Per legge si intende generalmente l’atto di un organo (monocratico o collegiale) investito della c.d. funzione legislativa (Separazione dei poteri). A differenza della consuetudine, infatti, che nasce spontaneamente nella società, la legge è un atto volontario, caratterizzato dalla innovatività, dalla generalità e dall’astrattezza, cioè dal fatto che essa modifichi l’ordinamento giuridico rispetto al passato, che abbia dei destinatari indeterminati (generalità come impersonalità) e che sia suscettibile di essere applicata un numero indefinito di volte, in tutti i casi rientranti nella previsione normativa (astrattezza come ripetibilità).
La legge è stata considerata la fonte del diritto «per antonomasia» (Crisafulli), atto del Parlamento adottato a seguito di uno specifico procedimento, disciplinato dalla stessa Costituzione (artt. 70 ss.; Procedimento legislativo): in una prospettiva giuspositivistica (Diritto costituzionale), anzi, tutto diritto si identificherebbe nella legge. Storicamente, è solo con l’età moderna (Forme di Stato e forme di governo) che si è affermata l’idea della legge come fonte primaria. Nell’ambito dell’esperienza romana, infatti, la lex si contrapponeva alle altre fonti del diritto (quali l’interpretatio prudentium e i mores), anche se va detto che, mentre nella Repubblica e nel Principato il termine di lex era riservato esclusivamente alle deliberazioni delle assemblee popolari, nel tardo Impero il termine leges si contrapponeva a iura ed indicava le costituzioni imperiali. D’altra parte, di questo duplice aspetto (democratico e assolutistico) sono espressioni due noti brocardi, uno di Gaio («lex est quod populus iubet atque constituit») e l’altro di Ulpiano («quod principi placuit legis habet vigorem»). Anche nell’ambito dell’esperienza medioevale, la lex, intesa quale atto volontario, si contrapponeva all’interpretatio e alla consuetudo. Inoltre, si riteneva che essa non fosse altro che dichiarativa della legge divina.
È con la formazione degli Stati moderni e con la rivendicazione, da parte del Sovrano, del monopolio del potere legislativo, quale attributo della sovranità, che la legge diventa la fonte suprema del diritto – come ancora attestato agli artt. 1 ss. disp. prel. c.c. – in quanto immediata manifestazione della sua volontà. Con il superamento delle monarchie assolute e l’avvento dello Stato liberale di diritto, la preminenza della legge nel sistema delle fonti non cambia: alla volontà individuale del Monarca si sostituisce la volontà generale della nazione (o del popolo) che si esprime tramite essa (art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789), tant’è che si può parlare dello Stato di diritto del XIX secolo come di uno Stato legislativo, cioè di una forma di Stato incentrata sull’assoluta preminenza della legge generale e astratta, prodotto della libera discussione parlamentare; emblematiche, in questo senso, sono le analisi di J. Bentham, B. Constant, O. Bähr o von Mohl.
Con l’avvento delle Costituzioni rigide (Revisione costituzionale) e del sindacato di costituzionalità sulle leggi (Corte costituzionale), tuttavia, la legge ha perso importanza a favore della Costituzione medesima, tanto che alcuni studiosi sono giunti ad affermare che le leggi sarebbero oggi vincolate al fine della realizzazione di quella: la legislazione, cioè, non sarebbe più una funzione libera, ma discrezionale, sindacabile dalla Corte costituzionale per gli eccessi di potere che ne potrebbero viziare la legittimità (Ragionevolezza delle leggi).
Un ulteriore fattore che ha contribuito a trasformare la funzione legislativa nel corso del XX secolo è stato la graduale perdita dei caratteri tipici della generalità e dell’astrattezza, nonché la diffusione delle c.d. leggi-provvedimento: la prassi italiana ha visto, infatti, innumerevoli casi di discipline legislative transitorie e retroattive, nonché di leggi di intervento puntuale nei rapporti economici, di leggi contenenti programmi delimitati nel tempo o, addirittura, di leggi sostanzialmente ad personam. Tale prassi, nonostante le critiche manifestate da parte della dottrina – ad esempio, da V. Crisafulli – non è stata avversata dalla giurisprudenza costituzionale, per quanto concerne la legislazione sia statale che regionale, la quale ha ammesso anche la possibilità di espropriazioni ope legis. D’altra parte, la perdita dei caratteri di generalità e astrattezza della legge era stata individuata da alcuni studiosi – tra cui H.J. Laski, Neumann e Forsthoff – come conseguenza inevitabile del passaggio dallo Stato liberale di diritto allo Stato democratico di massa.