolastico, ovvero per scherzo).
La disposizione testamentaria può essere impugnata (azione di annullamento) da chiunque vi abbia interesse quando è l’effetto di errore, violenza o dolo (art. 624 c.c.). L’errore sulla persona dell’erede o del legatario è causa invalidante quando dal contesto del t. o in altro modo non risulti con sicurezza quale persona il testatore abbia inteso nominare: diversamente, se detta ricostruzione si presenta possibile, la disposizione conserva la sua validità (art. 625, co. 1, c.c.). Analogo trattamento ha l’errore sulla cosa: secondo l’art. 625, co. 2, c.c., la disposizione testamentaria ha effetto quando la cosa che ne forma oggetto sia stata erroneamente indicata o descritta, ma sia certo a quale cosa il testatore abbia inteso riferirsi. Un errore sul motivo, di fatto o di diritto, può provocare l’annullamento della disposizione testamentaria quando il motivo risulti dal tenore dell’atto e sia il solo che abbia determinato il testatore a disporre (art. 624, co. 2, c.c.): anche l’illiceità del motivo è causa di annullamento alle stesse condizioni (art. 626 c.c.). Il dolo e la violenza come vizi della volontà e cause di annullamento non hanno nelle norme in questa materia specifica trattazione: si ritiene pertanto, comunemente, che sia necessario il rinvio a quelle generali dettate per i contratti (art. 1434 s.; art. 1439 c.c.). L’azione di annullamento derivante dai vizi in questione può essere proposta da chiunque vi abbia interesse e si prescrive in 5 anni dal giorno in cui si è avuta notizia della violenza, del dolo o dell’errore (art. 624, co. 3, c.c.).
Per quanto concerne le modalità intrinseche della volontà testamentaria in generale, la legge ammette l’apposizione di una condizione sospensiva o risolutiva (art. 633 c.c.), mentre considera non apposto il termine nelle disposizioni a titolo universale (istituzione di erede): anche il modo (➔) può essere imposto validamente all’erede o al legatario nelle disposizioni testamentarie. La legge prevede particolari garanzie a favore delle persone alle quali, a seguito del verificarsi della condizione o dell’apposizione di un modo, debbano riconoscersi diritti sull’oggetto dell’eredità (art. 639, 640, 641, 642, 643 c.c.).
Gli effetti delle disposizioni testamentarie si producono al momento della morte del testatore, ma sono subordinati alla cosiddetta pubblicazione del t. (eccezion fatta per il t. pubblico). Essa consiste nella redazione da parte di un notaio di un verbale nel quale si descrive lo stato del t. e se ne riproduce il contenuto, facendo menzione della sua apertura se è stato presentato chiuso con il sigillo; il verbale è sottoscritto dalla persona che presenta il t., dai testimoni e dal notaio. Al verbale sono uniti la scheda testamentaria (vidimata in ciascun mezzo foglio dal notaio e dai testimoni), l’estratto dell’atto di morte del testatore o copia della sentenza che dichiara la morte presunta. Nel caso in cui il t. sia stato depositato dal testatore presso un notaio, la pubblicazione è eseguita dal notaio depositario. Il notaio deve trasmettere alla cancelleria del tribunale, nella cui giurisdizione si è aperta la successione, copia in carta libera dei verbali di pubblicazione e del t. pubblico (art. 620-623 c.c.).
Data la particolare natura del t., esso può essere revocato dal testatore in qualsiasi momento: è priva di efficacia ogni clausola o condizione contraria (art. 679 c.c.). La revoca può essere espressa o tacita. La revoca espressa è fatta soltanto con un nuovo t. o con un atto, ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni, nel quale il testatore personalmente dichiara di revocare in tutto o in parte la disposizione anteriore (art. 680 c.c.). La revoca tacita può derivare dalla distruzione di un t. olografo (a meno che si provi che non era intenzione del testatore revocarlo) e dal ritiro del t. segreto, quando la scheda testamentaria non possa valere come olografo (art. 682 s.). Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del t. non aveva o ignorava di avere figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o sopravvenienza di un figlio o discendente legittimo, anche se postumo, o legittimato o adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio naturale (art. 687 c.c.).
Il t. può contenere il riconoscimento di figli naturali, disposizioni per l’educazione dei figli, la nomina di un tutore, di un esecutore testamentario. Le disposizioni testamentarie di carattere non patrimoniale se contenute in un atto che ha la forma del t. hanno efficacia pur in mancanza di disposizioni di carattere patrimoniale.
Nella Bibbia il termine t. (traduzione del latino della Vulgata testamentum, che rende il gr. διαϑήκη e l’ebraico bĕrīt) è molto frequente con il significato di patto, promessa, alleanza; in particolare si riferisce al patto tra Dio e il suo popolo e al documento che attesta tale patto, la Bibbia (che si comprende il Vecchio, o Antico, T. e, per analogia, il Nuovo T.).
Con il suo significato più comune la parola compare nella denominazione tradizionale di alcuni scritti apocrifi. I T. dei dodici patriarchi sono un apocrifo giudaico, scritto forse in ebraico tra il 2° e il 1° sec. a.C. e conservato in greco, armeno e paleoslavo; il testo è costituito dalle raccomandazioni dei 12 figli di Giacobbe ai rispettivi discendenti e ha subito successivamente interpolazioni cristiane. Il T. del Signore è un apocrifo siriaco del Nuovo Testamento di autore monofisita, composto forse in greco (5° sec.; se ne hanno anche versioni in copto, in etiopico e in arabo); contiene elementi di carattere escatologico, oltre a prescrizioni liturgiche per il clero e i fedeli.